L’eterna cronaca

Realtà e apparenza in 2666 di Roberto Bolaño

A.

Si racconta che nel marzo del 1838, Henri Beyle lasciò Parigi per mettersi in viaggio verso Narbona, Montpellier, Cannes e Marsiglia; risalendo fino in Svizzera, attraversò la Germania per raggiungere i Paesi Bassi, facendo ritorno da quei luoghi nell’ottobre dello stesso anno. Il 4 novembre, finalmente a Parigi, racconta ai conoscenti di essere partito per una battuta di caccia, si richiude alle spalle la porta della casa di rue Caumartin, e inizia a dettare a un copista il romanzo che lo avrebbe impegnato per un numero di giorni – cinquantadue – pari a quelli che impiegherà per correggerne le bozze; una cifra ridicola se paragonata alla piacevole velocità di lettura delle oltre 500 pagine in cui, con rapidità quasi cronachistica, si alternano le battaglie, gli amori, le storie degli inquieti protagonisti della Certosa di Parma. Avvolti da un manto di intrighi politici e passioni sentimentali, la vita dei personaggi stendhaliani si gioca nel costante tentativo di soddisfare un ideale assoluto di felicità, che né Fabrizio né Clelia raggiungono mai, e che pure è profondamente radicato nell’esteriorità, nella possibilità di agire il mondo e trasformarlo, e di mutare la Storia nella dimensione – a un tempo retorica e politica – dell’actio. L’azione – La Chartreuse è soprattutto un romanzo d’azione, in cui l’eroe parla poco e pensa ancora meno – si alimenta della discontinuità dell’imprevisto, in un continuo mutamento di immagini e scene che moltiplicano l’intreccio, complicando le vite dei personaggi: figure di un mondo che appare dominato dal caso.

Tra i non pochi scrittori che nel nostro tempo hanno subito il fascino dell’antica divinità, Roberto Bolaño merita un posto privilegiato. 2666 è la storia di un inseguimento: quattro critici letterari si lanciano alla ricerca di uno scrittore scomparso, che inseguono per tutta Europa e che li conduce fino a Santa Teresa (Messico), dove – piuttosto che trovare il loro idolo – scoprono causalmente i terribili femminicidi che avvengono nella città; Lola, la moglie del professore cileno Oscar Amalfitano, abbandona Barcellona per inseguire un poeta spagnolo internato in un manicomio, un uomo solitario e folle come il marito, che si trasferisce – insieme alla figlia Rosa – in Messico: il luogo in cui tutte le storie sembrano intrecciarsi e fermarsi di fronte all’orrore; in fuga verso la frontiera statunitense, Oscar Fate e Rosa Amalfitano abbandonano Santa Teresa, nella notte sudamericana in cui finisce il pellegrinaggio letterario di Benno von Arcimboldi, e inizia la diaspora di Roberto Bolaño, che lasciò Città del Messico nel 1973 per tornare nel Cile di Salvador Allende, un istante prima – così ho sentito dire dall’autore, in una lunga intervista trasmessa dalla televisione cilena –  del golpe del generale Pinochet. 

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Se è vero che molti degli incontri del romanzo stendhaliano avvengono casualmente, è altrettanto vero che questi momenti sono carichi di significato: un telos orienta la Storia, e in ogni istante si addensa una possibilità che muta il corso dei destini individuali, e li connette tra loro. Si ricordano pochi finali inconcludenti come quello della Chartreuse, e l’ironica dedica To the happy few («ai pochi felici») tradisce tutto lo scetticismo illuminista dell’autore. Eppure, potremmo chiederci se uno scrittore della generazione di Stendhal avrebbe fatto dire a uno dei suoi personaggi: «La storia è una puttana molto semplice, che non ha momenti cruciali ma è una proliferazione di istanti, di attimi fugaci che competono fra loro in mostruosità». Separati dai secoli, Beyle e Bolaño sono intimamente legati da una profonda ricerca di sincerità, di una verità storica che passa attraverso la rapidità dello stile, in un esibito rifiuto del tono alto e sublime, di rigetto della serietà accordata alla rappresentazione dell’interiorità: autentico feticcio della generazione letteraria che precede Stendhal, e – per continuità – dei padri modernisti di Bolaño. «Mentre scrivevo la Certosa – annota Beyle nella minuta di una lettera indirizzata a Honoré de Balzac – per prendere il tono, leggevo ogni mattina due o tre pagine del codice civile, allo scopo di essere naturale».

