di P. Clément, Guy Dreux, Christian Laval, Francis Vergne
Il capitalismo trionfa solamente quando si identifica con lo Stato, quando è lo Stato.
Fernand Braudel, La dinamica del capitalismo.
Le trasformazioni dei sistemi educativi risultano incomprensibili, una volta isolate dalle evoluzioni economiche, sociali e politiche di questi ultimi trent’anni. Iscriverle nel movimento generale di una società sempre più segnata dagli obblighi della mondializzazione, della finanziarizzazione e delle politiche neoliberali permette di darsi i mezzi per capire il cambiamento formale della scuola e le nuove norme che la governano: in altre parole, la nuova era della scuola.
I sistemi d’insegnamento subiscono una progressiva mutazione che obbedisce ad un modello nuovo. Questo modello combina due aspetti complementari: l’incorporazione economica, che li trasforma in larghe reti d’imprese di formazione di “capitale umano”, e la competizione sociale generalizzata, che diventa il modo di regolazione del sistema stesso. Questa subordinazione intensificata al mercato del lavoro, al finanziamento privato e a una competizione sociale più intensa tra le classi e i gruppi sociali rende la scuola uno spazio dove si sviluppa in varie maniere la norma sociale propria del capitalismo contemporaneo. Per questa ragione noi parliamo di “nuova scuola capitalista”.
Non ignoriamo certo il degrado attuale della scuola e dell’università, e conosciamo lo “sfascio” prodotto nelle istituzioni di ricerca. Siamo consapevoli che i vari governi succedutesi negli ultimi anni, hanno deliberatamente messo in atto una politica di deteriorazione delle condizioni di studio degli studenti, e delle condizioni di lavoro dei professori. La distruzione di decine di migliaia di posti, l’assenza di formazione per i nuovi insegnanti, la strategia di precarizzazione del lavoro, l’impoverimento a carico dei ricercatori e degli insegnanti. Tali processi sono realtà tangibili. La profonda regressione della situazione nelle scuole ad assunzione popolare rivela un eugenismo scolastico che non dichiara il proprio nome. La scuola, la ricerca, la cultura sono diventate i bersagli prioritari di una politica che, a nome del “rigore”, vuole remunerare il meno possibile e far lavorare il più possibile tutte e tutti coloro i quali contribuiscono alla creazione di ricchezze nella “economia della conoscenza”. Ma bisogna capire che, tra questo degrado delle condizioni dei professori, dei ricercatori, degli allievi e degli studenti e il cambiamento profondo del funzionamento e delle finalità dell’istituzione, c’è un rapporto di causa ed effetto. La nuova scuola capitalista non procede senza forme inedite di proletarizzazione e di riproduzione sociale, che si tratterà di analizzare.
A partire dagli anni ‘60 e ‘70, la sociologia critica ha rivisto i processi di adeguamento del funzionamento della scuola ai bisogni del sistema economico e alle necessità del modo di riproduzione sociale. Ma, una volta considerate le mutazioni attuali, sembra che queste analisi non possano concepire appieno in cosa può consistere una scuola propriamente capitalista. Le opere di Pierre Bourdieu e Jean-Claude Passeron, La riproduzione,[1] e di Christian Baudelot e Roger Establet, La scuola capitalista in Francia,[2] hanno preso a prestito dal marxismo – chi più chi meno – i loro modelli d’analisi per rendere conto dei servizi resi dalla scuola al modo di produzione economico e al modo di riproduzione sociale che gli è associato. Insistendo da un lato sulla violenza simbolica e sugli effetti della “ignoranza” e, dall’altro, sull’efficacia della selezione e dell’orientamento scolastico in un sistema strutturato dalla divisione in classi, queste analisi hanno permesso di capire meglio ciò che, nelle istituzioni scolastiche, nel loro funzionamento e nei loro effetti sociali, dipendeva da logiche esterne ad esse.
