2. «We have the math. They have the myth»

Tra le tante tipologie di personaggi transitati sulla scena politica degli ultimi due secoli, quella che oggi ci colpisce di più – per il fascino che ne promana e insieme per la lontananza che avvertiamo rispetto agli schemi con cui strutturiamo la nostra esperienza, politica e non – è forse il “rivoluzionario di professione”. Colui il quale, volendo lottare per l’emancipazione degli oppressi, non limita il suo orizzonte al paese in cui è nato, ma mette se stesso, il suo sapere e le sue braccia, il suo impegno e la sua vita, al servizio degli oppressi di tutto il mondo. Alcuni sono diventati celeberrimi proprio per questa caratteristica. Pensiamo a Garibaldi, che combatte in tutta Italia, in Uruguay, in Brasile, in Francia; pensiamo a Che Guevara, argentino che fa una rivoluzione a Cuba, combatte in Congo e muore in Bolivia; ma al fianco di queste due icone troviamo migliaia di altre storie minori, storie di militanti di base che, spesso forzati a emigrare dalle turbolenze politiche del ‘900, insieme alla terra d’origine non abbandonano però la convinzione che sia necessario lottare e mettere a repentaglio la propria vita per cambiare i rapporti di forza nella società.

Figure del genere non erano nuove nella storia europea. Alcuni dei loro tratti caratterizzanti li troviamo già, ad esempio, nei capitani di ventura che hanno imperversato in Italia negli ultimi secoli del Medioevo. Certo, con una differenza rilevante: laddove i rivoluzionari di professione erano guidati fondamentalmente da una convinzione etica e politica, i capitani di ventura sono comandanti di milizie mercenarie, esperti dell’arte militare che mettono il loro sapere tecnico, la loro esperienza, il loro carisma al servizio del miglior offerente (ciò non impedisce che anche tra questi siano rintracciabili personaggi dotati di una grandezza quasi tragica: Giovanni delle Bande Nere, Carmagnola, il Gattamelata…).

Alla fine del XX secolo fa la sua comparsa un nuovo tipo umano riconducibile a questa composita dinastia: lo spin doctor. La qualifica designa un esperto di comunicazione che, dietro adeguato compenso, aiuta gli uomini politici a costruire il proprio percorso, dalle elezioni fino all’insediamento in una carica e al suo mantenimento. Egli è portatore di competenze, di una tecnica: suggerisce come atteggiarsi, cosa dire e quando dirlo per massimizzare il risultato, ottimizzando le risorse. Gestisce tanto gli interventi su televisioni e giornali quanto le apparizioni pubbliche di chi l’ha assoldato, avendo cura di rendere sempre comprensibile il suo messaggio. La premessa implicita di questa professione è che esista una sorta di scienza in grado di regolare al meglio le interazioni tra due oggetti distinti – il politico e l’elettorato – che, di base, si ignorano reciprocamente. Lo spin doctor svolge un ruolo di mediatore, creando tutte le condizioni affinché il contatto tra essi si svolga nel modo migliore e più proficuo possibile e il messaggio dell’uno venga correttamente calibrato sull’altro. Nel modello ideale, dunque nell’astrazione perfetta, la campagna elettorale viene programmaticamente spogliata di elementi come l’intuito o la personalità del politico e trasformata in un meccanismo che è possibile gestire analiticamente e scientificamente. Una simile convinzione risponde certo alla complessità sempre maggiore del contesto sociale entro cui viviamo, ma soprattutto a quella reciproca ignoranza che tendenzialmente contraddistingue la relazione tra elettore ed eletto dopo che, a partire dagli anni ’80, il modello del partito “leggero”, all’americana, si è universalmente esteso. La connessione diretta è sostituita da una mediazione tecnica che ha precisamente lo scopo di rendersi il più invisibile possibile, presentando il suo effetto come naturale, innato – lo spontaneo motto di spirito che durante la diretta tv conquista il pubblico è stato probabilmente studiato ad arte nei giorni.

