di Andreas Reckwitz
ANDREAS RECKWITZ
È un sociologo e storico culturale tedesco. È professore di sociologia culturale presso l’Europa-Universität Viadrinadi di Francoforte sull’Oder. Reckwitz ha contribuito in modo significativo allo sviluppo della prasseologia come teoria sociale e culturale, una prospettiva che sostiene anche nel suo influente lavoro sulla soggettivazione e la creatività.
Blow-up, film a soggetto di Michelangelo Antonioni, è apparso nel 1966 [1]. Al centro stanno il fotografo di moda Thomas – interpretato da David Hemmings – e la Londra dell’epoca. Thomas ha il senso dei motivi, degli oggetti, della loro stilizzazione e della loro manipolazione. Fotografa in un ricovero per senzatetto da cui prende i suoi modelli femminili, che sotto le sue mani diventano spettacolari immagini di se stesse. Segue molto da vicino la gentrificazione del suo quartiere londinese. Qui rovista nei negozi di antiquariato e ad un concerto degli Yardbirds finito in caos ruba, come un trofeo, il manico rotto di una chitarra (per sbarazzarsene poco dopo). Un giorno, in un parco, fotografa casualmente qualcosa che poi, nell’ingrandimento tecnico della foto, si rivela essere un cadavere. Il reale sembra irrompere nell’universo della circolazione semiotica e immaginaria, e ciò sembra elettrizzare Thomas. L’enigma rimane, comunque, irrisolto. Il cadavere era forse solo un’illusione. Proprio sul finire Thomas è messo di fronte ad un happening “pantomimico”; un gruppo di giovani attivisti culturali finge di giocare a tennis, senza alcuna palla o racchette. Improvvisamente Thomas e lo spettatore – contro ogni probabilità – sentono battere una palla da tennis.
La rappresentazione di Thomas in Blow-up si trova, nella storia del soggetto della cultura occidentale, ad un punto di svolta: quello tra l’artista vecchio-europeo e il creativo tardo-moderno. Blow-up è uno dei primi lungometraggi a mettere in scena la figura-icona del soggetto creativo nel mezzo del suo contesto urbano. Al contempo, questo soggetto creativo porta ancora, nella prospettiva di Antonioni, chiari tratti del classico tipo dell’artista. Il creativo si frange nell’artista. Thomas, in quanto fotografo pubblicitario e per riviste, è uno dei trendsetter di quel milieu creativo, tra economia culturale e Counter Culture, che si delinea a metà degli anni Sessanta soprattutto a Londra e New York. Thomas Frank in The Conquest of Cool ha descritto con precisione questa fase di incubazione della scena creativa tardo-moderna all’interno dell’economia pubblicitaria inglese e americana e dell’industria della moda di questo decennio: ciò che nel corso degli anni Sessanta permette al milieu dei creativi di svilupparsi come forma di vita di successo e attrattiva, d’avanguardia e capitalisticamente avanzata, è la combinazione tra un’industria dei consumi affermatasi già dagli anni Venti da un lato, e l’estetizzazione sperimentale delle controculture dall’altro[2]. Il Thomas di Antonioni si configura come uno dei seguaci di questa forma di vita. Ciò che è nuovo e caratteristico per il creativo è la sua capacita di scoprire e configurare oggetti qualunque del suo ambiente urbano come superfici semiotiche e immaginarie – i coloratissimi vestiti delle sue modelle così come le figure cenciose del ricovero. Ora, ciò accade – non casualmente – tramite il medium della visualità tecnicamente riproducibile e manipolabile, la fotografia. Qui, Thomas riesce nello stesso tempo ad avere successo nel quadro dell’economia dell’attenzione del mercato creativo: in qualità di fotografo di moda, possiede lui stesso qualità da star, di cui approfitta, non da ultimo, nei confronti delle sue groupies. David Hemmings/Thomas è una figura “cool”: sovrano di sé in tutte le situazioni, un creatore-manipolatore di superfici semiotico-immaginarie. Ma contemporaneamente la rappresentazione in Blow-up è incrinata. Il Thomas di Antonioni contiene chiari tratti del vecchio, classico-moderno tipo dell’artista che non si adattano alla postmodernità del creativo. In quanto tale, Thomas costituisce una figura malinconica: introverso, a distanza dal mondo. Non tutto, qui, è superficie semiotico-immaginaria: l’irruzione della realtà lo disorienta. Il moderno problema della rappresentazione assilla Thomas e lo spettatore: il problema del reale – sia esso un cadavere o una partita di tennis – a cui i segni rimandano, la questione del carattere costruito delle proprie signifying practices. In questo modo, lungo il percorso della sua rifrazione nella figura dell’artista, il Blow-up di Antonioni, trovandosi già di fronte alla sua circolazione nella società, espone il creativo ad una autoriflessione dubitativa.