Questi lavori hanno riaffermato, a modo loro, il gesto inaugurale di Durkheim secondo il quale non esiste una sociologia dell’istituzione scolastica senza una sociologia generale. Ma questo adeguamento funzionale della scuola alla forma generale della società non significava che la scuola era priva di ogni autonomia formale e contenutistica, e che era integralmente determinata dalle esigenze dell’economia e modellata dalle logiche della dominazione sociale. I saperi e le conoscenze insegnate, la cultura scolastica e universitaria non si riducevano ai saperi e alle conoscenze utili e spendibili nel mercato del lavoro. L’interesse dei lavori di Pierre Bourdieu, per esempio, non risiedeva nella semplice messa in evidenza delle ineguaglianze scolastiche, ma piuttosto nell’analisi dei meccanismi attraverso i quali un’istituzione dalla pretesa emancipatrice e universalista diventava, nella pratica, uno strumento di riproduzione sociale dalla efficacia spaventosa. Si trattava di capire come, offrendo dei saperi “puramente scolastici”, degli insegnanti spesso progressisti hanno in definitivo contribuito al funzionamento di un sistema classista. La scuola illudeva e manteneva questa illusione credendo di dispensare saperi e cultura senza alcun legame con i saperi e le culture di classe. Ma lo svelamento della natura sociale e storica di questi saperi (“l’arbitrarietà culturale”) non ha ancora permesso di pensare che tale cultura non aveva alcun valore, né che essa si riduce fondamentalmente “all’espressione” dei gruppi dominanti. Pierre Bourdieu conosceva sufficientemente le condizioni dell’autonomia scolastica e universitaria per evitare di ridurre i saperi costruiti dall’istituzione ai loro usi e ai loro effetti sociali, e per riconoscere il prezzo di questa capacità della scuola e dell’università a conservare una distanza con delle logiche e delle forze eteronome.[3] E, “l’astuzia della ragione scolastica” era stata svelata da tale sociologia: la riproduzione sociale trovava il suo fondamento nell’autonomia dell’istituzione scolastica.
È sulla questione dei saperi insegnati che si può misurare al meglio la distanza tra le attuali mutazioni e i risultati della sociologia critica degli anni ‘70. Questa sociologia deve essere oggi considerata pre-neoliberale. Perché il grande cambiamento attuale è giustamente segnato dalla scomparsa dell’autonomia scolastica tanto nel suo funzionamento che nei contenuti d’insegnamento. Nel nuovo modello, la scuola non pretende più di dispensare dei saperi “gratuiti”. Essa rifiuta di impegnare gli individui nella scommessa della cultura e delle conoscenze che potrebbero, alla fine, rivelarsi come non “proficue”. Essa si allinea sempre più esplicitamente e apertamente sulle forme e sui contenuti che rispondono alle esigenze della “nuova economia”, ovvero del capitalismo contemporaneo. La scuola è oramai obbligata a rendersi economicamente utile. Essa non illude più e non cerca più di produrre l’illusione della propria autonomia. Questa realtà è radicalmente nuova. Quando, negli anni ‘70, l’istituzione scolastica conservava il segno evidente di età più antiche e il marchio di tutti i compromessi che hanno caratterizzato la sua storia, essa abbandona oggi ogni capacità di difendere e di valorizzare dei saperi, delle conoscenze, una cultura che valgano per loro stessi. E, per una strana e consueta ironia della storia, è la sociologia critica stessa che sarà in parte utilizzata per accelerare il movimento di “modernizzazione” e di “apertura” dell’istituzione scolastica, rovinando poco a poco le logiche culturali, politiche e morali propriamente scolastiche, ormai condannate a scomparire nel contesto del capitalismo neoliberale.
