Marco Gatto
Marco Gatto svolge attività di docenza e ricerca presso l’Università della Calabria. Si occupa prevalentemente di teoria della letteratura. Ha pubblicato: Fredric Jameson. Neomarxismo, dialettica e teoria della letteratura (Rubbettino, 2008), L’umanesimo radicale di Edward W. Said. Critica letteraria e responsabilità politica (Mimesis, 2012), Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo Occidente (2012), Glenn Gould. Politica della musica (Rosenberg & Sellier, 2014), L’impero in periferia. Note di teoria, letteratura e politica (Galaad, 2015), Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria nell’Italia del Novecento (Quodlibet, 2016). Sta per uscire Resistenze dialettiche. Saggi di teoria della critica e della cultura (manifestolibri, 2018). Lo ringraziamo per averci proposto questo intervento, contribuendo ad arricchire l’inchiesta con nuovi spunti di riflessione
Mediazione, disciplina, limite, dialettica, popolo, egemonia, lavoro: queste, per me, sono le parole della Sinistra. Pronunciarle significa entrare in rapporto con una tradizione di pensiero e con la sua lezione. Per noi italiani, significa guardare a un maestro irrinunciabile: Antonio Gramsci. Il quale ha insegnato a concepire il lavoro politico in termini di processo, di costruzione concreta e quotidiana, e di critica permanente del senso comune.
La crisi in cui versa la sinistra nel nostro paese insegna che l’adesione passiva allo spirito dei tempi, alimentata da buone dosi di fraintendimento e di falsa coscienza, non può produrre una reale alternativa; che non si può ridurre il corredo valoriale trasmesso dalle generazioni passate a una sterile e transitoria tattica delle alleanze, tanto più se progettata a tavolino; che una forte discontinuità dal modello liberale e liberista si ottiene solo costruendo sul tempo lungo una logica di partecipazione diversa, che non può essere – lo dico con forza – quella dello stile populista.
Ciò per affermare che la Sinistra oggi deve mirare a una rielaborazione cosciente dei suoi valori. Deve rimettere in gioco parole e concetti sentiti irresponsabilmente come vetusti, senza il timore d’essere giudicata anacronistica; deve porsi il problema dell’organizzazione del conflitto, senza guardare al “basso” dei movimenti con gli occhiali mitizzanti del desiderio, ma riparlando piuttosto di lotta di classe; deve ristabilire nessi di mediazione tra gli obiettivi e le pratiche quotidiane; ricostruire la parola “militanza” senza trascurare il pensiero e l’approfondimento avvertito, perché, come ha scritto Franco Fortini, “non si lotta efficacemente contro l’autoritarismo se non se ne sa il perché”; rimettere sul tavolo dei problemi la questione meridionale, senza seducenti formule culturalistiche; deponendo per sempre parole come “narrazione”, deve incaricarsi di costruire, anche utopisticamente, una pedagogia generalizzata e concreta da opporre all’individualismo dei nostri tempi; deve elaborare forme di partecipazione ben contestualizzate, dalle quali partorire nuovi quadri; promuovere i valori del ragionamento, persino della pacatezza, contro lo spontaneismo rizomatico ed eccitante della falsa partigianeria, del tutto aderente all’orizzonte neoliberale e facile da strumentalizzare.
Questo lavoro, affinché non sia solo un proposito mentale, ma sia un’effettiva pratica di ricostruzione, è bene sia potenzialmente perseguito da tutti, fuori e dentro le istituzioni: purché si accetti di verificare costantemente le proprie idee e i propri comportamenti sul piano del contrasto alle forme di nuova prigionia imposte dal modello produttivo egemone (che sono, vorrei aggiungere, articolate anzitutto per mezzo dell’immaginario culturale, da contestare e ricostruire). E ciò vuol dire essere accorti – quindi avvezzi alla riflessione – nel rappresentare un punto di vista, secondo un modo di fare politica che oggi è ritenuto anacronistico, ma che è il solo, forse, a poter offrire risposte compatte. Per dire, infine, che la battaglia elettorale è un’occasione per ridefinire i contorni e per pensare soprattutto al futuro: ossia per costruire, dalle lotte per il lavoro e per i diritti, nuovi elementi di orientamento possibile, abbandonando per sempre la favola (in tutto e per tutto interna al sistema che si vuole contestare) di un’umanità libera, felice e rivoluzionaria per statuto. Il percorso è molto più difficile, arduo e lungo: migliaia di compagni hanno però iniziato a percorrerlo.
Per questi motivi sostengo che Potere al Popolo sia il solo contenitore entro cui tali possibilità sembrano agitarsi, augurandomi non si limiti a costituire un semplice cartello elettorale. Perché, al netto delle fisiologiche contraddizioni che animano un progetto ancora in fase di edificazione, eppure caratterizzato da un forte entusiasmo popolare, è solo con la discontinuità rispetto alle politiche liberiste che ci si può impegnare in una possibile costruzione di un soggetto politico di classe. I concetti di organizzazione del conflitto e di mediazione politica tra i diversi corpi sociali possono cioè inaspettatamente trovare un senso e diventare attuali nel momento della loro urgenza e della loro estrema, indispensabile necessità. Non possono invece trovare cittadinanza, se non come spettri di un passato ormai ritenuto sterile, in altri contenitori di ispirazione socialdemocratica, non solo incapaci di una reale proposta socialista, ma abitati da una classe politica che guarda ancora con simpatia all’idea fallimentare del centrosinistra, avendo da tempo smesso di ragionare su conflitti, lavoro, disuguaglianze, se non fuori dalla logica elettoralistica e propagandistica. Non possono trovare cittadinanza in chi accetta, ad esempio, la designazione mediatica di un leader al ribasso, peraltro in ossequio alle sue doti di impolitico. Potere al Popolo ha certo altri problemi. Ma per la prima volta mi pare di scorgere, pur nella magmatica esperienza di questi giorni, un tentativo di collegare lotta e organizzazione, entusiasmo e lavoro disciplinato, imparando sia da recenti esperienze “altre”, senza ripeterne possibilmente gli errori, sia dal meglio che la tradizione marxista ha offerto nel nostro paese in qualità di forme stabili di interpretazione della realtà politica. Scegliendo di rappresentare senza facilonerie i bisogni dei disoccupati, dei precari, degli esodati, dei migranti, dei subalterni, di tutti gli sfruttati, Potere al Popolo sta percorrendo la strada del radicamento concreto nei conflitti, senza cedere alle tentazioni dell’apparato mediatico e a fasulli dirigismi. Insistere, nelle forme più ragionevoli, sull’organizzazione dei conflitti mi sembra l’obiettivo principale da perseguire. Ed è questa la strada da percorrere in vista della composizione effettiva di una nuova, possibile sinistra.