La seconda generazione di lavoratori autonomi è composta soprattutto da profili altamente scolarizzati, oscilla tra la soddisfazione del proprio lavoro e la frustrazione per uno scarso riconoscimento. Le difficoltà non sembrano poche. Riuscire a far capire che lavoro si sta facendo non è sempre facile, «mio marito può dire che lavora nell’azienda x, io no; e poi i vicini mi vedono sempre a casa, secondo me pensano che sono disoccupata»; si tratta di figure professionali e di modi di lavorare che non sono più interpretabili con le categorie fordiste che ancora compongono i modi di pensare al lavoro e lo stesso immaginario dei lavoratori. L’assenza di riconoscimento è poi anche legislativa, troppi contratti normano le professioni autonome e nemmeno uno riesce a inserirle all’interno delle classiche tutele del lavoro, «lasciamo perdere la pensione che ormai non ci crede nessuno, ma non ho neanche la malattia»; «se domani scivolo e mi rompo un braccio e non posso lavorare per due mesi come faccio?», come si fa? insisto, «spero che i committenti siano disposti a darmi altri lavori quando sarò guarito, di più non saprei»; le ferie? «posso decidere di non lavorare per un paio di settimane, ma di solito devo farle coincidere con la pause dei committenti»; la disoccupazione? «…» il silenzio è la risposta più diffusa; almeno la maternità!, «sì, mi pare sia stato inserito qualcosa», quanto? «poco».
Nulla di nuovo sul fronte del lavoro autonomo, in parte è nella sua natura cedere porzioni di stabilità e di tutele lavorative a favore di una maggiore libertà e di guadagni più alti, ormai esistono sistemi di finanziamento privato per tutelarsi, «adesso però non posso permettermelo» mi dicono quasi tutti. E la recente inchiesta di ACTA conferma: quasi il 75% dei freelance ha un reddito che non supera i 30.000 euro annui e addirittura il 23,4% non arriva ai 10.000 euro, sempre lordi. Non bisogna però farsi ingannare dalle paghe basse: spesso si pensa che il professionista autonomo guadagni molto, e che se non è così si tratti di un’autonomia solo formale. I dati invece ci dicono che i finti autonomi – i lavoratori a tutti gli effetti subordinati costretti a lavorare però con un regime fiscale di autonomia – non superano il 10-13% del lavoro autonomo di seconda generazione. In ogni caso i problemi non finiscono qui e le lamentele tracciano un quadro preciso. Ritardi nei pagamenti e assenza di strumenti giuridici per tutelarsi, «eh, se il committente ritarda un po’ aspetti e poi solleciti», e dopo il sollecito?, «speriamo mi paghi e che sia solo un ritardo»; sì, ma se non ti paga?, insisto «bisogna passare per vie legali», non ci sono sindacati o associazioni di categoria? «non siamo una categoria e neanche un ordine, il sindacato non credo abbia gli strumenti per tutelarci». Parlando del rapporto con la politica oscillano, tra la diffidenza e il senso di solitudine; si sentono incompresi e non tutelati da nessuno; «la sinistra non capisce che siamo veramente indipendenti, non è che dobbiamo essere assunti a tempo indeterminato; però non guadagniamo tanto e i diritti ce li sogniamo». La faccenda si aggrava anche perché in molti casi manca anche un vero e proprio contratto, sembra un mondo che si basa sulla parola data «avviene tutto sulla fiducia capisci?» ti fidi di uno che ha il potere di non pagarti?, «sono abituati così, ti accordi, ma non firmi nulla. Se gli chiedo il contratto ho paura che poi si offendano», ma se il committente non vuole pagare come fai se non hai un contratto?, «c’è uno scambio di email no?»; scarse garanzie legali quindi, eppure i più mi dicono che «non c’è quasi mai la volontà di non pagare, solo di tirarla un po’ lunga per prendere tempo».
A questa situazione si aggiungono tratti di solitudine, «a stare da soli a volte rischi di perdere la testa», a cui è difficile rimediare perché tendenzialmente il 75% dei freelance non può permettersi uno spazio di coworking. Spesso si lamentano di un peso contributivo e fiscale troppo elevato, ma se faccio notare che la soluzione forse non è pagare meno tasse, piuttosto avere stipendi più alti e tassare i committenti così da avere delle riserve fiscali per poter finanziare più welfare tendenzialmente non trovo opposizioni; al limite qualcuno che mi dice «ragionare sulle tasse è inutile, puoi solo pensare a fatturare di più», ma non bisogna pensare sia l’incarnazione di uno spirito solo competitivo, perché i desideri di cooperare non mancano, anche se spesso non vengono concretizzati per assenza di progettualità, forse più politica che lavorativa.
I problemi principali sembrano essere i periodi di discontinuità nel lavoro non coperti dalla disoccupazione, le paghe basse che non permettono di creare risparmi cuscinetto e, infine, l’assenza di tutele: l’imprevisto (eufemismo per malattia e incidenti) è il grande terrore del freelance. Altra fonte d’angoscia è rappresentata dal timore di invecchiare professionalmente, ossia di non riuscire a restare al passo con la velocità dei cambiamenti interni al mondo del lavoro, nasce da qui la necessità di aggiornarsi e formarsi incessantemente: è il problema del costo e del tempo necessari alla formazione durante il periodo stesso del lavoro, ormai sempre più spesso esternalizzati dal sistema produttivo. Una situazione difficile dunque, aggravata dalla mancanza di riconoscimento; «quando mi dici che non siamo riconosciuti penso soprattutto al fatto che le difficoltà di cui abbiamo parlato non sono considerate costi del lavoro», intendi dai committenti?, «sì… ma anche dai noi stessi».