I. STILE

​Lo stile ipotattico rispecchia un’articolazione razionale del pensiero, una ragione che domina i suoi oggetti precisandone le relazioni – come a cercarne l’essenza comune –, quasi che il mondo fosse visto e ordinato dall’alto. Al contrario, Roberto Bolaño adotta uno sguardo rasoterra: il procedere ellittico del discorso e l’accostamento paratattico degli elementi della frase conferiscono alla prosa di 2666 un’impressione generale di velocità.

UN’ IMPRESSIONE GENERALE DI VELOCITA’

Spesso domina la forma dell’elenco, esasperata da uno stile che, proprio per la sua logica matematizzante e ossessiva, produce un effetto umoristico, rivelando la profonda insensatezza dei linguaggi che il senso comune considera razionali e rigorosi:

Quando tornò nella sua stanzetta trovò il foglio di carta e prima di gettarlo nel cestino lo esaminò per qualche minuto. Il disegno n. 1 non aveva altre spiegazioni che la sua noia. Il disegno n. 2 sembrava un seguito del disegno n. 1, ma i nomi aggiunti gli parvero demenziali. Senocrate poteva starci, non era privo di una sua folle logica, e anche Protagora, ma cosa c’entravano Tommaso Moro e Saint-Simon? Cosa c’entravano, che senso avevano Diderot e, santo Dio, il gesuita portoghese Pedro da Fonseca, che era semplicemente uno delle tante migliaia di commentatori di Aristotele e neppure col forcipe smetteva di essere un pensatore molto marginale? Il disegno n. 3, al contrario, aveva una certa logica, una logica da adolescente tarato, da adolescente vagabondo nel deserto, con i vestiti stracciati, ma pur sempre con i vestiti. Tutti i nomi, si poteva dire, appartenevano a filosofi assillati dal tema ontologico. La B che compariva al vertice superiore del triangolo sovrapposto al rettangolo poteva essere Dio o l’esistenza di Dio che sorge dalla sua essenza. Solo allora Amalfitano notò che anche il disegno n. 2 esibiva una A e una B e non ebbe più alcun dubbio che durante le lezioni il caldo, a cui non era abituato, lo faceva vaneggiare

In generale, il romanzo è costruito su procedimenti enumerativi, che riproducono in modo caotico il rumore del mondo, accumulando azioni e fatti che qualche volta – e spesso all’interno di uno stesso frammento – sono retti da nessi temporali e congiunzioni iterate. Una forma di sintassi lunga in cui lo scioglimento del senso è costantemente rinviato, rivelandosi solo alla fine del frammento:

Ma Pelletier fu più veloce. Tre giorni dopo l’incontro con l’editrice di Arcimboldi, comparve a Londra senza preavviso e dopo aver raccontato a Liz Norton le ultime novità la invitò a cena in un ristorante di Hammersmith che gli aveva raccomandato un collega del dipartimento di russo, mangiarono gulasch e purè di ceci con barbabietole e pesce macerato in limone e yogurt, una cena con candele e violini, e russi autentici e irlandesi mascherati da russi, esagerata da ogni punto di vista e dal punto di vista gastronomico piuttosto misera e discutibile, che accompagnarono con bicchierini di vodka e una bottiglia di bordeaux, e che a Pelletier costò un occhio della testa, anche se ne valse la pena perché poi la Norton lo invitò a casa sua, formalmente per parlare di Arcimboldi e delle poche cose che aveva rivelato su di lui la signora Bubis, senza dimenticare le sprezzanti parole che aveva scritto sul suo primo libro il critico Schleiermacher, e poi entrambi si misero a ridere e Pelletier la baciò sulle labbra, con grande tatto, e l’inglese ricambiò il suo bacio con un altro molto più ardente, forse per effetto della cena e della vodka e del bordeaux, ma che a Pelletier parve incoraggiante, e poi andarono a letto e scoparono per un’ora finché l’inglese non si addormentò

Questa fine provvisoria non produce nessuna autocomprensione da parte dei personaggi, che non sembrano – puri vettori in un campo di forze che non controllano – capire il senso delle proprie azioni.  Gli eroi di Bolaño non si interrogano troppo sul significato di ciò che accade, e se lo fanno non comprendono. Gli incontri e le relazioni che potrebbero avere uno sviluppo descrittivo o saggistico o introspettivo sembrano risolversi in eventi futili e banali, enumerazione di fatti privi di senso.

