È passato un anno da quando abbiamo pubblicato il nostro primo numero, dove abbiamo tentato di analizzare retoriche e immaginari legati al concetto di creatività, mostrandone la presenza costante e apparentemente immotivata all’interno della contemporaneità. Chiuso quel primo numero ci siamo guardati, stremati ma felici come lo si è dopo un primo travaglio, chiedendoci: e adesso? Una domanda semplice ma che sottintendeva quanto dovessimo ancora sforzarci non solo per farci conoscere (la presenza nei canali social e nel mondo reale), ma anche per individuare un nuovo nodo sul quale costruire il numero successivo.
A un anno di distanza eccoci qui. Il metodo è sempre lo stesso, basato sulla convinzione per cui una serie di fenomeni politico-economico-sociali non debba rimanere irrelato; che anzi proprio questa frantumazione dei nessi fra una realtà e l’altra, alla quale assistiamo quotidianamente, contribuisca alla determinazione di un pulviscolo intellettuale favorevole al mantenimento dello stato di cose. Al frammento continuiamo in questo numero a privilegiare la visione d’insieme, come ad un preciso corpo celeste preferiamo la costellazione all’interno del quale esso è innestato, nel tentativo di lasciar intravedere i legami latenti che, tra diversi universi di realtà, esistono. Allo stesso modo gli articoli presenti in questo numero potranno essere letti individualmente, ma potrebbero risuonare di un significato ulteriore se letti alla luce degli altri.
È cambiata invece la figura. Abbiamo intitolato il secondo numero della rivista Figure dell’immediatezza. Immediata è la percezione della realtà per come ci si para davanti. Il considerare le cose come sono fatte, senza porre filtri in mezzo, è oggi considerato un pregio; invece tutto ciò che si mette fra noi e il mondo, fra noi e l’azione, fa contrasto, frena, rallenta il movimento nel quale siamo immersi. Il contrario dell’immediatezza è la mediazione: significa individuare una sorta di soggetto terzo che regola e definisce i rapporti fra le parti; vuol dire riconoscere che alcune sfere dell’esperienza umana non sono determinate direttamente dalla volontà del singolo, che alcune strutture si intersezionano fra l’io e la sua azione, addirittura fra l’io e la sua stessa individualizzazione, andando ad influenzarla. A livello filosofico richiama un processo logico di ricerca della verità che sappia mettere in discussione la percezione immediata del reale, la neghi per giungere a una sintesi di conoscenza non ingenua, ma che veda l’intrico di tensioni che, nella forma di una contrattazione sempre momentanea, sta alla base di ciò che appare,. L’intuizione di una natura mediata della realtà viene dalla filosofia classica tedesca. Tutti gli uomini che, negli ultimi due secoli, hanno provato a capire – o cambiare – il mondo l’hanno saputo: ciò che, a prima vista, sembra semplice, intuitivo, dato, in realtà è frutto di spinte contrastanti che in un certo momento assumono una certa forma, ma possono averne altre. Oggi, per esempio, può sembrarci ovvio che il miglior governo sia quello democratico (sebbene la delega del potere sia spesso problematica), che i rapporti gerarchici verticali nella scuola siano deleteri, che a livello lavorativo la flessibilità (non la precarietà) sia da considerarsi un pregio. Guardando indietro, tuttavia il giudizio di valore sugli stessi esempi potrebbe risultare capovolto: chi, due secoli fa, avrebbe contestato la necessità della violenza nella pedagogia? Chi, quattro secoli prima, avrebbe puntato sulla democrazia quale forma di governo?
Il termine mediazione si lega al metodo di lavoro che abbiamo scelto: sotto agli immaginari e alle retoriche cui, come indica il sottotitolo, dedichiamo la nostra attenzione, cerchiamo di individuare i presupposti non detti, le spinte sottotraccia, gli interessi nascosti. Gli immaginari, nei quali siamo immersi come fossero natura – strutture non modificabili – e le retoriche che ci circondano e condizionano, a uno sguardo disincantato si rivelano infatti in tutta la loro complessità, attraversati dalle spinte che li strutturano e sostengono.
