La figura retorica della sineddoche, ci hanno insegnato a scuola, prevede di intendere «la parte per il tutto»: dicendo ‘mi faccio un bicchiere’, bevo un bicchiere di vino (e non, ovviamente, bevo un bicchiere vuoto); dicendo mi manca il pane, intendo che devo tirare la cinghia (e non che dispongo tutti gli alimenti, tranne il pane). La politica istituzionale oggi tende a costruire un rapporto sineddotico: dico Matteo Salvini e intendo, fino a un certo punto almeno, la Lega; dico di Maio e intendo il M5S. ‘Cosa fa Renzi?’ fino a qualche mese fa significava ‘cosa fa il PD’. I meccanismi attraverso cui la sovrapposizione avviene sono almeno in parte evidenti: un partito o un movimento si definiscono in base a ciò che comunicano attraverso parole e immagini; ma il volto pubblico di un partito o un movimento è quello dei leader, idee, argomenti e posizioni passano dalla loro voce.
Non c’è nulla di nuovo. Il tasso di gestione personalistica del potere di tanti grandi del passato, Cesare o Napoleone o Mussolini, fu immensamente maggiore; nelle democrazie occidentali, figure come Bloom, Kennedy o anche Mitterrand oscurarono, agli occhi dei contemporanei e ai nostri, l’organizzazione cui facevano capo. Tutti ricordano sigaro, bombetta e dichiarazioni di Churchill; ma chi ricorda il suo partito? Eppure, alla gestione di uno stato o di un partito sono necessarie decine di migliaia di individui, impiegate in mansioni differenti: un numero difficile anche solo da concepire, cui è più comodo, per la facoltà sintetica della nostra intelligenza, sostituire un volto. Quando penso al ventennio mi viene in mente Mussolini; quando penso alla Lega Nord, mi vengono in mente volto e voce di Matteo Salvini.
Se il soggetto, il leader, è sempre al centro della comunicazione politica, negli ultimi decenni sono però cambiati radicalmente i canali attraverso cui essa transita. A partire dagli anni Novanta, infatti, gli uffici comunicazione delle segreterie – come i loro omologhi destinati al marketing – hanno compreso l’importanza crescente di internet e agito di conseguenza: uno sforzo ingente è stato così destinato a coprire il nuovo ambiente di comunicazione.
Come veicolare contenuti politici su internet oggi? È presto detto: l’80% di chi naviga impiega social-media, bisognerà puntare lì; soprattutto, cioè, su Facebook, che in Italia lo scorso anno ha raggiunto i 33 milioni di utenti. Il dato numerico è importante non solo in termini assoluti, ma anche perché segna la netta vittoria su altri social come Twitter, in teoria più adatti alla comunicazione politica. Quest’ultimo infatti è inizialmente concepito come strumento verticale, in cui non si ha necessariamente la reciprocità della relazione: posso seguire Corbyn o Di Maio senza che lui segua me, solo perché mi interessa quel che dice; mentre l’amicizia di Facebook funziona (almeno in teoria) in entrambe le direzioni. La differenza non è da poco: il concetto di amicizia definito dall’algoritmo propone una completa parità. Certo non possiamo essere tutti “amici” di Di Maio, dato che Facebook limita il numero di amicizie possibili a 5000, ma la stessa dinamica viene riprodotta anche se ci limitiamo a “seguire” il leader – o la sua pagina, che d’altra parte non è mai solo istituzionale, ma ospita commenti personali, frammenti di vita, passioni calcistiche ecc. Possiamo comunque commentare tutte le sue attività, sperando, magari, che il nostro messaggio sia letto e che lui ci risponda. Impiegare questa struttura orizzontale per veicolare un discorso politico – essere virtualmente amici di Matteo Renzi – significa piegare il discorso stesso ai suoi criteri di funzionamento: esasperandone così i già spiccati e inevitabili tratti personalistici.
La questione è sempre la stessa: è nato prima l’uovo o la gallina? È il mezzo che ha spinto la politica in questa direzione, o è la politica degli ultimi vent’anni, basata più su apparenze e dichiarazioni che su pratiche e idee, ad aver scelto – spontaneamente – un canale di questo tipo? La domanda è, almeno in parte, oziosa: sono le conseguenze ad interessarci. Su Facebook la Lega piace a 425k persone, Salvini a 2,7 Mln; il PD a 270k, Renzi a 1,1 mln, Berlusconi a 1,1 mln mentre Forza Italia solo a 190K; il M5S (1,3 mln) fa ancora eccezione, per il suo specifico ancoraggio alla rete, ma il nuovo leader Di Maio sta ampliando il distacco (2,0 mln). La voce dei leader è dunque più forte di quella di una qualsiasi segreteria, mediamente nella notevole proporzione di 5 a 1.