ALLA FINE DEL XX SECOLO FA LA SUA COMPARSA UN NUOVO TIPO UMANO: LO SPIN DOCTOR

Il diffondersi di internet non ha fatto altro che elevare di grado la potenza di queste dinamiche. In tempi più recenti rispetto agli anni ’80 il ruolo dello spin doctor è stato infatti esemplarmente incarnato da Jim Messina, consulente politico originario del Montana, artefice dei due grandi successi elettorali di Obama (2008 e 2012 – in particolar modo del secondo) e di alcune delle più clamorose sconfitte della politica recente. Per intenderci: solo nel 2016 ha sostenuto il remain nel referendum sulla Brexit, Hillary Clinton contro Donald Trump e la campagna del sì – dunque Matteo Renzi – nel referendum costituzionale italiano. Il dato rilevante sta nel fatto che Messina è uno dei pionieri dell’utilizzo dei big data in campo politico. L’intuizione fondamentale su cui ha lavorato per portare l’attività dello spin doctor a un livello superiore è stata proprio quella di trasferire sul piano digitale l’attività politica di base, porta a porta, che caratterizza le campagne elettorali. La potenza dei nuovi mezzi di comunicazione di massa viene sfruttata per creare un profilo dettagliato dell’elettorato e perfino dei singoli elettori, tramite un’apposita app, in base a cui “personalizzare” il messaggio da rivolgere loro, ad esempio via mail. (Jim Messina ha metodo: prima di gestire la campagna obamiana del ’12, che rispetto alla precedente vedrà appunto un uso massiccio e sistematico dei social network, ha organizzato una lunga serie di consultazioni con personaggi come Steve Jobs, Steven Spielberg e Eric Schmidt, CEO di Google). 

Come abbiamo visto, la riproposizione in Europa delle strategie vincenti negli USA non ha avuto molto successo. Nonostante ciò, dopo le disfatte del 2016, l’anno successivo Jim Messina è stato ingaggiato anche da Theresa May, premier conservatrice inglese. Si trattava di un voto già di per sé particolare (May, pur essendo già saldamente al governo, ha improvvisamente sciolto il Parlamento e convocato le elezioni, contando di poter rafforzare la sua posizione anche in relazione alle trattative sulla Brexit), ma l’esito è stato persino sorprendente: non solo i conservatori non hanno stravinto, ma anzi il Labour ha registrato il risultato migliore degli ultimi decenni. Che ciò sia capitato nel momento in cui Jeremy Corbyn, segretario dal 2015, aveva spostato notevolmente a sinistra l’asse del partito, è un ulteriore tassello della sorpresa. In ogni caso, a tutti è risultato chiaro che uno dei fattori chiave della (comunque relativa) vittoria dei labouristi è stato Momentum, vale a dire il movimento nato nel 2015 e strettamente legato a Corbyn – o meglio, alla prospettiva politica di radicalità di cui Corbyn è portavoce –, che ora conta circa 40.000 membri e che nel corso di quella campagna elettorale ha mobilitato oltre 200.000 persone.

Nei mesi precedenti all’elezione i militanti di Momentum, in larghissima parte giovani, sono riusciti settimana dopo a settimana a far calare il vantaggio che i sondaggi ancora attribuivano a Theresa May, grazie a un uso sapiente di tutti i mezzi a loro disposizione – non ultimi internet e i social network. Da un lato hanno dimostrato di sapersi muovere sfruttando i luoghi “classici” della rete: una campagna coinvolgente e che batteva su temi sentiti in modo mai noioso, hashtag e video virali (al termine della campagna un terzo degli iscritti inglesi a Facebook aveva visto almeno un video del Labour). Dall’altro hanno utilizzato le potenzialità del mezzo per gestire la battaglia politica anche sul piano fisico, e non solamente digitale. Anche in questo caso è stata creata un’app, My Nearest Marginal, che permetteva però, a differenza di quella di Messina, di organizzare e agevolare la partecipazione diretta alle iniziative locali e alla campagna porta a porta: grazie all’applicazione si poteva scoprire la sede più vicina a cui rivolgersi e quante altre persone fossero intenzionate a lavorare in una determinata zona, ma era possibile anche organizzare macchine per recarsi collettivamente a tappe del tour elettorale o a una qualsiasi iniziativa. Oltre 100.000 persone l’hanno utilizzata, dando vita a una rete di militanti capace di muoversi capillarmente sul territorio e di avvicinare moltissimi alla politica per la prima volta.​

Nello scontro – per molti versi un cortocircuito – che si è consumato nelle urne inglesi l’8 giugno del 2017, oltre che nel corso dei mesi precedenti, troviamo quindi un’immagine sintetica di alcune delle possibilità che sono poste di fronte alla politica contemporanea: accettare la subalternità di fronte alla scienza elettorale dei big data, alla math di cui sono portatori figure come Jim Messina, moderno e farsesco capitano di ventura, o al contrario accettare il campo di battaglia, ma impadronendosi di quelle stesse tecniche per metterle al servizio di un preciso disegno politico, di un myth con cui provare a cambiare i rapporti di forza nella società.

NELLO SCONTRO – PER MOLTI VERSI UN CORTOCIRCUITO – CHE SI E’ CONSUMATO NELLE URNE INGLESI L’8 GIUGNO DEL 2017, OLTRE CHE NEL CORSO DEI MESI PRECEDENTI, TROVIAMO UN’IMMAGINE SINTETICA DI ALCUNE DELLE POSSIBILITÀ CHE SONO POSTE DI FRONTE ALLA POLITICA CONTEMPORANEA