I finlandesi fuori dai bar in Pohjoisesplanadi sedevano tutti guardando la strada, in modo da prendere in faccia quel sole fresco e potente che ad Alberto non stava facendo nessuno degli effetti tipici dei soli del nord. Mentre camminava e li guardava, aveva l’impressione che si fissassero a vicenda come un visitatore allo zoo e il gorilla in gabbia. Alberto suppose che i finlandesi si sedessero così, sullo stesso lato dei tavolini, soltanto per poter guardare le medesime cose e commentarle assieme, non avendo, per il resto, nulla da dirsi.
Non appena sulla destra comparve il mare, si ritrovò sferzato da un forte vento cui preferì sfuggire, rientrando nel cuore della città; fu così che, arrivando nella piazza del duomo, rimase abbacinato, più ancora che dal biancore delle colonne e dei palazzi, dalla continuità tra il verde acquoso delle cupole e la spianata traslucida del cielo. Probabilmente l’avrebbe vinto Albecom, il premio Spirit of excellence per il partner migliore nell’erogazione del servizio e vendita di licenze SAP in ambito e-commerce nella zona EMEA; ma cosa se ne sarebbe fatto?
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Il “creativo” rappresenta, già dagli anni Ottanta, una forma di soggetto egemonica della cultura tardo-moderna. In prima battuta, un creativo è colui che possiede quella qualità che, alla fine del XX e all’inizio del XXI secolo, tutti dovrebbero avere e, com’è ovvio, trovare desiderabile, ma che alla fine solo pochi riescono a raggiungere: essere “creativo”, dispiegare il proprio potenziale di “creatività”. Creatività designa l’insieme delle proprietà di una soggettività a cui si aspira e che al contempo, si dà generalmente per scontata; una soggettività in grado di creare il nuovo e, in ciò, di rinnovare incessantemente se stessa in modo sorprendente. Una simile creatività potrebbe potenzialmente estendersi a tutti gli ambiti possibili dell’esistenza umana e, in essi, portare ai più disparati risultati. Nel tipo sociale del creativo, comunque, questo insieme di qualità si concretizza in una forma molto specifica e classificabile entro la semiotica della vita quotidiana: il creativo è in primo luogo portatore di un determinato profilo professionale e di un determinato modo di lavorare in “professioni creative”, di un’attività nelle creative industries. Allo stesso tempo il creativo è portatore di uno stile di vita che è strettamente legato, pur travalicandolo, con questo profilo professionale, di una stilizzazione della vita e di se stesso. Se creatività significa creare il nuovo in modo imprevedibile, il creativo come tipo sociale segue paradossalmente un modello assai prevedibile e identificabile senza problemi – da un punto di vista socio-culturale – nell’arco temporale del volgere del millennio: quello di un attivismo estetico. Dal punto di vista della storia della cultura, nel corpo, nella psiche e nella performance del creativo la sensibilità semiotica e l’edonismo sperimentale delle avanguardie e delle controculture si incrociano con il sovrano autocontrollo e il fiuto imprenditoriale della borghesia capitalista. Nel creativo, il vecchio artista europeo e il bohèmien vengono iniettati nell’economia post-fordista: un ibrido estetico-economico di un’estrema attrattiva culturale per la nostra epoca.