Nell’immediatezza – che sta all’opposto di tutto ciò – abbiamo individuato invece la figura da indagare in questo numero: il nodo concettuale attorno a cui convergono svariate narrazioni del contemporaneo, che ci aiuterà nel definire la fisionomia di questo presente, sempre nell’intento di palesare la rete di nessi che ne struttura l’ideologia nascosta, ma operante.
La società occidentale è stata, fino a un certo punto del Novecento, verticale, organizzata secondo principi gerarchici e regole che normavano l’esistenza degli individui in tutti i settori della vita. L’Italia uscita dalla Seconda Guerra Mondiale era gerarchica, strutturata, repressiva e articolata in rigidi organismi di mediazione. Gravitava attorno al rapporto capitale lavoro a forte regolazione statuale. Lo Stato era il soggetto che mediava i conflitti, garantiva il welfare e al contempo normava le vite. In buona sostanza esisteva uno schema ordinatorio della società che si muoveva dall’alto in basso, dal centro alla periferia attraverso una fitta ramificazione di poteri intermedi e locali deputati alla realizzazione delle logiche del centro.
Proprio la dissoluzione della verticalità è stata tra i principali obiettivi delle contestazioni del decennio ’68-’77: si è imposto lentamente un paradigma di orizzontalità che ha fatto venir meno molte mediazioni tradizionali, senza comportare una vera ridistribuzione del potere. Il potere si esercita, oggi, in forme morbide e seducenti, non più duramente repressive, ma non per questo inesistenti: il passaggio dalla verticalità all’orizzontalità riguarda infatti più che altro la veste formale della nostra società, che va a mediare diversamente quelli che restano gli stabili rapporti di forza che determinano le regole del gioco in cui siamo immersi.
Si pensi all’ambito della formazione – quello contro cui scaturirono primariamente le proteste sessantottine. Oggi a scuola sembra aver vinto il modello di Don Milani – non per niente il suo nome è il più citato dai manuali pedagogici impegnati nella concettualizzazione di una ristrutturazione in orizzontale della scuola. Si ribaltano le classi e l’insegnante scende dal podio e smette di trasmettere il sapere, ma dialoga con gli studenti allo scopo di costruirlo. Gli studenti si posizionano al centro di un sistema che punta tutto sulla personalizzazione della didattica, sulla valorizzazione del singolo e sull’apprendimento cooperativo. Eppure dietro a questa rivoluzione stanno i dettami dell’Unione Europea, che impone le sue competenze chiave e un sistema valoriale affine al modello neoliberista.
Qualcosa di simile si può osservare nei cambiamenti intervenuti nel modello produttivo. Il modello disciplinare di stampo industriale è repressivo, opprime gli individui con la gerarchia, l’autorità, le regole di comportamento e i protocolli di lavoro omologanti. Le strutture di mediazione (associazioni sindacali, datoriali, struttura interna del luogo di produzione) sono rigide e contrastive. Tale modello deve reinventarsi in seguito alle rivendicazioni conflittuali che provengono dalle fabbriche: il fordismo lascia il campo al post-fordismo come sistema produttivo. Il territorio viene messo al centro come principio di organizzazione della produttività e si impone la reticolarità dell’impresa diffusa. Inoltre, lo Stato tende sempre più a devolvere fette di potere alle istituzioni periferiche, con una progressiva privatizzazione di molte funzioni prima a controllo statuale: si diffonde il capitalismo delle reti e si espande enormemente il settore no-profit, cui viene delegata un’importante fetta di welfare. Il neoliberismo, strumento politico del post-fordismo, relega lo Stato a enzima dei processi economici. Cambia così il modo di intendere e di gestire il lavoro. Si elaborano strategie di gestione del personale che puntano a valorizzare il lavoratore, a renderlo partecipe delle decisioni; lo si seduce, gli si dice che il destino dell’azienda è anche il suo. E ancora, il capitale sembra spostarsi da monte a valle, lascia liberi i lavoratori di auto-organizzarsi, fa assumere loro la responsabilità della propria riuscita lavorativa. Si diffonde il lavoro autonomo, come risposta alle richieste di autonomia espresse dal mondo del lavoro; ma rischia di trasformare il rapporto fra individui in specchio della competizione d’impresa.
