Pensando di approfondire il tema del lavoro autonomo, mi sono detto che un buon modo per farlo sarebbe stato intervistare i lavoratori. Le prima difficoltà sono sorte già quando ho cercato di capire come organizzare i vari intervistati: per tipologia? Per categoria? Per soluzione contrattuale? Per età? E poi, che lavori fanno i lavoratori autonomi? All’inizio pensare alle domande non è stato molto semplice.
Capisco che sia un problema: molte di queste occupazioni a volte non sono neanche considerate veri e propri lavori. Per l’immaginario collettivo è difficile figurarsi nello specifico questi lavori, e di conseguenza è difficile prenderli veramente in considerazione.
Alcuni mi hanno detto che non riescono a spiegare quello che fanno, che non riescono a dire come fanno a campare.
È vero. Capita che, anche se cerchi di spiegare quello che fai nella maniera più semplice possibile, rimanga comunque difficile per le persone capirlo.
Si riescono a stabilire rapporti di continuità tra freelance e committenti?
Sì, perché per il committente affidare un lavoro a un freelance è fondamentalmente una grande incognita, soprattutto se non lo conosce. Il committente in fondo non ha un reale modo di valutare la capacità effettiva della persona che assume; al massimo può chiedere di vedere un portfolio di lavori già svolti, ma al di là di questo fondamentalmente deve fare un atto di fiducia. Questo, tra l’altro, è il motivo per cui molti rapporti di lavoro nascono sulla base di conoscenze personali, più che attraverso piattaforme virtuali, siti internet eccetera: se il committente cerca un nuovo collaboratore, nove volte su dieci la prima cosa che fa è chiedere alle sue conoscenze se conoscono un professionista da consigliargli.
Hai mai lavorato per qualche piattaforma?
Mi è capitato una volta di leggere l’annuncio di una piattaforma di servizi editoriali che proponeva un lavoro che era, di fatto, a cottimo. La richiesta era di realizzare e-book: il committente caricava il file word del libro in una cartellina dropbox, il file andava scaricato e digitalizzato secondo una serie di parametri standard – ovviamente senza essere letto – e, se non veniva messo in lavorazione entro 24 ore, veniva cancellato e passato a un altro lavoratore. Non mi ricordo di preciso quanto fosse la tariffa per questo lavoro (alla fine non l’ho accettato) ma era veramente bassissima, pochi euro per ogni e-book, e la mansione di per sé era veramente meccanica. Questi però sono casi estremi… diciamo che, quando ci sono lavori che richiedono un minimo di componente umana, alla fine inevitabilmente si instaura un rapporto.
Ma tu come hai iniziato? Hai finito l’università e poi?
Io ho avuto un colpo di fortuna, nel senso che finita l’università ho mandato un curriculum, uno solo, a una piccola casa editrice, e ho ricevuto un’offerta per uno stage. Lo stage poi si è prolungato e alla fine ho lavorato lì per due anni. In quel periodo ho veramente imparato il mestiere, i miei colleghi mi hanno insegnato tutto quello che non sapevo a livello tecnico, quindi per me è stata un’esperienza positiva.
Quindi lo stage ha avuto un senso.