Le “riforme” neoliberali
Le analisi che abbiamo iniziato oramai quasi dieci anni fa mostrano tutte il carattere sistematico dei cambiamenti, e il loro ritmo alla fine velocissimo, rispetto alla lunga storia delle istituzioni occidentali.[1] Ciò dipende evidentemente della potenza di fuoco delle forze economiche dominanti contro tutto ciò che, dopo aver servito da supporto alla crescita capitalista, ha finito per apparire come un limite all’accumulazione e alla valorizzazione del capitale. Ma nessun cambiamento di questa estensione sarebbe possibile senza la costruzione di un “discorso del cambiamento” il quale, precisamente in quanto eteroclito, confuso, astratto e talvolta contraddittorio, è capace di mobilizzare varie forze all’interno e all’esterno delle istituzioni scolastiche e universitarie. Appoggiandosi su tutte le critiche del passato, anche quando esse si contraddicono evidentemente fra loro, i governi di sinistra e di destra hanno così tentato di ricomporre i sistemi scolastici per “adattarli” alle nuove condizioni dell’accumulazione mondiale del capitale. Tale mutamento dei sistemi educativi non dipende da spiegazioni meccaniciste. Le istituzioni non si trasformano e si adattano certo sull’impulsione di determinismi ciechi e incoscienti, ma per l’effetto di una razionalità generale che si presenta a un dato momento come un insieme di enunciati, di evidenze e di dispositivi necessari.
Esse sono modificate dalle pratiche dei propri agenti nella misura in cui quest’ultimi obbediscono alle nuove norme.
È la concordanza, a partire dagli anni ‘80 e a livello mondiale, degli attacchi della destra neoliberale contro lo Stato sociale e della promozione di nuove forme di management (new managerialism) nelle imprese che ha permesso di concepire un vasto programma di riforme che colpiscono tutti i servizi pubblici. Il neoliberismo è oggigiorno precisamente questa stessa logica generale che impone ovunque, persino nelle sfere che sono a priori le più lontane dal cuore dell’accumulo del capitale, un identico sistema normativo di condotta e pensiero. Gli obblighi imposti dal capitalismo neoliberale si introducono progressivamente nel funzionamento dei sistemi educativi, per mezzo delle nuove norme istituzionali prescritte dalle “riforme”. Queste riforme hanno due caratteristiche, la prima comune a tutti i servizi pubblici, la seconda tipica alle istituzioni scolastiche. Esse partecipano ad un cambiamento che si è imposto alla totalità delle istituzioni pubbliche, e che innesta in esse delle nuove relazioni di potere centrate sulla ricerca della performance. L’istituzione scolastica e universitaria, proprio come gli ospedali, i servizi all’occupazione o la polizia, subisce così una trasformazione di tipo manageriale che punta ad aumentare la sua “produttività”, spinta dalla diminuzione dei prelievi obbligatori, all’interno di un contesto generale di concorrenza mondializzata tra capitali. Non è tanto questione di un’azione diretta dei padroni e dei mercati finanziari sulle mutazioni manageriali dei servizi pubblici e delle amministrazioni, quanto piuttosto di un lavoro simbolico e politico di lunga durata necessario affinché la problematica della “reinvenzione del governo” all’epoca della mondializzazione potesse imporsi. Ma questa metamorfosi generale dello Stato in Stato imprenditoriale – corporate state – è stata accompagnata da una trasformazione più specifica delle istituzioni della conoscenza. In ciò che viene oggi chiamato “l’economia della conoscenza” – segnata dalla predominanza dell’innovazione, dall’imperativo costante della competitività e dalla pressione finanziaria sul funzionamento di tutte le imprese – la “conoscenza” riveste, per il discorso ufficiale, un ruolo strategico che rimanda a un insieme di mutazioni economiche e sociali. Il nuovo capitalismo ha sviluppato delle nuove forme di concorrenza nella produzione e nella consumazione. Queste forme, incentrate sull’innovazione, modificano l’organizzazione interna delle imprese, e suppongono inoltre una vasta gamma di “mediazioni istituzionali” composte da servizi privati (trasporti, banche, comunicazione, svaghi, distribuzione, ecc.) e di servizi pubblici, i quali pure seguono le norme della nuova concorrenza generalizzata.