Nel quadro di una storia culturale della modernità, il creativo rimanda in prima battuta all’artista. Le caratteristiche centrali sviluppate dall’artista in quanto figura sia marginale che eroica nel Rinascimento, nel Romanticismo e nelle avanguardie, si generalizzano e si trasformano nella figura del creativo. In questa prospettiva archeologica diviene chiara l’improbabilità storica dell’egemonia culturale del creativo osservabile fin dagli anni Ottanta. Infatti, all’interno della prassi e della rappresentazione della società classicamente moderna, dal XVIII alla metà del XX secolo, l’artista non fu capace di egemonia; fu, piuttosto, una figura culturale di nicchia. La forma del soggetto dell’artista in senso moderno è un prodotto delle arti figurative del Rinascimento, ma soprattutto, intorno al 1800, del Romanticismo: anziché un’estetica classicista votata all’imitazione e della perfezione, segue un’estetica orientata alla creazione, alla realizzazione di ciò che è sorprendente. Il contesto romantico ci consegna un’estetica individualista dell’espressione, secondo cui l’artista esprime all’esterno, nelle sue opere, il suo idiosincratico “interno”. Questa creazione artistica come processo pratico di creazione presuppone, accanto a un’abilità artistica – o completamente al suo posto –, soprattutto una sensibilizzazione, una liberazione e una sperimentazione della percezione sensibile (aisthesis). L’artista è dunque creativo in quanto crea un’opera, ma, all’interno di un processo ricco di conseguenze che si può cogliere nel corso del XIX secolo, la moderna condizione dell’artista ha anche un secondo significato: presentare se stesso, nel proprio stile di vita complessivo, come artista ed essere identificato in quanto tale, cosicché la vita possa essere realizzata “come un’opera d’arte”. Ciò può accadere in modo del tutto indipendente da eventuali opere artistiche, e il luogo socio-culturale per eccellenza di questa condizione artistica è la bohème, soprattutto a Parigi. Il soggetto-artista si trasforma, in quanto bohèmien, in portatore di uno stile di vita volutamente non borghese e anticonformista, che si separa dalla morale, dal lavoro e dalla famiglia borghesi.
Così l’artista è, all’interno della cultura borghese, una figura marginale, di nicchia, ma al contempo esteriormente interessante, vissuta dal punto di vista affettivo in un senso contraddittorio: oggetto di un processo sia di eroicizzazione sia di patologizzazione. La figura dell’artista può essere resa eroica poiché contiene qualità che rappresentano un potenziamento dei valori della cultura borghese, che allo stesso tempo non risultano generalizzabili all’interno della società borghese e classico-moderna. L’individualismo e il produttivismo borghesi trovano nell’artista il loro segreto idolo. Il borghese anela all’artista che egli stesso non è in grado di diventare, dato che la modernità borghese, nelle sue pratiche centrali del lavoro e della famiglia, non può poggiare su di uno sperimentalismo estetico, bensì si modella intorno a una razionalità strumentale e alla conformità a regole. In questo modo, l’artista sale di grado nel contesto borghese, fino alla condizione di oggetto di un’ammirazione auratica – e contemporaneamente di un veemente rifiuto, che trova manifestazione nel “Kulturkampf” tra borghesia e bohème. L’artista-bohèmien si prende gioco delle fondamenta razionali e morali della modernità e, dal punto di vista di quest’ultime, deve essere avvertito come scandalo, rischio e minaccia. La patologizzazione dell’artista, in quanto figura deficiente dal punto di vista psichico e degenerata (fino a giungere alla “degenerazione” di Nordau), gli rifiuta, in fin dei conti, la legittimità a esistere.