Sì, ha effettivamente avuto senso, anche se dodici mesi di stage sono stati parecchio impegnativi, perché lavoravo a tempo pieno guadagnando quasi niente. Dopo il periodo di stage ho fatto una sostituzione di maternità presso la stessa casa editrice, quindi per alcuni mesi sono stata di fatto una lavoratrice dipendente, ma quando la mia collega è tornata sono rimasta a casa. A quel punto ho iniziato a cercare un’alternativa, e mi sono accorta che potevo scegliere tra due strade: potevo insistere e cercare un altro lavoro nel settore, ma avrei prima di tutto dovuto cambiare città, oppure potevo rinunciare e cambiare completamente ambito di lavoro. Inizialmente, dato che ero un po’ scoraggiata, ho cominciato a cercare altre cose, ma mi sono resa conto che non funzionava: per tutti i lavori per cui mi candidavo di fatto non avevo un buon curriculum, quindi ho continuato anche a contattare case editrici e service editoriali. Un giorno la casa editrice dove avevo lavorato mi ha fatto sapere che avrebbero avuto la necessità di affidare alcuni lavori all’esterno, di tanto in tanto, ma che ovviamente per poter collaborare con loro come esterna avrei dovuto avere una posizione fiscale definita. Poco dopo un’altra casa editrice a cui avevo mandato il curriculum mi ha fatto sapere che erano alla ricerca di freelance, e a quel punto ho deciso di buttarmi e ho aperto la partita IVA. Ho mandato altri curriculum in giro, ed effettivamente le cose sono cambiate, ho avuto qualche risposta, e poi le voci hanno iniziato a girare. Va detto che, quando il committente sa che hai la partita IVA, diventa tendenzialmente più bendisposto ad affidarti qualche lavoro, magari anche solo di prova, perché sa che potrà pagarti senza problemi e che il lavoro è totalmente privo di vincoli. Insomma, per riassumere: io la partita IVA l’ho aperta perché era l’unica strada che mi permetteva di fare il lavoro che volevo fare. Una volta il libero professionista era una persona che faceva una scelta professionale specifica perché era attratto da un determinato modo di lavorare, più autonomo e autoimprenditoriale, ma oggi credo che le cose siano diverse. Oggi penso che tanti, come me, facciano questa scelta per necessità.
Sei contenta di essere un freelance?
Sì, sono contenta, perché funziona e perché (e non me lo aspettavo) faccio molte cose diverse, cosa che quando lavoravo in casa editrice ovviamente era meno presente. C’è meno routine, diciamo.
E altre cose che ti piacciono del lavoro da freelance?
Posso, limitatamente, scegliermi i lavori. Se c’è una cosa che non mi sembra interessante, o che non mi sento in grado di fare, posso rifiutare la commissione. Ovviamente so che, se lo faccio, corro il rischio di perdere il cliente, ma questo significa avere la possibilità di decidere come gestire il mio tempo. In qualche misura, ho la possibilità di scegliere su cosa investire, anche in termini di formazione.
Come fai a formarti?
Lavorando o leggendo, ma soprattutto lavorando.
Quindi tu devi investire tempo nella tua formazione?
Sì, inevitabilmente. Tante cose non sono proprio teoriche: devi metterti lì e provare.
E con l’imprevisto in agguato come si fa?
Questo è un problema. Ad esempio, una cosa che mi inquieta sempre un po’ è la possibilità di stare male. Per carità, di solito se ti prendi l’influenza per tre giorni e ritardi un po’ la consegna il committente lo capisce e ti viene incontro, però mi chiedo cosa succederebbe se avessi qualcosa di più serio. Dovrei di fatto smettere di lavorare, e questa prospettiva ovviamente è abbastanza inquietante. Mi dico sempre che ora sono giovane, quindi posso permettermi di non pensare troppo a questa eventualità… ma poi?
Come fai se succede? Tu prendi una paga che viene tassata, però non hai un welfare…
Mi pare che esista una piccola forma di tutela per le lavoratrici autonome in maternità, anche se a dire il vero non ne conosco i termini precisi, ma per la malattia non mi risulta che sia previsto nulla.
Ma se ti ammali e devi fare un mese di ospedale? Al di là dei costi della sanità, dal punto di vista del lavoro che succede? Non hai una tutela?
No, l’unica forma di tutela che posso sperare di avere in una situazione del genere è che il committente mi dilati le scadenze – se può farlo – oppure che sia comunque disponibile a ridarmi dei nuovi lavori al prossimo giro. Questa cosa è inquietante, anche perché non serve essere in punto di morte per non poter lavorare… se cado in bici, mi rompo il braccio e devo portare il gesso, buona parte del mio lavoro diventa impossibile da svolgere. Questa cosa va messa in conto nei rischi, forse è un punto su cui siamo accomunati ai professionisti vecchio stile.
Ma questo rischio rientra nell’idea di paga?
Direi di no, e mi pare che non rientri neanche nella percezione che l’immaginario collettivo ha del freelance. Nessuno pensa mai a questi aspetti… se si pensa a questo mondo, la prima cosa che viene in mente è il privilegio di poter lavorare da casa, liberamente, senza orari vincolanti. Una cosa che mi capita di sentire, e che mi fa molto arrabbiare, è che questo tipo di lavoro è molto più compatibile con l’organizzazione famigliare. A me pare una cosa folle, secondo me non è per nulla vero.
