Sulla manifestazione antifascista di lunedì 17 luglio 2017

Cosa è successo prima?

I fascisti di Forza Nuova una decina di giorni fa hanno chiamato un presidio per inserirsi nel dibattito nazionale sullo ius soli. Ci hanno visto giusto: come era evidente, l’iter legislativo rischiava già il congelamento. La mossa rientra nella strategia delle destre che, sia a livello nazionale che a livello locale, gareggiano per cavalcare l’onda della cosiddetta “emergenza immigrazione”. Per valutare il livello della tensione, non dimentichiamo che da mesi si susseguono roghi (per fortuna incruenti) nelle case destinate a ospitare i migranti. La richiesta è di una manifestazione: da Piazza Mazzini a Piazza Garibaldi.

Le nostre realtà della sinistra padovana si mobilitano, prima fra tutte il centro sociale Pedro, che insieme alla rete dei centri sociali del Nord Est chiama la piazza senza consultare nessuno. Viene convocato un presidio in piazza Insurrezione, luogo che potenzialmente si trova sul percorso della manifestazione fascista.

I ragazzi di Arising Africans, che da mesi lavorano sullo ius soli, si sentono scavalcati; dopo una serie di discussioni, si giunge al risultato di una piazza antifascista unitaria, nella quale viene riconosciuto il fattore numerico determinante dei centri sociali.

In seguito alla convocazione del nostro presidio antifascista, viene deciso dalla Questura di modificare l’autorizzazione concessa ai fascisti, e di prevedere anche per loro solamente un presidio, in piazza Antenore.

Questa la situazione nel pomeriggio di lunedì. Decidiamo, come redazione di Figure, di partecipare alla manifestazione perché ci sembra che un obiettivo – l’annullamento del corteo di FN – sia già stato conseguito, e che sia sacrosanto intervenire al presidio antifascista.


Cosa è successo durante?

La gestione della piazza come concepita dai centri sociali del Nord Est era basata su una sorta di sistema di leve, imperniato su tre attori: il presidio fascista, la polizia, il presidio antifascista. La tattica, a quanto si sa non discussa apertamente con nessuno degli altri soggetti intervenuti, era la seguente: i fasci non devono avere spazio a Padova, al di là di un presidio. Se si limiteranno a questo, anche noi resteremo qui; se invece faranno una manifestazione, faremo di tutto per impedirlo; in questa situazione, il questore e gli sbirri saranno ugualmente responsabili perché colpevoli di concedere a FN di fare quello che non doveva, cioè una manifestazione, e dunque gli unici che possono impedirlo siamo noi, e cerchiamo di farlo.

Le cose si sono svolte esattamente così: i fascisti ignorano gli ordini della questura e inscenano una manifestazione; il presidio antifascista di conseguenza si muove, si giunge alla carica di piazza Erbe, i petardi, i fumogeni, i tre fermati e i feriti da entrambe le parti. I poliziotti sono attaccati perché posti a impedire il contatto con la manifestazione fascista e perché responsabili di non averne ostacolato lo svolgimento

L’idea, più volte espressa dai megafoni, è la seguente: se il questore non vieta le manifestazioni fasciste, si troverà davanti ogni volta a problemi di ordine pubblico che non può permettersi di gestire: dovrà così impedirle. La violenza della piazza serve a impedire la violenza fascista.

Conseguenze di un modello chiuso

La violenza messa in atto nella piazza di qualche giorno fa risulta efficace se concepita all’interno di un sistema chiuso: quello in cui ci siamo noi, antifascisti, ci sono loro, i fascisti, e ci sono gli altri, la polizia e lo stato, a loro vicini. Una visione del genere, al di là di qualsiasi base teorica più o meno elaborata, è pericolosamente binaria. Da una parte ci siamo noi buoni, aperti, antifascisti; dall’altra ci sono loro, reazionari fascisti: «devono tornare nelle fogne» – l’abbiamo urlato tutti. Chi non sta con noi sta contro di noi, e infatti la polizia, come in ogni situazione, si schiera per impedire il contatto fra i due gruppi, dunque è contro di noi.