Una palude da cui sarà difficile uscire senza porsi la questione dell’organizzazione politica di questa fetta di lavoro. Per pensare a questo problema bisogna chiedersi perché, nonostante tutto ciò, così tanti siano felici di essere professionisti autonomi. Pochi mi dicono che accetterebbero un lavoro subordinato. Le possibilità di fare un lavoro che piace, di cambiare spesso mansioni rompendo la ruotine lavorativa, di sentirsi flessibili e di gestire autonomamente i propri ritmi e modi di lavorare difficilmente verrebbero barattate per una maggiore sicurezza sul lavoro. Questa situazione riflette un importante cambiamento interno alla cultura del lavoro. Se sbaglia chi pensa al mondo freelance come a un mondo luminoso di libertà e alti guadagni, sbaglia anche chi continua a pensare che questa fetta di lavoro autonomo sia semplicemente precariato da riportare nell’alveo del lavoro dipendente. Questo sarebbe sia un errore di tattica politica – le forze che determinano le tendenze generali del capitale e che rendono necessario il lavoro autonomo sono difficilmente contrastabili a colpi legislativi –, ma soprattutto sarebbe un errore di comprensione. Il lavoro autonomo di seconda generazione ha caratteristiche particolari che lo distinguono dall’impiego dipendente e sono rivendicate dai freelance; allo stesso tempo trattare in maniera dicotomica queste due tipologie di lavoro sarebbe una scelta miope. Alcune tendenze strutturanti del lavoro indipendente ormai appartengono anche al lavoratore subordinato; si fatica a nominarle perché quando si parla di autonomia e flessibilità si rischia sempre di finire nella trappola retorica che le traduce in precarietà materiale. Resta evidente però che il basso diritto del lavoro registrato nel mondo freelance intacca pesantemente anche la sfera degli impieghi dipendenti, inoltre ci sono molte situazioni fluide e di transizione tra le due sfere del lavoro, motivi questi che chiedono azioni interne alla classe lavoratrice, non di categoria.
Ad ogni modo, uno dei fattori più rilevanti è proprio il cambiamento culturale e nei modi di rappresentarsi la propria identità. Il nuovo tipo di freelance mette l’autonomia al primo posto, è disposto a resistere al mancato riconoscimento economico e sociale perché è sostenuto dalle sue aspirazioni di libertà, di controllo di sé e di realizzazione attraverso il lavoro. Sono questi i figli di Faussone, e se non ci sono dubbi che i freelance vogliano restare tali, alcune perplessità invece sorgono nel momento in cui ci si chiede se questo tipo di lavoro sia stato scelto in libertà. Rispondere è problematico, anche chi non baratterebbe l’indipendenza con la stabilità spesso afferma «sei quasi costretto a diventare autonomo, questo bisognerebbe dirlo», perché se vuoi fare il copywriter nella maggior parte dei casi non ti resta che aprire partita iva. Tradotto significa che sono le condizioni di mercato del lavoro a dettare i solchi entro cui muoversi: per molte tipologie di lavoro non c’è scelta, o lavori freelance o non lavori; se cerchi lavoro e non trovi offerte adeguate alle tue capacità o apri partita iva o ti adatti, in ogni caso ti adatti comunque. È, quindi, l’idea stessa di libera scelta a essere problematica, si tratta di scegliere all’interno di condizioni date; sì è liberi di elaborare le proprie mosse rispettando però le regole del gioco che sono predeterminate e di cui spesso non si ha totale consapevolezza. Le esperienze del lavoratore lo aiutano ad avere consapevolezza dei rapporti di forza esistenti tra venditore e compratore di forza lavoro, ma non sono sempre sufficienti a garantire uno sguardo d’insieme sul disegno totale che prende forma alle nostre spalle.
Se si guarda al lavoro indipendente solo con lenti soggettive sfugge qualcosa, perché sicuramente conta l’ordine dei desideri, ma la disposizione d’animo d’ognuno di noi è influenzata dall’ambiente: quanto più il lavoro salariato offre garanzie e sicurezze tanto meno la sfera del lavoro autonomo riuscirà ad esercitare il suo fascino. È infatti semplice verificare come il lavoro autonomo di seconda generazione si offra (e venga sfruttato) come mercato al ribasso di forza lavoro anche per molte mansioni tradizionali: quando nel mercato ci sono risorse umane più competitive (meno costose) è più facile dire al lavoratore dipendente che è finito il tempo delle tutele e delle garanzie, che agli aumenti di salario e agli straordinari pagati non ci deve più pensare [su questo punto si può vedere l’intervista a Giulia Cupani]. A tutto ciò, inoltre, si aggiungono questioni di immaginario: la reputazione del lavoro dipendente è stata erosa e, quindi, ha meno forza attrattiva del lavoro autonomo.
Eppure il problema della libertà non si esaurisce qui, perché è la stessa cultura in cui siamo immersi a produrre ciò che è o non è desiderabile; nessuno è veramente autocentrato. Tra Faussone – operaio specializzato fiero e orgoglioso del proprio lavoro – e noi ha preso vita un progetto di civiltà che influenza le nostre identità orientando ogni scelta personale.
1 reply to 3. Freelance, o mercenari del terzo millennio
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