Mi chiedevo se c’è una cultura che permette al committente di capire che il tuo lavoro dovrebbe avere un prezzo che copre tutti i costi normali del lavoro: rischio, ferie, malattia. Se il rischio di impresa lo scarica su di te allora dovrebbe pagartelo.
Questa è la teoria, nella pratica si naviga un po’ a vista… nel senso che quando si prepara il preventivo per un lavoro, bisogna imparare a mettere in conto anche questi aspetti.
Tu hai avuto momenti di contrattazione?
Sì, ma molto implicita. Non mi è mai capitato di avere un parametro fisso, ad esempio il committente che mi dice «ti do un tot a pagina», e a un certo punto chiedergli di pagarmi di più. Però mi è successo di presentare dei preventivi in cui aumentavo determinati parametri, magari perché sapevo che il lavoro si sarebbe protratto più a lungo del previsto, o avrebbe avuto difficoltà particolari, e allora mi sembrava giusto chiedere di più. Si tratta di una contrattazione molto più sottintesa, non c’è esattamente un momento in cui uno fa un’offerta e poi la controfferta e così via.
Immaginiamo che tu faccia una serie di esperienze come lavoratore autonomo, maturando un profilo professionale interessante. Ti faresti mai assumere da un’azienda?
Dipende. Mi è capitato, ad esempio, di ricevere una proposta di assunzione da un’azienda che si occupava di cose totalmente estranee al mio ambito di lavoro: avrei dovuto cambiare completamente settore, ma sarei passata a una condizione molto più sicura e tutelata. Ammetto di averci pensato su, la cosa per un po’ mi ha tentato, ma alla fine ho rifiutato l’offerta. Se, però, qualcuno mi facesse una proposta per un lavoro che mi piace, o se l’azienda mi sembrasse interessante, sicuramente accetterei.
Quindi diciamo che se si trattasse solo di paga e garanzie tu comunque non ti faresti assumere.
No.
Perché no?
Perché mi sembrerebbe di buttare via tutto quello che ho costruito, con parecchia fatica, in questi anni da freelance. Tutta la mia formazione, le mie esperienze, i miei contatti. Poi, mi rendo conto che io sono nella condizione di poter fare un ragionamento del genere: se avessi dei figli, per dire, immagino che i miei parametri di scelta sarebbero diversi.
Ma nell’idea di essere un lavoratore autonomo con partita IVA quanto conta l’idea di far carriera?
Per me conta piuttosto poco, ma in effetti è un ambito in cui fare carriera è possibile. Mi è capitato di conoscere professionisti che, negli anni, sono diventati un punto di riferimento riconosciuto nel loro settore: per dire, conosco una persona che è la massima autorità, a livello nazionale, a proposito di una tipologia molto specifica di testi. Lui un tempo sarebbe stato il capo settore di una singola grossa casa editrice, adesso invece lavora come freelance.
Sembra che il lavoro autonomo in molti casi non sia proprio scelto: o non si trova lavoro, o le condizioni iniziali del lavoro subordinato non sono molto allettanti. Quindi uno è incentivato ad aprire partita IVA e provarci per conto suo. Però sembra anche che quando uno entra nel mondo del lavoro autonomo poi non cambia più strada, e non capisco se non voglia o non possa passare al lavoro subordinato, che per certi versi dà maggiori sicurezze.
Beh, intanto va detto che cercare lavoro è una cosa molto impegnativa… è a sua volta un lavoro, da un certo punto di vista, ed è ovvio che nel momento in cui inizi a cercare come freelance tendenzialmente smetti di cercare posizioni come subordinato, anche perché i committenti sono più disposti a lavorare con un autonomo che ad assumere un dipendente. Quindi diciamo che è una cosa che viene un po’ da sé: quando hai la partita IVA, riceverai proposte di lavoro come freelance. In prospettiva futura, devo dire che questa cosa mi spaventa un po’, perché mi rendo conto che il tipo di lavoro che sto facendo ora funziona molto bene finché sei giovane, flessibile, adattabile. Ma tra vent’anni, quanto sarà cambiato il settore in cui sto lavorando? Io sarò in grado di affrontare il cambiamento?
Tu hai un’idea dell’età media degli altri che lavorano come te?