Muovendo dal retroterra di questo status del soggetto-artista irrimediabilmente minoritario e sentito come massimamente ambiguo, diviene chiara l’eccezionalità del processo storico-soggettivo in cui l’artista si rovescia nel creativo. Più fattori rendono possibile questo spostamento e quello più importante è anzitutto la trasformazione dell’economia capitalistica dall’industrialismo e dal fordismo al post-fordismo. Quest’ultimo prende la forma di un’economia dei segni, delle innovazioni semiotiche, e richiede un tipo economico di soggetto che sia competente per quanto riguarda una simile innovazione dei segni. Se l’industrialismo del XIX secolo fu un’economia dell’industria pesante – con i suoi tipi soggettivi del lavoratore e dell’imprenditore – e il fordismo dal 1900 al 1970 rappresentò una economia della produzione di massa – che produsse il tipo dell’impiegato nella grande azienda – l’economia post-fordista poggia su di una produzione specializzata di beni di consumo (tanto materiali quanto immateriali), che si configurano primariamente come portatori di segni per gruppi differenziati nel loro stile di vita. L’economia post-fordista è imperniata su di un consumo estetizzato, che fiuta negli oggetti di consumo offerte di identificazione e possibilità di esperienze disparate e variabili.
Il problema cruciale per l’esistenza dell’organizzazione post-industriale sta dunque nel realizzare creazioni di segni che siano innovative: viaggi di avventura e pacchetti di sicurezza finanziaria, prodotti attrattivi e mobili esclusivi, outfit giovanili e alimentazione salutista. A questo fine c’è bisogno, al cuore e al vertice di questa organizzazione, di una forma di soggetto con competenze adeguate: il creativo. Si trova nella pubblicità come nel design (di moda, arredamento, oggetti di uso quotidiano, automobili, ecc.), nell’architettura e nella consulenza, nei media, nel turismo e nelle nuove attività culturali, quindi in campi che vanno ben oltre ciò Adorno chiamava “industria culturale” e che nel frattempo vengono raccolte, a mo’ di slogan, sotto la parola chiave delle creative industries. Nella netta formulazione di Richard Florida, si tratta del nucleo professionale di una creative class che, all’inizio del XXI secolo, è costituita da poco meno di un quinto degli occupati nelle società occidentali[3].. Si addensa intorno alle grandi città orientate alla scienza e alla cultura, tra Stoccolma e Barcellona, tra Seattle e Boston, nelle creative cities che mettono a disposizione specifici quartieri in cui si concentrano creative industries, la scena artistica, attività culturali sovvenzionate dallo stato e consumo estetizzato.
La forma organizzativa di queste industrie creative non può più accontentarsi della corporation del fordismo, gerarchica e differenziata in senso funzionale. Al suo posto entrano in gioco organizzazioni strutturate in modo post-burocratico: il lavoro è maggiormente organizzato in forma di “progetti”, cioè di incarichi che hanno un carattere temporalmente limitato e richiedono l’intera forza lavoro di un “team” (o anche di una singola, autonoma persona, il culturepreneur). Alla fine del progetto si trova il prodotto innovativo, il prodotto della creazione collettiva (o individuale). Le attitudini del creativo sono quindi in prima battuta molto distanti da quelle del classico organization man interno all’efficiente macchinario delle grandi corporations. Il suo profilo tende piuttosto, nella sua sostanza, a ciò che Robert Reich chiama un symbol analyst[4]. Il suo compito centrale è di osservazione, raccolta, combinazione e creazione di segni e idee. Le possibilità tecnologiche della cultura digitale, che facilitano una simile raccolta e combinazione, portano pure la routine della mobilità spaziale a un livello globale (soprattutto il trasporto aereo, presupposto materiale del lavoro creativo). Questo lavorare creativo modellato su progetti presuppone e al contempo produce un potenziale emotivo e affettivo nei gruppi su cui poggia: diversamente rispetto al caso dell’organization man, nel creativo non è richiesta alcuna razionalizzazione del Sé priva di emozioni, ma un entusiasmo permanente nel cercare, nel cooperare e nell’inventare. In questo modo diviene fragile anche la separazione tra professionale e privato, tra tempo di lavoro e tempo libero.