Una volta arrivati ad una manifestazione con queste premesse, l’evoluzione della piazza è necessariamente lineare, arrivando allo scontro – quello scontro che sempre più gente, anche nel movimento ma soprattutto sui giornali e nell’opinione pubblica, percepisce come un teatrino vuoto, ritualizzato, in cui anche gli sbirri conoscono la propria parte; perché si ripete nelle stesse forme da dieci anni, almeno per quanto ne sappiamo noi. Dunque, la riflessione non riguarda tanto la gestione della piazza, nella quale siamo comunque rimasti fino in fondo, quanto il processo che ha condotto a questa situazione, con il suo sbocco inevitabile.

Il modello chiuso e conflittuale (noi-loro-gli sbirri) non funziona, ed è tendenzialmente nichilista. Un modello simile, proprio perché è pensato in termini di chiusura, non esiste; la sua conseguenza è il rifiuto della possibilità stessa di un’apertura, della considerazione dell’efficacia delle proprie posizioni rispetto alla realtà, dunque della ricerca stessa – anche teorica, anche solo potenziale – dell’egemonia. Il nichilismo è quello di una lotta politica che rifiuta di discutere con la realtà perché sa di avere due alternative: resistere o perdere, scomparire o trovare il proprio senso nella riserva indiana, nello spazio occupato e riappropriato, i cui confini (territoriali e psichici) vanno difesi con la forza dei corpi e delle bombe-carta.

Una visione del genere deve essere rifiutata; pur condividendo, con coloro che la propugnano, una serie di posizioni:

– l’antifascismo e l’antirazzismo

– la percezione della pericolosità della situazione politica attuale, sempre più schiacciata sui due poli (entrambi, diversamente, di destra) del neoliberismo e dei populismi xenofobi

– la necessità, in alcuni casi, dell’uso della forza in piazza, almeno come strumento di difesa

Le conseguenze stanno già nelle premesse politiche

Ciò che è stato sbagliato, nella manifestazione di mercoledì, non risiede nella gestione della piazza ma nelle premesse della manifestazione stessa. Proponiamo un ragionamento generale sulla situazione padovana. La città a livello elettorale ha da poco rifiutato Bitonci per votare una coalizione fra liste legate al PD (maggioritarie, 29% al primo turno) e Coalizione Civica (23% al primo turno); c’è stato un cambiamento a livello politico, e con le istituzioni comunali (soprattutto nella loro parte civica) si è aperta ora una possibilità di dialogo – testimoniato dalla presenza di due consiglieri alla manifestazione.

In occasione della presenza di FN quale dovrebbe essere l’obiettivo politico? Lo chiediamo qui perché la domanda dobbiamo farcela tutti, e almeno noi non l’abbiamo capito. Deve essere che i fascisti non possano arrivare perché altrimenti li spranghiamo («a Padova l’antifascismo mena»), o che la città rifiuti (in forze) la manifestazione fascista? È ovvio che non si può pensare immediatamente alla seconda possibilità, ma si può lavorare in quella direzione.

La scelta dei centri sociali del Nord Est di gestione della piazza è stata per la prima opzione. Quali sono stati i passi fatti per coinvolgere il numero più ampio di realtà nella reazione antifascista? Lasciamo stare il consiglio comunale, nel quale siedono esponenti impresentabili, gente che fino al qualche mese sedeva al fianco di Bitonci; pensiamo però ai soggetti che vanno da Coalizione Civica a Sinistra Italiana, a Rifondazione, alle altre forze di movimento padovane: dobbiamo deciderci a chiederci su che cosa ci si divide e su che cosa ci si unisce: sull’opportunità di praticare la politica ufficiale? Sull’eredità autonoma? Sull’antifascismo più o meno militante? Sulla violenza? Sul rifiuto del sistema? Su un’idea di uomo? Sul grado di accettazione del sistema economico? Sulla rabbia? Sul marxismo? Su Foucault? Su Antonio Negri? Sulla collaborazione col PD? Attenzione, non sono domande retoriche: un discorso del genere, strategico e di lunga durata, a Padova è difficile farlo. Secondo noi è necessario impostare un ragionamento politico che rifiuti l’immediatezza e le dicotomie nette e che imposti delle mediazioni: lunedì scorso era un’occasione per farlo.