[2] Se le nuove forme di produzione esigono delle competenze di un genere nuovo per poter far fronte senza interruzioni ai multipli processi di apprendistato nei quali il salariato è obbligato a entrare, le nuove condizioni della vita quotidiana e, in particolare, i nuovi modi di consumazione richiedono in egual modo delle competenze nuove e rinnovate. La concorrenza attraverso l’innovazione esige da parte dei consumatori e dei produttori dei comportamenti più strategici e delle competenze più sofisticate. La diversificazione delle merci, il packaging prodotti-servizi, la “finanziarizzazione della vita quotidiana” sono alcune delle modalità di questa nuova forma di vita gestita dalla logica di mercato. Questa apnea protratta che ha immerso la nostra esistenza in un mare di merci ha causato delle modificazioni soggettive e sociali che si ritrovano sul terreno del lavoro: reattività immediata alle modificazioni del mercato, crescita della velocità dell’esecuzione dei compiti, responsabilizzazione individuale per raggiungere gli obiettivi, esigenze di prestazione sempre più elevate, tutto questo è legato all’esposizione diretta agli imperativi dei clienti, in quanto a qualità e novità dei prodotti.
Il nuovo mondo del lavoro impone delle nuove condizioni al mondo dell’educazione. “L’insicurezza sociale”, secondo l’espressione di Robert Castel, caratterizza un mondo economico che riconosce sempre meno le conoscenze solide e durature che corrispondono a delle funzioni fisse e a delle personalità stabili. Questa insicurezza è il risultato di una concorrenza che ha la sua origine nel mercato del lavoro, tanto sul “mercato esterno” tra chi cerca lavoro per la prima volta e chi è disoccupato, quanto sul “mercato interno” delle imprese e dei gruppi tra salariati continuamente messi in condizione di rivalità. Questa insicurezza è rinforzata dalle riforme dei sistemi d’indennizzo della disoccupazione e del diritto del lavoro, e dalle nuove pratiche di gestione della manodopera nelle imprese. È un nuovo regime salariale che si instaura e che impone la propria norma al mondo dell’educazione: formare degli individui adattabili e delle personalità fluide.
Il termine flessibilità non indica soltanto il funzionamento dei mercati attuali; rinvia anche alle soggettività richieste per rispondere alle esigenze della nuova economia. Attraverso l’idealizzazione di questo nuovo habitat imposto ai salariati, la sorte di ciascuno sembra essergli rimessa tra le sue proprie mani. Poiché ogni difficoltà è un’ “opportunità”, poiché ogni prova è un “challenge”, chiunque ha molteplici occasioni per sentirsi responsabile per riuscire o fallire nella sola forma concepibile di esistenza: quella di un lavoratore della conoscenza e di un imprenditore di se stesso. Il beneficio di questa pressione concorrenziale è che i salariati sono obbligati a mantenere al miglior livello possibile il valore di mercato delle proprie capacità di lavoro, ciò che in termini manageriali si chiama la loro occupabilità. Questa nuova forma di gestione dell’impiego, associata ai meccanismi di creazione di insicurezza sociale, è diventata il punto di riferimento di tutti i programmi di riforma educativa, a partire dai cicli più precoci fino all’insegnamento superiore.