II. MONTAGGIO

Non c’è niente di più tipicamente novecentesco del montaggio: una tecnica cinematografica e avanguardistica molto apprezzata da Bolaño, al punto da essere il principale metodo compositivo di 2666. Nel montaggio, le immagini – fotogrammi o frammenti di testo – scorrono rapidamente e in successione, proprio per quella coesistenza di continuità e discontinuità così tipica dell’arte cinematografica; ogni inquadratura assume un senso sulla base dell’inquadratura che la precede, un valore che lo spettatore attribuisce all’immagine attuale mettendola in relazione con la traccia mnestica della precedente, con il ricordo temporaneo che ne conserviamo nell’istante in cui scompare.

Forse Rosa Méndez aveva parlato della sua passione per il cinema e a quel punto Oscar Amalfitano le aveva chiesto se sapeva cos’era il movimento apparente. La risposta però – e non poteva andare altrimenti – non l’aveva data la sua amica ma Charly Cruz. Il quale disse che il movimento apparente è l’illusione di movimento provocata dalla persistenza delle immagini sulla retina. «Esatto» confermò Oscar Amalfitano «le immagini rimangono sulla retina una frazione di secondo».

Così in Ottobre di Eisenstein, in una scena che rievoca la Rivoluzione di Febbraio: al fotogramma che mostra un cavallo bianco cadere nel fiume, all’ordine dello zar di sollevare il ponte sulla Neva, ne segue un altro in cui un cavallo nero al trotto tiene in riga i rivoluzionari imprigionati e diretti nelle carceri. Questo motivo si ripresenta in altri fotogrammi successivi, sempre in continuità o discontinuità con quelli precedenti, caricandosi di volta in volta di nuovi valori.

Molti dei frammenti di 2666 sono autonomi semanticamente, ma sembrano privi di valenza logica: una parte del loro senso è frantumato e disperso in altri luoghi dell’opera; l’ordine narrativo si scontra con l’autonomia dei frammenti che ospitano riflessioni enigmatiche o scene di pura visionarietà. Questo modo compositivo trova il suo momento più virtuosistico e tragico nella quarta parte del romanzo (La parte dei delitti), in cui si alternano – quasi immagini di un notiziario televisivo – la cronaca lucida e terribile dei femminicidi di Santa Teresa, le inconcludenti indagini della polizia locale, le inchieste dei giornalisti come Sergio Gonzàlez, e le rare divinazioni televisive della veggente Florita Almada. Tutte le azioni riguardano i delitti di Santa Teresa, ma ciascuna scena è come alienata dalle altre, separata e incomunicabile.

UNA SENSAZIONE DI PROFONDO DISORIENTAMENTO, DI PERDITA DI UN SENSO CHE RIAFFIORA A BARLUMI

B.

Nel 1967 Lawrence Roberts, ingegnere del MIT e direttore dell’Advanced reserch project agency, pubblicò un piano per ARPANet, una rete per la connessione e il lavoro condiviso tra calcolatori posti a grandi distanze. Qualche anno prima, Paul Baran aveva progettato una rete radicalmente decentralizzata e ridondante: non c’è un centro nevralgico da cui passano le informazioni, la preistorica «rete delle reti» è una struttura senza centro; i singoli pacchetti di informazioni vengono scomposti e viaggiano attraverso i fili delle grandi dorsali, passando di nodo in nodo – centinaia di chilometri di cavi sotterranei –  giungendo allo snodo finale (i server dei grandi provider del Web) attraverso percorsi differenti. Se fosse scoppiata una guerra nucleare, le comunicazioni non si sarebbero interrotte. 