È difficile dirlo, perché non sempre conosco gli altri freelance che lavorano per i miei committenti. Però la mia sensazione è che l’età media sia bassa, che le persone di una certa età abbiano altri tipi di inquadramento. E quindi mi chiedo: quando avrò 50 anni, avrò la capacità di stare dietro a un mondo del lavoro fatto così?
Di solito le forze storiche della sinistra (il partito e il sindacato) hanno tra i temi centrali il lavoro e i lavoratori. Secondo te si curano dei lavoratori autonomi?
Assolutamente no.
Non ti senti rappresentata?
No. C’è per prima cosa un problema generazionale… il sindacato ha spostato i suoi riferimenti, e ora mi pare tuteli soprattutto chi ha tipologie contrattuali che oggi non esistono più, e i pensionati. E poi…
Gli operai di un tempo, o magari gli immigrati di oggi.
Sì, perché fanno un lavoro simile a quello che loro intendono per “lavoro”. Io non posso parlare per tutti gli autonomi, ma faccio fatica a pensare a un lavoratore autonomo che si senta tutelato e rappresentato da una forza politica di sinistra. Da un certo punto di vista è il contrario, è quasi come se fosse rimasta una percezione del lavoratore autonomo come quello che ha voluto fare il padroncino e adesso ovviamente deve cavarsela da sé, non è che si può aspettare che qualcuno venga a curarsi dei suoi diritti.
Facciamo un passo indietro. Secondo te il freelance sente il problema del diritto del lavoro?
Assolutamente sì, da tanti punti di vista. Per dire: banalmente servirebbero maggiori tutele nel campo dei pagamenti, perché per un freelance un problema non trascurabile è quello di riuscire a farsi pagare in tempi certi e ragionevoli.
E per questi aspetti hai degli strumenti di tutela?
Tecnicamente nel momento in cui il freelance fa una fattura e il committente la accetta senza contestarla, la fattura deve essere pagata. Ma se il bonifico non arriva ugualmente, cosa fai? Puoi fare causa al committente, certo, ma è ovvio che questa è proprio l’ultima spiaggia.
E tu in caso non puoi andare da un sindacato?
Penso proprio di no, non credo che un sindacato avrebbe particolare titolo per agire, perché io non ho un contratto di lavoro, quindi non posso accusare il mio datore di lavoro di comportarsi in modo antisindacale.
Cosa chiederesti allo Stato? Il tema delle tasse è importante?
Io non chiederei di pagare meno tasse, mi sembra molto più urgente altro. A me farebbe molto più comodo poter contare su qualche forma di welfare… anche perché la tassazione per me che guadagno poco – cioè sotto i 30 mila euro lordi l’anno – non è così insostenibile.
Tu quindi piuttosto di chiedere meno tasse chiederesti un sistema di tutele.
Assolutamente sì, nel senso che la tassazione incide, ma avere qualche soldo in meno al mese per me non ha paragone con la sicurezza di poter usufruire di qualche tutela.
E questo non ti pare un punto di contatto con il lavoro subordinato?
Questo è vero.
E secondo te, proprio nell’idea di dare tutele ai lavoratori in generale, si può pensare di fare pagare una parte del costo del lavoro autonomo direttamente al committente?
Io lo trovo giusto, e per me sarebbe la soluzione ideale. Anche perché a quel punto si creerebbe uno sbandamento per cui tornerebbe a essere competitivo il lavoro subordinato. Perché alla fine tutta questa faccenda rischia di diventare un gioco al ribasso: la partita IVA è competitiva nel momento in cui il datore di lavoro sa che non ha preoccupazioni, mentre il lavoro dipendente crea vincoli e problemi; se dovesse versare qualcosa anche per i collaboratori freelance, forse anche il committente si renderebbe conto dei vantaggi di avere un dipendente.
Mi sto chiedendo se ci sono elementi che mettono in connessione il lavoratore autonomo di seconda generazione (così si chiamerebbe il tipo di freelance che rappresenti tu) con il lavoro dipendente.
Non lo so, io penso che il mondo del lavoro in Italia sia molto polarizzato. Nella mia percezione c’è una grande conflittualità tra categorie, vedo i lavoratori subordinati che se la prendono con gli statali, i giovani che se la prendono con i vecchi o viceversa. Quindi la vedo molto dura da questo punto di vista. Io penso che gli autonomi si sentano molto più isolati di quello che sono in realtà, mentre alcune rivendicazioni potrebbero senz’altro essere comuni.