La forza del movimento dei centri sociali del Nord Est è tale da permettergli di agire autonomamente, ignorando o evitando il confronto con le altre forze cittadine.  I passi per coinvolgere queste realtà, e dunque – almeno potenzialmente – per rispolverare alcune di queste domande non sono stati compiuti. Né per quanto riguarda gli altri movimenti, né (a quanto si sa, e per quel poco che forse sarebbe stato possibile) per quel che riguarda il settore potabile della nuova amministrazione. Da questo punto di vista, ci sembra importante rilevare come qualcosa sarebbe comunque stato possibile farlo: l’amministrazione è scompaginata, deve assumere una coerenza, amalgamare le diverse anime; sarebbe stata un’ottima possibilità per obbligare la parte meno centrista a schierarsi, almeno a parole, per creare tensione all’interno di un panorama che sembra procedere nella direzione di una coerenza pericolosa. Avremmo potuto spingere per una dichiarazione pubblica, un intervento che avrebbe potuto mettere in luce le contraddizioni principali dell’arco politico che ha la maggioranza nel consiglio comunale; non lo si è fatto, adesso sarà più complesso. La condanna congiunta di Giordani e Lorenzoni ne è la conseguenza.

Queste argomentazioni possono essere accolte con un sorrisino, e invece vorremmo che fossero discusse: perché, in una situazione del genere, non cercare di allargare l’arco antifascista? Perché non ribadire che il problema non è tanto Forza Nuova, che a Padova – anche grazie alla militanza degli scorsi anni da parte del Pedro, questo va chiaramente riconosciuto – non ha grande successo? Perché non tracciare quadri più ampi? Perché non parlare delle concomitanze fra i fascismi vecchi e nuovi? Perché non ribadire che oggi l’antifascismo è attuale proprio perché il fascismo, bestia multiforme e camaleontica, si è reincarnato nelle nuove destre esplicite o implicite; e che l’antifascismo, di conseguenza, non è una reminiscenza ma una questione di attualità?

Allargando l’ottica e in altre parole, la domanda è la seguente: non è ora di impostare un ragionamento politico al di là delle identità formalizzate, tornando a concepire la mediazione (nel suo senso alto, non sinonimo di compromesso) quale strumento possibile nella lotta politica; non è necessario chiedersi ad ogni nuova occasione fino a che punto sia possibile discutere con le diverse realtà, quali possono essere gli obiettivi condivisi, quali i punti su cui cedere, quali le questioni sulle quali, giustamente, dividersi?

Apertura alla mediazione?

Un’apertura di questo o d’altro tipo non può esserci per motivi legati alla struttura stessa di molti dei movimenti attivi in Italia, per come è stata impostata da qualche decennio. Una struttura che per resistere definisce chiaramente se stessa in contrapposizione al resto, come dicevamo prima, in una pericolosa logica binaria: se i fascisti vogliono prendersi le piazze l’unico modo per evitarlo è riempirle «con i nostri corpi», portando una specie di testimonianza fisica. Il problema è che, così, i corpi sono solo i nostri, e sono anche sempre meno; non ci si slega da una dinamica oppositiva, non si affrontano pragmaticamente i problemi di un’egemonia e di una proposta; si adotta insomma, lo ribadiamo, un’ottica di resistenza e non di apertura all’esterno – che comporta grandi rischi (anche di compromissione) ma senza la quale si resta, appunto, nelle riserve. Il solo fatto che una manifestazione come quella di lunedì 17 luglio sia partecipata solo da militanti – in una città medaglia d’oro per la Resistenza, in una città che ha appena tolto la fiducia a un sindaco leghista – è il segno che qualcosa è andato storico, nei giorni e negli anni precedenti. È ora di abbandonare i settarismi e passare alla franchezza della discussione su idee, modi e strategie.

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