Che la società sia divisa; che tale divisione non sia né pacifica né naturale, bensì frutto di un processo storico che giunge fino al presente e lo determina nella sua natura conflittuale; che tale conflitto sia solo difficilmente componibile e forse mai completamente eliminabile: riconoscere o negare queste affermazioni può valere da discriminante rispetto alla collocazione politica di chi parla, scrive o semplicemente pensa. È però anche possibile utilizzare questi assunti per analizzare il rapporto che le collettività instaurano con la politica, oltre a quello dei singoli. Ossia il modo in cui le società hanno pensato la propria vita politica e le hanno dato forma. Utilizzandoli allora come criteri ordinatori da un punto vista storico, notiamo come dalla rivoluzione francese a qualche decennio fa essi siano stati più riconosciuti che negati, trovando un’espressione formale in un fenomeno ben preciso: l’affermarsi dei partiti come soggetti politici egemoni. Questo sviluppo non è casuale, ha una base materiale molto chiara: poggia sulla complessità sempre maggiore che le società moderne assumono, in cui a una pluralità di ambiti e funzioni, di istanze e interessi non riducibile a sintesi viene data voce da nuovi attori sociali.
Progressivamente, la loro fisionomia si definisce sempre più in termine di classe: la borghesia, il proletariato, le rispettive interne segmentazioni, più o meno rilevanti a seconda del periodo storico considerato. Interessi distinti – tendenzialmente divergenti e talvolta suscettibili di entrare in aperta e violenta collisione – circa l’assetto dell’intera società e delle sue articolazioni trovano espressione in partiti distinti. Frutto di lavoro politico e di riflessione, svolti da parte di milioni di militanti lungo decenni, questi sono dunque insieme una conseguenza del riconoscimento di mediazioni, di nessi e separazioni e un modo per legittimarne l’espressione. Il partito media la partecipazione politica del singolo, che non si presenta sul piano politico in quanto tale, bensì come parte di una collettività che lo determina e che egli contribuisce, ricorsivamente, a determinare. Questa dinamica si fa particolarmente evidente osservando i partiti espressione di quella parte variamente definita (proletariato; plebe; coloro che non detengono i mezzi di produzione; che sono esclusi dai processi di accumulazione della ricchezza; dannati della terra; subalterni; senza parte), ma unita dalla tensione non a conservare o a correggere qua e là il funzionamento degli ingranaggi sociali, bensì a cambiarlo nel suo stesso cuore.
In questi casi si è stabilito spesso un rapporto di reciproca dipendenza tra la parte sociale e il partito che la rappresentava, se non addirittura di identità. La parte in questione prende le mosse da una posizione di svantaggio e lotta per modificare questa situazione. È debole, vuole essere forte. Perché ciò avvenga, deve operare attivamente tanto su se stessa quanto sull’ambiente che la circonda, non si può affidare all’automatismo dei rapporti sociali dati, all’immediatezza dell’andamento delle cose. Al contrario, la sua storia passata va scritta, o riscritta da una prospettiva differente, affinché divenga base dell’identità; il presente va organizzato, per porre le basi di un’azione politica indipendente; il futuro va prefigurato. Queste tre dinamiche possono sorgere autonomamente, convergendo poi in un’organizzazione, oppure venire da essa innescate o accompagnate.
La tensione al futuro è particolarmente importante. La convinzione che il cambiamento dell’assetto economico-sociale fosse possibile prendeva forma nella costruzione – qui e ora – di un’alternativa. L’utopia trovava una fondazione concreta nell’organizzazione della vita del partito e delle vite dei militanti che lo costituivano, i quali dovevano restituire plasticamente la possibilità di una umanità altra, nuova, migliore. In questo senso possiamo dire che il partito mediava il singolo, oltre alla sua partecipazione politica: perché il ricambio organico tra il militante e il partito coinvolgeva tutti i piani del vivere, da quello lavorativo a quello relazionale, cognitivo, affettivo. La figura del militante costituirà così un punto di mediazione attiva delle dinamiche che innervano il corpo sociale, ovvero di ricezione di un messaggio e sua restituzione ricodificata, mutata di segno. Nella storia del XX secolo troviamo alcuni esempi di questo modello nella socialdemocrazia tedesca, nei Partiti Comunisti italiano e francese. Grandi organizzazioni, dotate di migliaia di sedi, ben radicate nel tessuto sociale, capaci di coordinare azioni politiche di massa, fornite della credibilità e del mandato per poter parlare a nome di una parte ben precisa della società e della capacità logistica e organizzativa per reggere l’urto frontale con l’avversario; allo stesso tempo, centri in cui non solo il politico, ma anche il sociale trovava la sua messa in forma, perché amicizie e amori, movimenti culturali e chiacchiere quotidiane avevano luogo sullo sfondo comune, non neutrale, offerto dal partito. Il sottinteso, l’implicito di questo scenario è che tutto possa essere oggetto di scelta e costruzione, niente debba essere scontato, automatico, prescritto dal senso comune: proprio perché un senso comune non può esserci, se la società è divisa. Certo non va dimenticato che questo sottinteso è troppo spesso venuto a mancare, pure nelle realtà di cui stiamo descrivendo la logica di funzionamento ideale, e che strutture simili erano portatrici in molti casi di problemi non indifferenti: pensiamo agli effetti di gerarchia e potere che la cristallizzazione burocratica dei partiti portava con sé e che potevano arrivare al punto di impedire la stessa attuazione delle finalità di emancipazione, volgendola nel proprio contrario. Il cedimento alle logiche dell’immediatezza, per cui il modello sovietico e stalinista sarebbe stato immediatamente positivo per i partiti comunisti occidentali, è d’altra parte sempre in agguato.