Anche i cambiamenti intervenuti nella forma partito sono indicativi di come i movimenti anti-autoritari, le tensioni libertarie e più in generale le richieste di orizzontalità abbiano messo in crisi la società verticale, venendo al contempo sussunti nelle strutture e istituzioni che orientano il nostro presente. Non solo i movimenti della sinistra extra-parlamentare, ma anche i partiti della sinistra radicale si ponevano il problema di produrre contro-informazione e contro-potere. Il partito novecentesco come forma di mediazione (a tutti i livelli: attraverso la discussione fra militanti, in dialogo con il sindacato, con le sezioni locali, attraverso giornali e editoria) entra in crisi assieme alla società delle mediazioni: la stessa contestata dalle richieste libertarie e antiautoritarie. Nella società contemporanea, sembrano vincere forme diverse, che propongono la gestione immediata e condivisa delle decisioni, dubitando della delega e dell’azione a livelli della società diversi da quello istituzionale.
La storia di internet è altrettanto eloquente. I mass-media classici creano opinione pubblica con un modello di comunicazione uno a molti: dall’alto arrivano le informazioni, dal vertice si costruiscono le opinioni. Oggi l’opinione pubblica si forma in modo totalmente diverso, il consumatore di notizie è anche il produttore di informazioni. L’individuo è messo al centro, può esprimersi, prendere parola, partecipare. Forse, però, non è al centro del mondo, ma solo di sé: quella struttura che doveva permettergli di partecipare in modo immediato alla costruzione della società, disturba con un enorme quantità di rumore la sua parola, rendendola irrilevante. Lo sciame in cui siamo immersi ci rende politicamente impotenti.
Davanti a noi si stende così un paesaggio di possibilità: formazione, partecipazione, lavoro, dispositivi e interfacce. Partecipare alla società contemporanea è questione di immediatezza: è sufficiente prendere quel che viene proposto, accogliere le regole non scritte, valutare come il mondo non possa essere altrimenti che così. Accettare, cioè, il quadro della fine delle mediazioni. O meglio: della fine delle mediazioni sulle quali è possibile avere un’influenza. Delle mediazioni che comportano un agire sulla realtà. Significa ignorare che nel quadro che immediatamente ci troviamo davanti esiste un solo organo di mediazione: il mercato. Fino a che esso rimane invisibile ed essenziale come l’aria che respiriamo, la forma complessiva delle nostre vite ne sarà condizionata nella sua globalità; iniziare a pensare alla superficie della nostra esistenza non più immediatamente, senza mediazioni, ma come equilibrio e sintesi di spinte diverse, invece, può significare assumerne il controllo.
Tutto questo non si può fare da soli. Ciò che in questo numero abbiamo provato a mostrare, trasversalmente nei vari campi di indagine, non è insomma un concetto o un tema, ma un metodo. Davanti a tutto ciò che sembra palese, evidente, immediato, è necessario scavare in profondità. Contro ogni esaltazione della superficie e dell’orizzontalità, la messa in luce delle mediazioni che dànno forma al nostro mondo è l’unico punto di partenza possibile per pensare, agire, quando necessario lottare. Non si può partire altrimenti che da qui.
Il lavoro presentato in questa rivista è collettivo, e collettivamente ci assumiamo la responsabilità di ogni singola parola. Tuttavia, dato che una collettività è composta di individui, segnaliamo che Rivoluzioni scolastiche è principalmente merito di Stefania Giroletti, Lavoro e libertà di Emanuele Caon, WhatsApp e lavoro di Roberto Favalli e Fiorella Longobardi, i Mondi della politica di Filippo Grendene ed Emiliano Zanelli, La bestia strana di Isacco Boldini, Il sangue della bestia di Filippo Gobbo, Dietro la maschera del saldatore di Isacco Boldini, Lo sguardo del cobra di Filippo Grendene. Le foto sono di Beatrice Bellavia, che ringraziamo, Filippo Grendene e Francesco Rizzato. La traduzione del saggio di Clément, Dreux, Laval e Vergne è di Maririta Guerbo e Alessandro Valsecchi. Le interviste sono state effettuate dai membri della redazione.
1 reply to Editoriale
Comments are closed.
Correlati