Che a comunicare sia un personaggio pubblico o un’istituzione, la differenza è grande e riguarda soprattutto la disposizione degli utenti. Con un amico su Facebook avrò l’impressione di poter dialogare, di essere sullo stesso piano, di poter saltare tutte le mediazioni istituzionali dicendogli a viso aperto quel che si deve fare: con l’illusione che lui ascolterà. L’evidenza di questa ingenuità non scoraggia centinaia di migliaia di utenti che ogni giorno intervengono, rispondendo ad esempio ai post in cui Salvini ci racconta delle sue serate, o in cui Renzi ci comunica il suo stupore davanti alla bellezza di una mattina primaverile, a Firenze. L’uomo politico è come noi, in lui ci si può rispecchiare; non perché sia portavoce di un programma più o meno positivo, ma perché egli è quel programma. Nel volto e nel programma ci rispecchiamo, ci scordiamo noi stessi.
Le strategie retoriche impiegate per dar corpo a questa illusione sono numerose, ben note a chi si occupa di comunicazione. Sono state anche studiate da un giovane ricercatore, Diego Ceccobelli, che ha individuato alcune costanti stilistiche nei profili social di politici di venti paesi: 1) ricorrere alle persone e alle vicissitudini concernenti la propria vita privata; 2) utilizzare e interagire con gli ambienti mediali, le retoriche, gli attori stessi appartenenti al mondo delle celebrità della televisione, della musica, dello sport e del cinema; 3) riprodurre e interpretare gli stili di vita e la quotidianità dei cittadini, oppure gli usi e costumi e le pratiche dominanti della cultura popolare di riferimento.
Sembra proprio che l’Italia, per una volta, sia al passo degli altri paesi.
Quel che cerchiamo nell’uomo politico è la nostra stessa immagine: si è alla ricerca di uno specchio nel quale ritrovarsi. Il narcisismo è, con le parole di Christopher Lasch, «quello stato mentale per cui il mondo appare come uno specchio dell’io»: e la nostra è La cultura del narcisismo. Gli stessi algoritmi degli attuali social hanno introiettato e amplificato questo principio, formalizzato nella cosiddetta omofilia delle reti (in altri termini, personalizzazione): la caratteristica tecnica per la quale Google, Facebook e altri social network ci presentano i contenuti che, stando alle precedenti ricerche e preferenze, ci interessano; nascondendo il resto. Il leader politico, che incarna il partito o il movimento, per raggiungerci deve allora rispecchiarci. Deve essere come noi: una persona comune, con passioni comuni e magari piccoli vizi, perdonabili. Salvini in campagna elettorale ha smesso di fumare, ma forse, complice lo stress delle trattative post-elettorali, ricomincerà.
Come Narciso, cerchiamo il nostro riflesso nello specchio del leader, che a sua volta però deve incarnare chiaramente il programma politico del gruppo-partito.
L’uomo politico delle epoche precedenti sapeva prendere piuttosto che […] giudicare l’ambito politico, come del resto la realtà in genere, a seconda che “avesse in serbo qualcosa per lui, e non che fosse lui”. Il narcisista, al contrario, “sospende gli interessi dell’Io” in un delirio di desiderio.
[Lasch, pp. 40-1]
La situazione è paradossale: da una parte, l’ordinamento democratico è un valore da difendere, ed eventualmente da esportare, assieme al suo (necessariamente) complesso sistema di gestione; dall’altra, inconsciamente si tende a rifiutare la delega per cercare un rapporto diretto col leader. Le strategie di comunicazione spingono proprio in questa direzione, da una parte sovrapponendo il partito alla personalità (addirittura la legge elettorale lo prevede, con la necessità di indicare un ‘capo politico’), dall’altra favorendo l’immedesimazione dell’elettore: che avrà così l’impressione di poter influire immediatamente sulle scelte dei leader, dunque dei partiti, senza dover tenere in conto la reale e complessa struttura di potere che i gruppi organizzati necessariamente portano con sé.
1 reply to 3.Il volto del capo
Comments are closed.
Correlati