La forma valore della conoscenza
La generale mutazione dell’istituzione scolastica in una nuova scuola capitalista non sarebbe caratterizzata in maniera sufficiente se non si riconoscesse che essa è ormai accompagnata da una metamorfosi della conoscenza stessa. La strategia di Lisbona definita nel 2000 offriva all’Europa l’ambizione di diventare nel 2010 “l’economia della conoscenza più competitiva al mondo”. Solo con questo slogan indicava e promuoveva l’insieme delle mutazioni che dobbiamo analizzare. “L’economia della conoscenza” in effetti dà della conoscenza una concezione prettamente economica. In altre parole, l’economia fornisce il modello di ciò che la conoscenza deve essere: un’informazione remunerativa, un capitale cumulabile, un flusso continuo d’innovazioni e obsolescenze. Questa concezione della conoscenza puramente economica difesa dall’Unione europea, questa “economia della conoscenza”, intende precisamente fare economia della conoscenza, ovvero a scartare la “conoscenza” quando essa non ha alcun valore economico di mercato. Marx scrive che, “nella produzione di merci, il valore d’uso non è assolutamente una cosa che è ricercata per se stessa. Non si producono dei valori d’uso se non perché e nella misura in cui essi sono il sostrato materiale, il supporto del valore di scambio”.[1] Lo stesso ragionamento vale per “l’economia della conoscenza”. Nel capitalismo della conoscenza, quindi, non si ama la conoscenza per se stessa; la si ama solo alla condizione che essa sia il supporto, il mezzo di un profitto. Questo è il cuore del problema.
Riformulata nel 2010, la strategia di Lisbona è diventata la strategia “Europa 2020 – Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”. Se il termine di economia della conoscenza è stato sostituito da quello di “crescita intelligente”, vi si ritrova esattamente lo stesso “spirito”, poiché è precisato che “una crescita intelligente è quella che promuove la conoscenza e l’innovazione come motori della nostra futura crescita. Ciò significa migliorare la qualità dell’istruzione […] e fare in modo che le idee innovative si trasformino in nuovi prodotti e servizi tali da stimolare la crescita, creare posti di lavoro di qualità e contribuire ad affrontare le sfide proprie della società europea e mondiale.[2]”. La finalità, l’organizzazione, il funzionamento delle istituzioni d’insegnamento e di ricerca sono ad oggi sempre più sottomessi a una logica di mercato che, istituzionalmente, impone alla conoscenza la forma astratta di un valore economico secondo il quale saremo oramai costretti a pensarla, a giudicarla, a darle un prezzo. Questa forma valore della conoscenza non nasce soltanto e direttamente della possibile vendita di “prodotti e servizi cognitivi” in diversi mercati completi. Perché ogni conoscenza insegnata, o ogni conoscenza nuova, non ha bisogno di essere trasformata in una vera merce per ricevere la forma di una merce e per essere trattata come una merce. Questa forma merce non nasce dunque soltanto attraverso la supposta dinamica di un mercato della conoscenza che sarà alla fine “liberato”. Essa nasce e si esprime principalmente attraverso i processi di valutazione e d’orientamento delle istituzioni scolastiche e universitarie, i quali non comprendono più la conoscenza se non attraverso una norma quantitativa. In altre parole, la forma valore della conoscenza è l’effetto della normalizzazione imposta dagli strumenti manageriali della sua gestione e valutazione. È evidente che questa normalizzazione, che procede come se la conoscenza fosse una merce, prepara la propria radicale metamorfosi in merce reale.