Queste esperienze cominciano a esaurirsi nella seconda metà del secolo, in un processo che vede combinarsi mutamento delle prospettive strategiche, incapacità di leggere le trasformazioni della società e veri e propri errori di impostazione politica, e che ci porta alla soglia dei nostri anni. La rappresentanza politica offerta dal partito si scolla progressivamente dall’ancoraggio effettivo nella vita della parte. Il nesso tra la classe e i partiti non è più ovvio né ufficiale (l’ovvietà e l’ufficialità del nesso rimandavano alla sua realtà, alla sua efficacia). I discorsi politici che ritengono di esprimere un interesse determinato e di mettere in questione l’assetto sociale vigente cominciano a farsi più radi, e insieme più fiochi, indistinti. Se ancora si sente una voce, non si capisce più così bene né chi stia parlando, né a chi, né a nome di chi. Tra gli anni ’70 e ’80 sembrano presentarsi due differenti vie d’uscita: una punta verso la dismissione della logica che abbiamo descritto, negando l’esistenza di spaccature nel corpo della società e la necessità di organizzarle; l’altra, al contrario, prova a radicalizzare ed approfondire la stessa logica (è il cammino dei movimenti, di tutto quello che si muove a sinistra del confine “ufficiale”).
Trent’anni dopo, scopriamo di avere imboccato la prima delle due vie. Il conflitto di idee, alternative e visioni del mondo che ha caratterizzato il Novecento termina bruscamente con gli anni Novanta: bollato come ideologismo già nella discussione, risulta impossibile nella pratica. Continuiamo, in assenza di sostituti, a impiegare il concetto di partito, nato in un altro clima, in un’altra epoca: anche se tra il Partito Comunista o la Democrazia Cristiana da una parte, e il PD, il Movimento 5 Stelle o la Lega dall’altra non c’è molto in comune. Ma cosa è mutato effettivamente?
Se nel corso di gran parte del Novecento il partito è lo strumento grazie al quale si tenta di imporre una certa direzione al presente, oggi è proprio il legame fra soggetti, partito e idea del mondo che non si riesce ad immaginare. La politica si muove in un quadro dato e non discutibile, solo dentro ai suoi confini si ha libertà di scelta. In effetti, assomiglia in questo all’amministrazione, che non deve tanto valutare i propri meccanismi quanto farli funzionare al meglio. Se la vita individuale del singolo si va così allontanando dalla dimensione politica, il motivo è lo stesso per cui a nessuno di noi verrà in mente di interessarsi, poniamo, al funzionamento dell’ufficio del catasto del nostro comune, o alla struttura interna dell’INPS: come per le concessioni edilizie e la previdenza sociale, anche la politica è un mestiere, e come tale deve essere affidato a tecnici – dei buoni amministratori, di chiara fama, dei quali potersi fidare.
Il governo dei tecnici onesti e dalle comprovate competenze in Italia ha avuto due realizzazioni, entrambe soluzioni di emergenza, con Dini (1995-6) e con Monti (2011-13). Il modello tuttavia oltrepassa i confini dei veri e propri esecutivi tecnici: le formazioni politiche nate negli ultimi decenni si pongono sulla sua scia. Si riportano diversi estratti del torrenziale, lacrimevole e fallimentare (si veda il passaggio sulla finanza) Discorso del Lingotto del 2007 che, pronunciato da Veltroni presso la ex fabbrica FIAT, sancisce la nascita del Partito Democratico.
Un tempo di libertà, un tempo di ricerca fuori dai recinti ideologici, un tempo di curiosità intellettuale e di incontro con l’altro. Un tempo di ponti e non di fili spinati.
L’Italia deve crescere e investire sulla competitività, sul talento e sulla creatività dei suoi ceti produttivi, sull’unicità della sua bellezza e della sua cultura.
La nostra società deve muoversi
Non è con gli odi di classe che si abolisce l’evasione
… un ben funzionante mercato finanziario è una delle condizioni dello sviluppo. E un mercato finanziario funziona bene se è aperto
Più gente per strada, di questo c’è bisogno. Pensiamo solo a quale salto nei livelli di tutela della sicurezza delle persone e delle imprese si otterrebbe se tutto il personale che veste una divisa delle forze dell’ordine venisse […] impiegato a presidio del territorio, laddove i cittadini onesti – e anche i delinquenti – possano “sentirne” la presenza.
