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In Veneto è normale sentire parlare in dialetto. Il panettiere, l’oste, il vigile urbano, la signora di mezz’età nelle situazioni quotidiane parlano la lingua nella quale si sentono più a proprio agio; questa lingua spesso non è l’italiano. Per chi arriva in Veneto da fuori – per i foresti – i primi incontri con gli autoctoni sono momenti di incomprensione che spesso si risolvono in facce dubbiose e gag comiche. Anche qualche migrante di più lunga durata sembra aver costruito le sue possibilità comunicative più con il dialetto che con l’italiano. In Veneto il dialetto è una lingua che mostra un’espressività significativa chiaramente non sovrapponibile ai discorsi politici sull’autonomia e sulla secessione che tentano di egemonizzarlo come simbolo di purezza, identità, anti-italianità veneta. La lingua di cui stiamo parlando non ha una grammatica, muta con le persone che la parlano, con i paesi, con le generazioni, con le situazioni nella quale è impiegata, si mischia con l’italiano e con l’inglese, si presta alle manipolazioni dei parlanti più estrosi: è una lingua viva.
Il dialetto può essere allora figura di una regione, delle persone che la abitano e delle sue contraddizioni; come già ci insegnava Luigi Meneghello, un punto di vista particolare attraverso il quale scrutare le complessità di un territorio, la sua vitalità e le sue devastazioni.
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