Tutte le parti di 2666 sono attratte, a distanze diverse, dal centro violento e delittuoso del Messico: una forza di gravitazione universale, una raffinata metonimia del male, del crimine, della violenza, del fondo regressivo della civiltà. Ma il monstrum ha molti volti: è delitto privato e violenza di massa, crimine individuale e sterminio seriale, guerra coloniale e femminicidio, aggressività quotidiana e genocidi; si replica per somiglianze e differenze rispetto a un nucleo apparentemente indicibile. Se si abbandona una lettura sincronica del testo, considerando cioè i suoi elementi non nella loro successione lineare ma nei rapporti che intrattengono a distanza, si scopre che i frammenti apparentemente privi di valenza logica sono profondamente connessi tra loro, attraverso una rete di cariche positive e negative, elementi affini e divergenti che gravitano attorno a un doppio polo: tra apparenza e realtà.

La parte dei critici

[1] Sembrava andasse tutto bene. Ma quando Amalfitano era entrato nell’acqua si era immobilizzato, come se all’improvviso avesse visto il diavolo in persona, ed era andato a fondo. Prima di andare a fondo, Pelletier ricordava che si era tappato la bocca con tutt’e due le mani. In ogni caso non aveva fatto il minimo sforzo per nuotare. Fortunatamente Pelletier era lì accanto e non ci aveva messo nulla a immergersi e a riportarlo in superficie. Poi si erano bevuti un whisky a testa e Amalfitano gli aveva spiegato che non nuotava da un pezzo.

[2] Siccome non avevano nulla da fare tranne aspettare la partenza dell’aereo che li avrebbe riportati a Parigi e a Madrid, Pelletier ed Espinoza si dedicarono a passeggiare per Amburgo. La passeggiata li portò immancabilmente nel quartiere delle puttane e dei peep-show, e allora entrambi si immalinconirono e cominciarono a raccontarsi storie di amori e delusioni. Non fecero nomi né date, è ovvio, si sarebbe potuto dire che parlavano in termini astratti, ma nonostante l’esposizione apparentemente fredda di disgrazie, la conversazione e la passeggiata contribuirono soltanto a sprofondarli ancora di più in quello stato di malinconia, al punto che nel giro di due ore si sentirono entrambi soffocare

[3] Quasi alla fine del 1996 Morini ebbe un incubo. Sognò che la Norton si tuffava in una piscina mentre lui, Espinoza e Pelletier giocavano a carte intorno a un tavolo di pietra. Espinoza e Pelletier voltavano le spalle alla piscina, che all’inizio sembrava una piscina d’albergo come tante. Mentre giocavano, Morini osservava gli altri tavoli, gli ombrelloni, le sedie a sdraio che si allineavano sui lati. Dietro c’era un parco con siepi verde scuro, brillanti, come se avesse appena smesso di piovere. Espinoza e Pelletier giocavano a carte intorno a un tavolo di pietra. Gli sembrò di scorgere, all’altro capo della piscina, un’ombra, e si avviò con la sedia a rotelle in quella direzione. […] Poco dopo Morini fu avvolto dalla nebbia. All’inizio tentò di procedere, ma poi si rese conto che correva il pericolo di cadere con la sedia a rotelle dentro la piscina e preferì non rischiare. Quando i suoi occhi si furono abituati vide una roccia, una specie di scoglio scuro e iridescente che spuntava dalla piscina. Non gli parve strano. Si avvicinò al bordo e gridò di nuovo il nome di Liz, stavolta con la paura di non rivederla mai più. Gli sarebbe bastato un lieve movimento delle ruote per caderci dentro. Allora si rese conto che la piscina si era svuotata e che era immensamente profonda, come se ai suoi piedi si aprisse un precipizio di piastrelle nere di muffa per via dell’acqua. Sul fondo scorse una figura di donna (anche se non si poteva esserne certi) che si dirigeva verso le pendici dello scoglio. Morini stava già per gridare di nuovo e farle segno quando intuì di avere qualcuno alle spalle. In un istante ebbe due certezze: si trattava di un essere maligno, l’essere maligno desiderava che Morini si voltasse e lo vedesse in volto. […] Morini poteva ancora vederla, una macchia minuscola che si accingeva a scalare lo scoglio diventato ormai una montagna, e quell’immagine, così lontana, gli inondava gli occhi di lacrime e gli provocava una tristezza profonda e invincibile, come se stesse vedendo il suo primo amore dibattersi in un labirinto.