Ad un primo livello, dunque, ha luogo nel creativo una generalizzazione di competenze proprie del moderno artista, primariamente del suo affrancamento da un modello di azione strumentale e basato su regole, tramite un modello di azione espressivo e innovativo a livello simbolico. Ma naturalmente il creativo tardo-moderno consegna né più né meno che una copia dell’artista romantico. Distintivo è piuttosto che il creativo suoni contemporaneamente su due tastiere: quella estetico-espressiva della creazione e quella economica del mercato. Ciò che conta non è la creazione del nuovo tout court, non è l’opera individuale in tutta la sua ingombranza (un mito romantico, che anche l’artista del XIX secolo si poteva permettere solo in casi eccezionali), ma un prodotto innovativo che corrisponda ad una richiesta sul mercato dei prodotti e dell’attenzione. Il creativo segue quindi nel suo lavoro e nel profilo delle sue capacità una obligation to dissent (McKinsey) di forma specifica, rende un marchio la differenza rispetto ad altri prodotti e ad altri creativi, gestisce un lavoro a partire dalla sua insostituibilità individuale (e dal suo corrispondente “marchio”). La differenza che lui stesso e i suoi prodotti evidenziano, deve in questo caso essere una differenza che è stata richiesta, a cui si indirizzano una attenzione positiva e un desiderio di consumo. A partire da questo scenario, un compito centrale del creativo consiste nella costante osservazione del contesto in cui la sua organizzazione è inserita, dei trend culturali e degli spostamenti dei bisogni, delle nicchie e delle mode estetiche, anche tramite mezzi standardizzati come la ricerca di mercato. Il creativo, che ad un primo sguardo riproduce in se stesso il modello del moderno artista in forma generalizzata, è dunque il prototipo di ciò che Nikolas Rose definisce enterprising self: Egli agisce in modo imprenditoriale in rapporto ai suoi prodotti – da una strategia di promozione su una trasmissione televisiva fino a una sedia di design –, cioè si mette in caccia della richiesta di novità, e al contempo agisce in modo imprenditoriale in rapporto alla sua propria persona[5], che deve posizionare e sviluppare in modo che essa stessa diventi un prodotto richiesto sul mercato del lavoro delle professioni creative e, alla fine, sul mercato dell’attenzione dei soggetti appetibili.
All’interno della più estesa massa di creativi di tutti i settori si costituisce in questo modo un gruppo più ristretto di super-creativi, che ottengono visibilità oltre la singola organizzazione creativa – la singola agenzia di consulenza, azienda di produzioni televisive, ecc. Qui la personalità e il suo stile soppiantano in misura crescente l’opera e il prodotto creativo. Al posto del “marchio” – artistico in senso stretto – Picasso (verosimilmente il primo artista del XX secolo che è riuscito a essere sia avanguardia sia imprenditore di stesso di grande successo) sono così entrati in scena i marchi creativi Philippe Starck, Harald Schmidt, Tom Peters o Sarah Wiener, o, sul piano collettivo, Ebene Scholz & Friends, TASCHEN o Body Shop. Quei creativi al vertice dell’economia dell’attenzione – creativi che non lavorano più in un’organizzazione creativa, ma la creano o sono del tutto auto-imprenditori – ottengono qualità “da star” nel quadro di un’opinione pubblica specializzata, o anche più estesa. In questo modo l’attenzione si sposta sempre di più dai prodotti creativi alle caratteristiche ordinarie-straordinarie degli stessi individui creativi – un fenomeno con cui d’altra parte si familiarizza fin dal Rinascimento, grazie alle biografie degli artisti.
Il tipo sociale del creativo è quindi più di un fenomeno unicamente professionale-economico, più dell’introduzione di determinate competenze proprie dell’artista nelle creative industries, in cui si incrociano Sé imprenditoriali e creatori di simboli. Il tipo del creativo si estende oltre la professione, fino ad una forma di vita complessiva, cioè ad un insieme di pratiche sia professionali sia di consumo, personali-private, indirizzate al tempo libero e al corpo. Sul piano della sua soggettivazione fisico-psichica, nella sua autorappresentazione come anche nella sua rappresentazione tramite altri contesti, mezzi di comunicazione di massa o istituti di ricerca di mercato, il creativo è portatore di una forma di vita che comprende se stessa enfaticamente come “stile di vita”. Diverse etichette sono state utilizzate dai commentatori per definire la forma di vita del creativo: David Brooks parla di Bobos (Bohemian Bourgeois), Richard Florida di creative class e Mike Featherstone di postmodern lifestyle[6].