Chi è in basso deve poter salire. Chi vuol cambiare deve poterlo fare. Deve avere la speranza di poterlo fare e le opportunità per farlo. Deve poter credere che il futuro è nella sua mente, nel suo cuore, nella sua determinazione.
Un Paese che pensa positivo.
La retorica di Veltroni è quella dell’adeguamento al senso comune – per come lo concepiva Gramsci, ideologia sedimentata. Finanza, innovazione, sicurezza, creatività, evasione, nazionalismo da made in Italy, fine dell’ideologia: il discorso del Lingotto tocca i punti che il ceto medio italiano ritiene centrali. Le frasi sono attentamente calibrate per non risultare difficili, alternando affermazioni e concessioni. Il suo tratto è l’immediatezza: solo le risposte semplici sono valide, fuori sia dagli ideologismi che dagli inganni del latinorum di turno.
Di fatto, la nuova Italia che il Partito Democratico ha plasmato somiglia molto di più all’idea proposta dai potentati economici di Bruxelles e di Washington, che all’età dell’oro delle socialdemocrazie europee. Nel 2007, tuttavia, pareva che il PD, abiurando (oltre alle radici marxiste) l’idea della politica come mediazione complessa e conflittuale rispetto all’esistente, potesse proporsi come un soggetto al passo coi tempi, finalmente moderno, all’altezza dei competitors nazionali e internazionali. Sembrava potesse presentarsi immediatamente come tramite fra la volontà del singolo e la gestione dello stato, in una coincidenza senza residui. Riuscendo a portare a casa, in termini di riforme attuate fra 2013 e 2018, ciò che due decenni di berlusconismo non era riuscito a fare; per poi implodere (in che misura lo vedremo nei prossimi tempi) sotto il peso delle proprie colpe storiche. L’immediatezza veltroniana, a quanto pare, o era impossibile o nascondeva qualcosa.
Queste tendenze non sono solo italiane, si propagano nelle principali nazioni occidentali. La forma partito, principale risposta del Novecento al problema della mediazione, ne esce stravolta. Il problema a cui essa dava rappresentazione e legittimazione entra in un cono d’ombra, sembra scomparire illuminato a giorno dalle magnifiche sorti e progressive che ci attendono nel mondo vagheggiato da Veltroni. La politica come mediazione, strutturata a diversi livelli, in dialogo con tanti soggetti attivi nella società, cede un po’ dovunque il campo alla politica dell’immediatezza e dell’affermazione, della separatezza dalla società e non dell’intervento, del (finto) assemblearismo e non della delega, dell’unanimità e non dello scontro, dei leader e non del dibattito, dell’identificazione del militante nel partito e non della discussione.
Fare un’Italia nuova. È questa la ragione, la missione, il senso del Partito Democratico
Di fatto, la nuova Italia che il Partito Democratico ha plasmato somiglia molto di più all’idea proposta dai potentati economici di Bruxelles e di Washington, che all’età dell’oro delle socialdemocrazie europee. Nel 2007, tuttavia, pareva che il PD, abiurando (oltre alle radici marxiste) l’idea della politica come mediazione complessa e conflittuale rispetto all’esistente, potesse proporsi come un soggetto al passo coi tempi, finalmente moderno, all’altezza dei competitors nazionali e internazionali. Sembrava potesse presentarsi immediatamente come tramite fra la volontà del singolo e la gestione dello stato, in una coincidenza senza residui. Riuscendo a portare a casa, in termini di riforme attuate fra 2013 e 2018, ciò che due decenni di berlusconismo non era riuscito a fare; per poi implodere (in che misura lo vedremo nei prossimi tempi) sotto il peso delle proprie colpe storiche. L’immediatezza veltroniana, a quanto pare, o era impossibile o nascondeva qualcosa.
Queste tendenze non sono solo italiane, si propagano nelle principali nazioni occidentali. La forma partito, principale risposta del Novecento al problema della mediazione, ne esce stravolta. Il problema a cui essa dava rappresentazione e legittimazione entra in un cono d’ombra, sembra scomparire illuminato a giorno dalle magnifiche sorti e progressive che ci attendono nel mondo vagheggiato da Veltroni. La politica come mediazione, strutturata a diversi livelli, in dialogo con tanti soggetti attivi nella società, cede un po’ dovunque il campo alla politica dell’immediatezza e dell’affermazione, della separatezza dalla società e non dell’intervento, del (finto) assemblearismo e non della delega, dell’unanimità e non dello scontro, dei leader e non del dibattito, dell’identificazione del militante nel partito e non della discussione.
1 reply to 1. La nostra storia
Comments are closed.
Correlati