Dal mondo del lavoro sono scaturite forze conflittuali che hanno costruito la loro identità in opposizione alla verticalità, il nemico non era la veste formale degli apparati di potere, la loro banale superficie, ma la vocazione a creare ingiustizie in favore dell’accumulo. Quando il potere economico-politico ha cambiato faccia, e non l’anima, è riuscito a mettere al lavoro il cuore delle forze che si opponevano al suo progetto di civiltà, le ha sedotte. Le soggettività conflittuali sono state addomesticate, spezzettate nei mille rivoli della divisione tecnica del lavoro – autonomi, subordinati; precari, garantiti; operai, impiegati; italiani, immigrati… – che ha promesso orizzontalità: le dure e insopportabili mediazioni del Novecento sono saltate in luogo di una falsa immediatezza che non intacca l’asimmetria dei poteri in campo.
Al lavoratore subordinato è chiesto di essere pro-attivo sul luogo di lavoro, responsabile della buona riuscita dell’impresa, viene sottoposto a giochi di squadra e a lusinghe ideologiche affinché si senta parte integrante dell’azienda con cui, gli dicono, i suoi interessi coincidono. Il lavoratore autonomo sente di forgiare il proprio destino in un regime a libertà limitata in cui è eterodiretto e in cui non ha nessun potere, da solo, di cambiare le regole del gioco. Mondi diversi eppure legati dalla stessa sorte; impossibile cambiare le condizioni dell’uno ignorando quelle dell’altro, perché la debolezza di una categoria di lavoratori si offre come mercato al ribasso di forza lavoro che intacca le condizioni di diritto di tutte le altre categorie.
«A me del padrone non me ne fa mica tanto, basta che mi paghi quello ch’è giusto e che coi montaggi mi lasci fare alla mia maniera»; così diceva Faussone e i padroni l’hanno ascoltato. Non si tratta di affidarsi a nostalgie per il vecchio apparato gerarchico, ma di recuperare fino in fondo le aspirazioni degli sconfitti, ossia di ereditarle. Le mediazioni non possono essere dissolte, pena il potere assoluto del più forte. Le mediazioni possono solo essere poste su un livello più favorevole, o si daranno comunque, magari celate sotto la veste dell’orizzontalità. La sfida è costruire altre identità, con un altro ordine di aspirazioni, da quelle proiettate sulla società dal programma politico del capitale; si dà quindi il problema della costruzione di un uomo diverso da quello funzionale al progetto antropologico del neoliberismo e del post-fordismo in generale. È, come sempre, il problema dell’organizzazione collettiva, della mediazione necessaria a costruire un contro-potere da opporre al potere. Solo in questo tipo di opposizione ci si può riconoscere accomunati dalla stessa sorte, fuori da questa dinamica, anche conflittuale, non c’è idea di uomo contrastiva al progetto del capitale; e allo stesso tempo senza contro identità non può produrre opposizione.
Non c’è lotta: non c’è coscienza di classe; e viceversa. È ancora il problema delle uova e delle galline, aggravato dal fatto che si continua a chiedersi quale delle due venga prima, quando converrebbe invece cercare di capire chi ha messo la rete attorno al nostro bel giardino e spiegargli che deve smetterla di farci ingozzare per poi rubarci le uova mentre riposiamo.
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