Andrea Nale
Project Manager
In cosa consiste il lavoro di cui ti occupi?
Faccio il project manager in una software house, mi occupo del processo di sviluppo di siti web, siti e-commerce e di app per smartphone.
Il tuo lavoro ti soddisfa? Credi che sia adeguatamente retribuito?
Vorrei poter fare lo stesso lavoro in un ambiente culturale, per progetti che sento più vicini alla mia sensibilità. Sto però imparando molto, e quello che faccio – non avrei mai pensato – mi soddisfa più dello scrivere (cosa che amo, invece, e che svolgo al di fuori del lavoro per molte realtà). Anzi, non scrivere per lavoro mi permette di essere in forze per scrivere quel che mi pare, al di fuori del lavoro.
Normalmente i lavori cosiddetti “creativi” sono soggetti a forme contrattuali non garantite (partite IVA) o a scadenza (c. a progetto, a tempo determinato, ecc.). Pensi che tale situazione contrattuale sia compensata dalla possibilità di svolgere un lavoro creativo, vario, potenzialmente soddisfacente?
Sono abbastanza soddisfatto della mia situazione contrattuale. Di certo, non vorrei in alcun modo peggiorare la mia condizione per fare della mia capacità “creativa” il mio lavoro, non sono disposto, ahimè, a prendere meno per dove scrivere per altri cose che non voglio scrivere e che, in fondo, non mi interessano.
Come vengono gestiti, nell’azienda per cui lavori, i rapporti tra titolari, responsabili di settore e dipendenti? Ti sembra che i ruoli aziendali siano gerarchicamente ripartiti o si lavori piuttosto in un’ottica di orizzontalità?
L’azienda è piuttosto piccola, l’ottica è prettamente orizzontale.
Pensi che la mansione che svogli abbia – tra le altre cose – anche un connotato generazionale o ritieni che potrebbe essere svolta altrettanto bene da un cinquantenne? Per quali ragioni?
Credo che la conoscenza dei social network e la cultura tecnologica e sociale che un quasi trentenne porta con sé siano indispensabili per fare al meglio il mio lavoro e impostare ogni progetto tenendo presente quale sia la realtà in cui potrà inserirsi.
Che rapporto hai con i tuoi colleghi?
Ottimo, è uno dei fattori che ogni giorno mi rasserena nell’entrare in ufficio.
Nei lavori cosiddetti “creativi” gioca un ruolo determinante il settore del marketing. Credi che quest’ultimo influisca nel modo in cui il consumatore si rapporta al prodotto e nel modo in cui il prodotto stesso prende forma nel mondo? Come cambia la relazione fra soggetto-consumatore e mondo degli oggetti, dei servizi e dei dispositivi (es: internet, tv, radio, social media) con l’avvento della nuova dimensione creativa del marketing?
Credo ci siano due grossi incroci tra le strade della creatività e del marketing – della comunicazione – di cui parlare: il primo legato al fatto che la maggior parte dei lavori creativi sono lavori al servizio del marketing e della pubblicità; il secondo del fatto che un lavoro creativo non ha valore in sé come i lavori conosciuti fino ad ora, il lavoro creativo si valuta in base alla reputazione attorno ad esso. La reputazione è l’effetto di una buona comunicazione.
La chiave del rapporto tra il lavoro creativo e il marketing passa attraverso la mancanza di storie, di esperienze e di grandi narrazioni nella vita media contemporanea. Vivendo giorno dopo giorno la stessa routine fatta di problemi quotidiani, stanchezza lavorativa, abitazioni uniformanti e spazi pubblici alienanti, è stata tolta alla classe media una fondante narrazione e unitaria coscienza teleologica dell’esistenza, cosa che aveva la classe contadina, quella operaia e quella aristocratica.
Non avendo una linea comune di narrazione, abbiamo bisogno di trovare migliaia di piccole narrazioni eterogenee, di vivere migliaia d’esperienze minori; come furono tolti gli animali dalla natura per metterceli a disposizione negli zoo, ecco che piccole dosi d’esperienze ci sono donate sotto forma di narrazione grazie al marketing che viene fatto attorno ad ogni cosa acquistiamo, a tutto ciò di cui ci circondiamo.
Una Guinness porta con sé tutta la magia della storia d’Irlanda; un paio di Nike fanno diventare chi le indossa una persona diversa, sportiva, determinata. Ogni cosa è simbolo di una narrazione della quale abbiamo incessante bisogno d’essere investiti.
Questo processo di creazione della narrazione è sempre stato fatto la letteratura, ma ora, visto che giovani intellettuali devono campare in agenzie di comunicazione, viene fatto in gran parte anche da qualsiasi campagna pubblicitaria, incarnata poi in qualsiasi prodotto acquistiamo.