[4] La Norton sognò un albero, una quercia inglese che sollevava e spostava da un punto all’altro della campagna, senza che nessun posto la soddisfacesse completamente. La quercia a volte era priva di radici e a volte si trascinava dietro radici lunghe come serpenti o come la chioma della Gorgone

La realtà quotidiana dei critici letterari – apparentemente ciclica e rituale, disincantata e sognante – può essere rappresentata solo a patto di risultare eccessiva, iperbolica, parodica e, al tempo stesso, simbolicamente legata al sogno, alla visione, all’enigma. La dimensione surreale delle spiagge estive, il fatuo riprodursi dei convegni universitari, l’automatismo dei rapporti sociali, rivelano in sogno il fondo oscuro e mostruoso dei luoghi e delle persone apparentemente familiari. Dietro la giovane critica, amica e amante Liz Norton, si cela il volto terribile della Gorgone che pietrifica gli uomini con lo sguardo, la donna «orribile e al tempo stesso bellissima». Allo stesso modo, i delitti di Santa Teresa possono entrare nel romanzo solo a patto di essere privi di pathos, come simulazione del modo cronachistico e fintamente neutrale dell’informazione, specchio fedele degli orrori della realtà. Per Bolaño, la letteratura e l’arte in generale riportano a galla una verità profonda, al di là del superficiale occultamento dell’universo mediatico: una verità conflittuale perché tragica e bella nel mostrarci – nei resti di una statua che emerge dalle acque, nelle immagine degli uomini pietrificati dalla Gorgone – i frammenti dei delitti, i corpi delle vittime di Santa Teresa:

[5] E allora Pelletier si metteva a piangere e vedeva che dal fondo del mare metallico emergevano i resti di una statua. Un pezzo di pietra informe, gigantesco, consumato dal tempo e dall’acqua, in cui però si poteva ancora distinguere, con assoluta chiarezza, una mano, il polso, parte dell’avambraccio. E la statua usciva dal mare e s’innalzava sopra la spiaggia ed era orribile e al tempo stesso bellissima.

Come molte figure di artisti e poeti in 2666, l’arte di fronte al male non può che impazzire: si frantuma e strepita, protesta e si immalinconisce, e profetizza e piange d’insensatezza. Come Liz Norton:

[6] Quando mi sono seduta nel letto, però, l’unica cosa che ho fatto è stata mettermi a piangere come una pazza, apparentemente senza motivo

La parte di Arcimboldi

[1] Hans Reiter nacque nel 1920. Non sembrava un bambino ma un’alga. […] Non gli piaceva la terra né tanto meno il bosco. Non gli piaceva nemmeno il mare o quello che la maggior parte dei mortali chiama mare e che in realtà è solo la superficie del mare, le onde mosse dal vento che a poco a poco sono diventate la metafora della sconfitta e della follia. Quello che gli piaceva era il fondo del mare […].

[2] Quando la guercia gli faceva il bagno in una tinozza, il piccolo Hans Reiter le scivolava sempre via dalle mani saponose e scendeva sul fondo, con gli occhi aperti, e se le mani di sua madre non lo avessero riportato in superficie sarebbe rimasto lì, a contemplare il legno nero e l’acqua nera in cui fluttuavano particelle del suo stesso sporco, pezzettini minuscoli di pelle che viaggiavano come sottomarini in qualche direzione, una rada delle dimensioni di un occhio, una baia scura e serena, anche se la serenità non esisteva, esisteva solo il movimento che è la maschera di molte cose, compresa la serenità.

[3] A tre anni Hans Reiter era più alto di tutti i bambini […] All’inizio camminava con passi incerti e il medico del villaggio disse che era dovuto alla sua altezza e consigliò di dargli più latte per rinforzare le ossa con il calcio. Ma il medico sbagliava. Hans Reiter camminava con passi incerti perché si muoveva sulla superficie terrestre come un sommozzatore alle prime armi sul fondo del mare.

[4] A sei anni Hans Reiter era più alto di tutti i bambini […]. Inoltre, a sei anni aveva rubato per la prima volta un libro. Il libro si intitolava Animali e piante del litorale europeo. […] A sei anni decise che un metro era troppo poco e si lanciò testa a picco verso il fondo del mare.