In particolare è assai presente la forma di consumo del creativo. Qui salta all’occhio uno specifico modo di utilizzo degli oggetti di consumo – vestiti, mobili, ecc. –, per comporli, in combinazione con altri oggetti, in uno stile individuale che viene percepito come “autentico” e, tra le altre cose, come “insostituibile”. Riviste come “Wallpaper” forniscono modelli per queste logica combinatoria del consumo, che Fredric Jameson ha qualificato nel suo carattere di pastiche e di mode rétro come distintiva per una estetica postmoderna del quotidiano[7]. Il creativo può quindi abitare in un vecchio palazzo stuccato come in un bungalow-bauhaus, può indossare giubbotti o completi – gli oggetti sono variabili, decisiva è la loro sapiente composizione, in quanto segno di uno stile esteticamente saturato e brillante, che si tiene a distanza da qualsiasi cosa sia standardizzata. La differenza marcata da parte del creativo per mezzo del suo senso estetico del quotidiano, sensibilizzato all’estremo, agisce nei confronti di una forma di vita sentita come conformista e, in ciò, priva di stile, in cui vengono solamente replicati modelli dati. Requisito per l’abile gioco al consumo del creativo è quindi una spiccata competenza nella semiotica del quotidiano, che corrisponde alle competenze professionali del symbol analyst, un sapere pratico in relazione a oggetti d’uso comune di differente forma, dalla cultura alta come da quella popolare. Anche i rapporti personali hanno una forma caratteristica nel milieu del creativo: qui sono distintive reti di amicizia e di conoscenza di variabile intensità su un piano sovra-regionale (per quanto i confini siano per le “reti” professionali fluidi), nella cui cornice le relazioni del momento costituiscono punti nodali. Quest’ultime somigliano d’altra parte a quella comunità di esperienza a due, come Anthony Giddens ha caratterizzato il rapporto ideale della pure relationship, e si possono estendere anche alla famiglia con quality time. In definitiva si attaglia allo stile di vita del creativo un comportamento nel tempo libero che combina individualmente diverse forme di esperienze l’una con l’altra, dal viaggio in paesi lontani (secondo scelta, orientato alla cultura o alla natura) fino all’attività sportiva, e così facendo manifesta attivamente le proprie condizioni quadro socio-culturali.
In tutte le sue pratiche quotidiane, tra professione, consumo, rapporti personali e tempo libero, si costituiscono così uno specifico modo di funzionamento e una dinamica interna del tipo soggettivo “creativo”, che risultano nella triangolazione di tre orientamenti: il creativo considera in primo luogo il suo ambiente nella perspettiva di una semiotica sperimentale del quotidiano; in secondo luogo, fa costituire se stesso e i suoi desideri da una semantica del self growth, dell’espressione individuale di sé; infine, egli vuole raggiungere riconoscimento nel quadro di un mercato economico e sociale la cui merce è un’attenzione che scarseggia. I primi due punti costituiscono, in senso generalizzato, orientamenti estetici, il terzo un generalizzato orientamento economico. Il creativo è in grado, professionalmente e privatamente, di servirsi in modo brillante della simbolicità di oggetti e soggetti, al fine di utilizzarli come mezzi per l’espressione del suo Io, di quello sperimentalismo e di quell’accrescimento di sé, che la self growth psicology ha, dagli anni Sessanta, decretato essere lo scopo naturale di una personalità autentica. Se lo sguardo sul mondo del creativo quindi percepisce tutto come un campo da gioco per opzioni semiotiche ed espressive e per la loro combinabilità, al contempo questo sembra essere inserito in modo perfetto nella costellazione di un mercato economico e sociale il cui bene più scarso è rappresentato dalla (positiva) attenzione, per la quale si concorre: creazione e creazione di sé hanno qui luogo davanti a un pubblico che deve certificare le innovazioni riuscite. Il carattere illimitato dello sperimentalismo espressivo di un Sé che vuole costantemente mutare e l’imprevedibilità della richiesta economica e sociale di oggetti e soggetti “effettivamente” creativi trasmettono quindi alla forma soggettiva del creativo un’instabilità e un dinamismo duplicati.