E secondo te è pensabile un’azione collettiva da parte degli autonomi? Perché pare in contraddizione con l’idea stessa di lavoro autonomo? Insomma va bene lo spazio di coworking per cui si collabora e ci si aiuta, ma si può immaginare un’azione collettiva di tipo politico con cui si rivendicano una serie di diritti del lavoro?
Io penso che in questo momento non sia ancora possibile, ma in prospettiva potrebbe accadere. In fondo, è sempre una questione di numeri… probabilmente un’azione collettiva sarà possibile quando il lavoro subordinato sarà sempre meno diffuso, sostituito da questo tipo di inquadramento. Per ora, invece, siamo tutti troppo abituati a stare a queste regole del gioco. Io stessa, se ripenso a quando ho aperto la partita IVA, dentro di me mi sono detta: “va bene, da adesso in poi devo resistere”.
In una lotta solitaria intendi?
Sì, la mia percezione psicologicamente è stata questa. Però non credo che debba essere così per forza, non mi pare una caratteristica insita nel tipo di lavoro. Anche perché mi pare che il problema non riguardi solo gli autonomi, mi sembra che la tendenza a concepirsi come “collettivo” stia scomparendo anche tra i dipendenti, perfino nelle realtà che storicamente erano più politicizzate. Mia madre, per dire, lavora alla Coop, e in un contesto come quello di una cooperativa uno si aspetta che sia ovvio agire collettivamente per migliorare la qualità del lavoro di tutti: eppure, a quanto mi racconta lei, nemmeno lì è più così.
Stai dicendo che questo problema va oltre la condizione lavorativa?
Credo che la questione generazionale sia la chiave di tante cose, secondo me le battaglie e le rivendicazioni oggi sono molto più trasversali, superano le categorie. Un mio coetaneo che lavora come dipendente, parlando del suo lavoro, secondo me ti direbbe cose tutto sommato simili a quelle che sto dicendo io. Non credo che le nostre esigenze siano in conflitto. Le differenze nel tipo di approccio le vedo molto di più con le persone che hanno un’età diversa dalla nostra, e la stessa cosa probabilmente succederà anche in futuro. È anche vero che ci troviamo in questa situazione in cui noi autonomi di seconda generazione abbiamo tutti più o meno la stessa età, quindi è possibile che la situazione cambi, quando la situazione si stratificherà un po’ di più.
Se uno dovesse prendere le categorie marxiane non saprebbe dove mettere voi lavoratori autonomi. Perché ci sono i capitalisti da una parte, i proletari dall’altra. Però appunto un lavoratore autonomo, che uno a volte se lo immagina precario altre imprenditore, dal punto di vista della composizione di classe non sa dove metterlo.
Guarda, dal mio punto di vista io non ho dubbi: lo porrei assolutamente nel settore dei prestatori di lavoro. Penso a casi estremi in cui l’autonomo lavora proprio a cottimo.
Quindi vende lavoro, punto.
Sì. Ci sono tante situazioni in cui il lavoro del freelance – per quanto possa essere intellettuale, qualificato e così via – è proprio a cottimo. Ti faccio un esempio: io collaboro spesso, come copywriter, affiancando grafici, quindi ho l’occasione di vedere come ragionano, come elaborano le idee, come lavorano. Il grafico fa un lavoro che, secondo me, è il massimo della creatività: per disegnare il logo di un’azienda, per dire, deve fare delle ricerche, deve studiare come comunicano i concorrenti, deve pensare un concept fondato su un’idea e poi deve trovare il modo di renderlo graficamente. È un lavoro lungo e complesso, che spesso procede per prove ed errori: non è che si siede al tavolo e scarabocchia un disegnetto. Invece la concezione del committente spesso è superficiale: a me serve il logo, tu sei tecnicamente capace di realizzarlo quindi per te non è una cosa complicata, ci metti un attimo, e in una giornata puoi farne tre, quattro, cinque. Più ne fai, più significa che sei bravo. Cosa c’è di diverso rispetto all’idea per cui il lavoratore “produttivo” è quello che realizza un certo numero di pezzi all’ora? A me sembra molto simile… mi pare paradossale, e anche un po’ inquietante, ma è proprio così.
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