Il problema di fondo di questo processo è da ritrovarsi nella differenza tra arte e creatività, ma è tutta una questione più complessa.
Il secondo incrocio tra creatività e marketing è dato dal fatto che il lavoro creativo non trae il suo valore da ciò che produce, ma dalla reputazione attorno ad esso. Per poter vendere storie, il creativo ha bisogno di creare la più bella storia attorno alla sua persona e al suo prodotto. Per fare il cuoco – ad esempio – non basta più dire che si è bravi a far da mangiare, bisogna invece mostrare e creare storie attorno al lavoro di ricerca che si fa sui prodotti, al proprio modo di cucinare, eccetera. Ogni cosa è opportuna per aumentare i capitoli del racconto che si narra di sé, per vendere sé stessi.
Essere un creativo implica così, non solo avere iniziativa imprenditoriale, ma diventarne soggetto: l’individuo diviene brand. Crolla il meccanismo tempo-valore. Ed entra in gioco la reputazione.
Se fai uso di social-network (es: Facebook, Twitter, Instagram), descrivine l’esperienza. Pensi che questi dispositivi influiscano sui processi di soggettivazione delle persone? In che modo? Perché i lavori “creativi” sono molto spesso legati a questo tipo di dispositivi?
Sui social network ci sono i propri profili, e, questi profili lo sono nel senso letterale del termine: invenzioni di una storia di sé che – ovviamente – altro non è che una costruzione di verità di sé, come lo sono i profili psicologici stilati dai medici, il proprio curriculum vitae, la propria fedina penale. Non siamo mai stati tanto chiamati a raccontare la nostra storia personale, e visti di profilo, di mille profili che si aggrovigliano imbrigliandoci e soggettivando della nostra singolarità.
Prova a spiegare le ragioni per cui, secondo te, negli ultimi decenni in occidente è esplosa la cosiddetta “classe creativa”. Quali sono le prerogative che la caratterizzano? Senti anche tu di appartenere a questo particolare tipo di lavoratori? Se sì, senti di essere socialmente riconosciuto per questo?
Le migliori menti della nostra generazione hanno potuto sviluppare una finezza di gusto, una cultura, una velleità artistica e una capacità di giudizio come nessun’altra generazione nella storia. Le migliori menti della nostra generazione hanno creduto di poter vivere soltanto di bellezza, passando gli anni universitari a vagare tra un libro e l’altro, tra un concerto e l’altro, in giro per l’Europa. Ci hanno fatto credere di poter tenere lo stesso stile di vita dei grandi poeti, dei grandi artisti: capaci di dedicarci alla nostra arte soltanto, consapevoli o meno della miseria del mondo, viventi soltanto per investire tutte le energie della propria sensibilità nella creazione di bellezza.
Le migliori menti della nostra generazione hanno poi, d’un tratto, scoperto che tutto questo benessere e tempo libero erano un’illusione, che tutto quel che pensavano di poter aver di diritto, il tempo libero della creazione e del pensiero, una vita agiata e un’identità d’élite culturale, erano invece spazi da conquistarsi con la fatica del lavoro.
Da aspirante eterno sognatore, il giovane rappresentante delle migliori menti della nostra generazione, ha dovuto prima fare dei lavori per potersi mantenere le sue passioni e poi, come vittoria e realizzazione nella vita, fare delle proprie passioni un lavoro: diventare membro docile e passivo della nuova forza lavoro intellettuale.
Quel che mi ha spaventato nello scegliere quale lavoro fare è stato il dover monetizzare la creatività e la vita. Che ogni attimo possa essere usato a consumo – in base a quel che dicevamo della reputazione per il lavoratore creativo – della reputazione che ho bisogno di creare. Questo perché la mia creatività è strettamente legata alle esperienze e all’entusiasmo che vivo e di cui vivo, e rendere ogni mia esperienza – la cosa più personale che mi posso tenere – carburante per un processo di monetizzazione di essa. Non voglio dover essere performante in ciò che amo di più e non voglio che i momenti più intensi della mia vita diventino “utili” a creare qualcosa perché venga monetizzata. Non voglio diventare un brand più di quanto non lo sia il racconto di me che già faccio sui social network come chiunque di noi. Per questo, no, non credo di appartenere e voler appartenere a questo tipo di lavoratori.
In genere il lavoratore creativo è visto come un modello di successo, che ha saputo affermare la propria personalità, coniugando la necessità del lavoro alle proprie disposizioni soggettive. Condividi questa prospettiva? Secondo te, un’espansione del lavoro creativo che conseguenze potrebbe avere sulla struttura della società?