L’egemonia culturale del creativo all’interno della cultura al volgere del millennio (che le previsioni storiche di ordine divulgativo estendono anche al futuro della creative class[8]), in quanto soggetto attrattivo e desiderabile che si presenta come apparentemente senza alternative, si fonda, dalla prospettiva di una archeologia culturale della modernità, su una sorprendente doppia legittimazione, da parte della bohème e della borghesia. Dalla tradizione del soggetto-artista, per lungo tempo minoritario, il creativo mutua i modelli culturali di un’attività e di un’esistenza allo stesso tempo espressive e sperimentali, e l’anti-conformismo e l’edonismo delle sub-culture estetiche. Dalla tradizione della borghesia capitalistica e post-aristocratica preleva insieme il motivo di un sovrano governo del Sé, l’ideale di un’indipendenza disciplinata e imprenditoriale e di un agire di successo sul mercato economico come su quello sociale. Non è sorprendente che al vertice del modello tardo-moderno del creativo stia di nuovo l’artista – per quanto nella sua versione assai specifica di “artista di successo a livello globale”, come è reperibile al volgere del millennio nei campi delle arti figurative, del design e dell’architettura. Questi sembra muoversi apparentemente senza sforzo contemporaneamente nel registro estetico dell’espressione e nel registro economico del mercato.
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Il film di Robert Pulcini “American Splendor”, uscito nel 2003, tratta di Harvey Pekar, fumettista di primo piano nella scena americana indipendente, quasi sessantenne. Il film è principalmente un film a soggetto – in cui Pekar è impersonato in parte da Paul Giamatti, in parte da se stesso – ma inclina anche ad elementi del cartone animato, precisamente nello stile dei fumetti di Pekar. “American Splendor” rappresenta la biografia e la vita quotidiana di Pekar, che lui stesso prende come tema prediletto nei suoi fumetti. Dopo i suoi studi, Pekar si guadagna da vivere con un impiego amministrativo piuttosto banale, in un ospedale statale piuttosto triste a Cleveland, nell’Ohio. È rappresentato come un tipo per molti aspetti difficile, rapidamente in collera, scontroso, insocievole, insoddisfatto, i cui colleghi di lavoro sono amabili freak. Il suo stile nell’abbigliamento e l’arredamento della sua casa sembrano ragionevolmente lontani da tutti i criteri di chi dovrebbe dispensare consigli di stile. Per lungo tempo e contro la sua volontà Pekar vive solo, prima di conoscere la sua futura moglie Joyce Brabner, una libraia del tutto anonima. La sua apparizione nel talk-show di David Letterman – segno della sua rilevanza – finisce in un disastro. Più avanti, Pekar si ammala di cancro (che sconfigge).
Harvey Pekar è manifestamente un creativo che non rientra nel tipo sociale del creativo. Manca di quella coolness dimostrata da David Hemmings in Blow-up e ancora di più di quella dell’artista di successo a livello globale. Un fascio di idiosincrasie – da cui si sviluppa un’opera artistica autonoma –, manca evidentemente della disposizione e della capacità di farsi soggettivare come “creativo”. Al contempo, però, in “American Splendor” è in grado di diventare una figura di culto underground. Così, paradossalmente, gli riescono sia l’espressività individuale sia il successo sul mercato dell’attenzione, e quindi entrambi i criteri del tipo sociale creativo. Harvey Pekar è un non-creativo creativo, un creativo non-creativo, una figura in cui vengono testati i limiti dell’egemonia tardo-moderna.
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