Parlare di forma valore della conoscenza non significa quindi che ogni conoscenza sia immediatamente merce: significa, più propriamente, che le categorie con le quali bisogna oramai pensare la conoscenza, i dispositivi istituzionali e le norme pratiche che regolano e amministrano la sua produzione e diffusione, dipenderanno dall’obiettivo generale della valorizzazione economica. Il valore economico è diventato il criterio ultimo della validazione istituzionale e sociale delle attività di insegnamento e di ricerca. Esso è diventato la norma sociale che, sempre più, ordina dall’interno le pratiche dell’insegnamento e della ricerca. In assenza delle pressioni canoniche del mercato, una tale formalizzazione della conoscenza come valore economico è un processo normalizzatore che richiede una costruzione giuridica e politica. Essa mobilizza degli strumenti che incitino a valutare secondo un criterio economico ogni attività di conoscenza, a fare come se ogni insegnamento, ogni ricerca, potesse essere valutata secondo questo stesso criterio. Per rendersi reale, questa finzione normativa ispira e esige delle procedure dettagliate di valutazione e molteplici tecniche di management, surrogati del mercato nel cuore dei servizi pubblici, che sanzioneranno le attività “non remunerative” e svilupperanno le attività “remunerative”, che influenzeranno al meglio i “fattori di produzione” e i mezzi, e che ricompenseranno il talento e lo sforzo secondo il discrimine dei risultati misurabili ottenuti. Questo lavoro istituzionale si integra all’interno di una vasta operazione di astrazione finalizzata a privare le conoscenze particolari della proprietà di avere un valore economico su certi mercati. Così facendo, esso modifica le condizioni effettive delle attività educative e scientifiche e contribuisce, con un effetto performativo, alla riorganizzazione del campo della conoscenza sul modello del mercato.
Se la valorizzazione economica è in fine il solo modo di valorizzazione della ricerca e dell’insegnamento, conviene allora che la conoscenza venga prodotta secondo delle condizioni e delle forme che convengano idealmente alla produzione di valori di scambio, ovvero in imprese sottomesse alla concorrenza e gestite secondo delle norme di prestazione ricalcate dalle imprese del settore mercantile. In altre parole, se la conoscenza deve prendere la forma della merce, le istituzioni scolastiche e universitarie devono sposare la forma imprenditoriale. Ogni riforma applicata a queste istituzioni procede, in maniera palese o nascosta, da questa “rivoluzione manageriale” degli Stati che costituisce una delle maggiori evoluzioni di questi ultimi trent’anni nei paesi capitalisti.
La forma nuova della conoscenza s’impone con la predominanza della logica della competenza nell’insegnamento e con la logica dell’innovazione nel dominio della ricerca. Nell’insegnamento, la competenza è diventata la categoria strategica che permette di guidare i cambiamenti.[3] Essa incoraggia la professionalizzazione generalizzata dei percorsi scolastici e la ristrutturazione dei contenuti e dei dispostivi istituzionali di valutazione delle formazioni, dei modi di regolazione dei flussi scolastici, della normalizzazione e del controllo delle attività professionali degli insegnanti. La produzione delle competenze utili nella vita professionale e sociale è oggigiorno l’obiettivo degli istituti d’insegnamento e la categoria nella quale ogni insegnamento trova il proprio senso e il proprio diritto all’esistenza.[4] La Commissione europea ha precisato dal canto suo, nel contesto della strategia Europe 2020, che gli stati devono sforzarsi a “migliorare i risultati nel settore dell’istruzione in ciascun segmento (prescolastico, elementare, secondario, professionale e superiore) nell’ambito di un’impostazione integrata che comprenda le competenze fondamentali […], migliorare l’apertura e la pertinenza dei sistemi d’istruzione […], conciliare meglio i risultati nel settore dell’istruzione con le esigenze del mercato del lavoro.”[5] Le trasformazioni della ricerca seguono un modello analogo all’innovazione, ovvero la categoria secondo la quale le conoscenze nuove non hanno valore se non in quanto sono efficaci nella competizione che le imprese conducono nei mercati nazionali e, soprattutto, internazionali, nella stessa misura in cui l’innovazione viene considerata come la fonte della competitività delle economie sviluppate nella divisione internazionale del lavoro. Competenza e innovazione sono i due aspetti complementari della nuova forma generale della conoscenza. Sono le due categorie a partire e grazie alle quali i poteri pubblici ricompongono il campo dell’educazione. La competenza e l’innovazione operano una riduzione per astrazione della formazione umana e dell’attività intellettuale ai loro semplici valori economici: valore di scambio nel mercato del lavoro delle formazioni scolastiche e universitarie; valore di scambio nel mercato dei brevetti e degli altri titoli di proprietà intellettuale dell’attività di ricerca.