Credo che la prospettiva del lavoratore creativo sia proprio questa. Un self-made man che è riuscito non tanto a coniugare la necessità del lavoro alle proprie disposizioni soggettive, quanto a mettere le proprie disposizioni soggettive al servizio della necessità di lavoro. La differenza e la mia opinione sta tutta qui: il lavoratore virtuoso, creativo, è un artista che si imprenditorializza.
Tracciare delle possibili future conseguenze è complesso, mi interessa capire quanto potrà reggere il confine tra arte, intesa come critica e giudizio della società, e lavoro creativo al servizio della società. Lanciando un macigno direi che una profezia futura è da scovare tra lavoro manuale sostituito da robot, assenza di bisogno di produrre per lavorare, reddito di cittadinanza o – addirittura – reddito d’esistenza. Tutto questo è il grande problema che ingloba quello del lavoro creativo.
Cosa ne pensi del recupero che delle forme antiche di artigianato sta avvenendo negli ultimi anni? In che modo questo recupero si inserisce nella cornice della creatività? Pensi che ciò possa avere una funzione di contrasto rispetto all’omologazione dei consumi globalizzati? Credi che in questo modo l’Italia possa presentarsi come un paese competitivamente all’avanguardia sul piano internazionale?
Ancora cruciale è l’influenza dei social network e della tecnologia: poter condividere, mostrare il proprio lavoro, arrivare a molte persone grazie ai social network ha – a mio avviso – giocato un ruolo fondamentale nell’espansione di un recupero del lavoro artigianale. Lo sviluppo di tecnologie alla portata di tutti, open-source, ha portato i cosiddetti “makers” a creare, con le proprie mani, prodotti di artigianato tecnologico al pari dell’artigianato tradizionale. Non è un caso, che una delle invenzioni tecnologiche e alla portata di tutti create negli ultimi anni, la piattaforma hardware Arduino, sia nata in Italia. Il problema è capire quanto queste nicchie produttive possano competere con i grandi produttori o, ancor più sottile e difficile, capire se possano arrivare a rendersi autonome senza passare da Amazon, Google o senza essere promosse da algoritmi di Facebook o altri social network.
Considerando che la nozione di “creatività” viene spesso ricollegata con quanto siamo soliti chiamare arte, a te, che sei un lavoratore “creativo”, è mai sorta l’impressione di sentirti un po’ come un artista, un eccentrico, o comunque un ‘diverso’? Perché? Prova a spiegare…
L’artista era un artista, il creativo è un imprenditore. La natura del lavoro creativo, mi pare, è una versione salariata del lavoro artistico, con il quale condivide certamente l’abilità e l’origine culturale del creativo e dell’artista che – in questi anni, però – da salariato diviene imprenditore.
Nel mondo in cui viviamo la dimensione estetica – e narrativa, come non smetterò mai di ripetere – è divenuta prima macchina (nella riproducibilità tecnica) e poi mercato. Quando l’artista si imprenditorializza, il lavoratore diventa virtuoso, svolge un lavoro cognitivo in cui non contano più le abilità ma il modo di comunicarle.
In ultimo, dover rendere l’arte performativa – renderla vittima delle leggi di mercato – è un processo che la snatura nell’essenza: non più definire il visibile, parlo dell’arte figurativa, ma definire e mostrare il modo migliore per vendere qualcosa. Significa usare le stesse abilità cognitive e intellettuali o, se vogliamo, artistiche, per qualche cosa d’altro. E non credo, in nessun modo, che ci sia niente di eccentrico nel produrre valore di mercato.
Ritieni che l’espandersi dell’esperienza quotidiana con la dimensione creativa, in questo senso 2.0 che abbiamo definito nelle scorse domande, cambi la percezione della realtà dell’individuo? Se sì, in che modo?
Come ho già detto, cambia la percezione del creativo nella misura in cui ogni esperienza, ogni attimo quotidiano, diviene monetizzabile, diviene utile per creare il proprio prodotto, non lasciando più alcuna separazione tra la vita e il lavoro, tra lo spazio del lavorare per vivere e lo spazio per vivere dei frutti del lavoro: il crollo di questa separazione per molti è una conquista, a me ha terrorizzato. La percezione di chi subisce i frutti del lavoro creativo è, inoltre, modificata nella misura in cui è circondato di storie, immagini, narrazioni e addirittura “concetti” in ogni momento della sua vita (dall’esperienza d’acquisto in un supermercato a quella online, dal mangiare in un ristorante al vagare di una gita turistica). È, però, circondato di storie che non sono storia, di immagini che non sono arte, di narrazioni che non sono letteratura e concetti che non sono filosofia: tutto è maniera di comunicare.
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