[5] In quel periodo cominciò a disegnare su un quaderno ogni genere di alga. Disegnò la Chorda filum, che è un’alga composta da lunghi cordoni sottili che però possono raggiungere gli otto metri di lunghezza. Privi di rami e dall’apparenza fragile, sono in realtà molto robusti

​[6] Ma non li vedo mai, non capisco mai verso quale punto dell’orizzonte si sono lanciati. Vedo solo te, la tua testa che appare e scompare fra le onde e allora mi siedo su uno scoglio e rimando lì fermo a guardarti, a lungo, trasformato anch’io in uno scoglio, e se a volte i miei occhi ti perdono di vista o la tua testa ricompare a grande distanza da dove ti eri tuffato, non ho paura per te, perché so che tornerai a galla, che l’acqua non può farti nulla

Arcimboldi è la contro-parte dei critici, non può essere scalfito dal Male: è singolare, sincero, puro; segue un codice di comportamento che ricalca l’ideale cavalleresco della cortesia, e lo fa con coerenza fino alla fine della sua vita, quando decide di andare a salvare il nipote in Messico. Il narratore non spiega nulla del suo atteggiamento, ci sono ignote le motivazioni interiori che lo spingono a raggiungere il suo ideale e a sacrificarsi sempre per il Bene. Arcimboldi agisce semplicemente in coerenza con la sua vocazione e con il suo senso di giustizia (non esita ad uccidere per vendetta), come accade nei romanzi cavallereschi o nelle fiabe. Diversamente, i critici sono ingabbiati in un rituale prestabilito, obbligati al movimento, costretti ad adeguarsi al cosiddetto progresso, come i viaggiatori di Le voyage, la poesia di Baudelaire che Bolaño cita in epigrafe. Espinoza e Pelletier rinunciano ai loro sogni giovanili e tradiscono l’ideale ricerca di Arcimboldi per inseguire la Norton, ma giunti con quest’ultima in Messico non riescono a comprendere il motivo della presenza del vecchio scrittore tedesco né mai riescono a trovarlo.

Perseo, figlio di Zeus e Danae, riesce a decapitare Medusa senza guardarla in volto attraverso l’immagine riflessa nello scudo donatogli da Atena. Come in uno specchio in frantumi, la letteratura per Bolaño mostra costantemente un deserto d’orrore in un’oasi di noia, il terrore dietro l’allegria, la realtà sotto il velo dell’apparenza [si veda Il ribaltamento come matrice conoscitiva, presente in questo numero]. «Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe? / Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau !» (Tuffarci al fondo dell’abisso, Inferno o Cielo, che importa? / Al fondo dell’Ignoto per trovare il nuovo!) recitano gli ultimi due versi del Voyage di Baudelaire, che oppone – con l’ironica dedica a Maxime du Camp, il poeta che in Chants Moderns aveva lodato la magia del Vapore e i valori del Progresso celebrati all’Exposition universelle del 1855 – lo stile al feticismo della tecnica, la servitù laica dell’arte agli untuosi inchini salottieri, proclamando come unica meta del viaggio il fatale naufragio della morte, cui il poeta può sottrarsi salvando dal tempo una parte di sé, secondo un’idea che da Baudelaire arriva alla Recherche di Proust, che proprio con Temps – Tempo – si conclude. È per certi versi la stessa ricerca che Arcimboldi impara attraverso i libri e grazie ai molti scrittori che incontra sul suo cammino:

[7] In quegli anni Ansky pensava che la rivoluzione non avrebbe tardato a estendersi in tutto il mondo […]. La rivoluzione, pensava Ansky, finirà per abolire la morte. Quando Ivanov gli diceva che era impossibile, che la morte era accanto all’uomo da tempo immemorabile, Ansky rispondeva che si trattava proprio di questo, […] abolire la morte, abolirla per sempre, sommergerci tutti nell’ignoto fino a trovare un’altra cosa. L’abolizione, l’abolizione, l’abolizione.

Ma è un movimento reale e intrinsecamente centrifugo quello che spinge Arcimboldi ad abbandonare le comodità del Paradiso degli Scrittori per un’altra più vera e autentica destinazione: quel México che è anche l’ultima parola del romanzo.

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