Mi racconti come nasce Smart e di cosa si occupa?
Smart è l’acronimo di Società Mutualistica per Artisti ed è un progetto che è nato in Belgio, a Bruxelles, nel ’98. Nasce da due persone, un fiscalista e un ingegnere nucleare, che avevano molti amici musicisti e avevano notato che questi, pur conoscendosi tra di loro da un punto di vista artistico, agivano dal punto di vista lavorativo in modo estremamente individualizzato e atomizzato, trovandosi così in una condizione di grande fragilità.
In che senso fragilità?
Ad esempio il loro lavoro non veniva riconosciuto come tale, né dai committenti né dalle istituzioni pubbliche: dal commercialista per la dichiarazione dei redditi; all’avvocato del lavoro; per non parlare dell’Inps Belga. E nemmeno loro stessi si riconoscevano, non riuscivano a percepirsi veramente come lavoratori a tutti gli effetti. Inoltre, erano sottoposti a delle tempistiche di pagamento assolutamente volubili; e infine spinti da tutto ciò al lavoro in nero. Il mercato del lavoro belga era estremamente polarizzato dalla dicotomia lavoratore dipendente/imprenditore: nel primo caso tu lavori per tutta la vita o comunque molti anni in un’impresa ed evolvi, se puoi, in modo gerarchico assumendo più responsabilità e via dicendo; nel secondo l’imprenditore, nell’accezione fordista del termine, è quella persona che compete con altri in modo più o meno aggressivo per massimizzare il profitto suo e dell’azienda, si assume il rischio e se riesce guadagna tanto.
E quindi all’interno di questa dicotomia i musicisti non trovavano uno spazio…
No, questa polarizzazione li escludeva, condannandoli anche alla solitudine. Osservando i loro amici i due fondatori di Smart hanno intuito che si trattava di una situazione generalizzata a tutti i lavoratori del settore artistico: l’artista è un po’ l’archetipo del lavoratore che esce da questo tipo di schemi perché vive una forte dimensione di autonomia nella definizione e organizzazione del suo lavoro. Eppure, nonostante l’autonomia, non è (se non in rari casi) un imprenditore in senso fordista; la sua ricerca professionale non è mossa esclusivamente dal vettore del profitto, ma da molti altri. E da qui Smart ha iniziato a riflettere sul fatto che il lavoro artistico e culturale ha delle forti esternalità positive per la società, quindi ha un forte valore aggiunto e di conseguenza è interesse collettivo che sia difeso e valorizzato.
Si è quindi creata una struttura adatta a collettivizzare questi lavoratori, rispondendo in modo condiviso a dei bisogni che si pensava che loro ancora non sapessero di avere, ma che in fin dei conti erano uguali per tutti. Nasce così la società mutualistica per artisti, che inizia come Onlus: una struttura in cui tu ti iscrivi, e se hai un concerto stasera, piuttosto che un reportage fotografico, è la cooperativa o l’associazione che fattura al posto tuo al committente e poi tu sei assunto dalla struttura per la realizzazione di quel lavoro. Il cliente riceve la fattura, tu lo stipendio netto e non devi assumerti altre complessità: la struttura risponde alla difficoltà di contrattualizzazione di certi lavori perché il committente non vuole assumere il lavoratore, e questo però non vuole aprire la partita iva. Allora la struttura si occupa di questi problemi, mette a disposizione la sua partita iva, permette di utilizzare uno stesso consulente del lavoro per le buste paga, uno stesso commercialista e in caso uno stesso legale. In cambio è richiesta una percentuale sui compensi che è uguale per tutti, secondo l’idea che Smart difende il lavoro dei soci indipendentemente dalla riuscita commerciale specifica del progetto; i lavoratori quindi possono avere accesso a tutta una serie di servizi che se pagati individualmente costerebbero molto di più. L’intuizione è stata quella di prendere questa percentuale (in Belgio è 6,5%, in Italia 8,5%, la variazione è legata ai costi riconducibili alle procedure gestionali e burocratiche) per creare una sorta di salvadanaio collettivo per l’auto-organizzazione dei lavoratori. Le sue funzioni sono diverse: tutelare tutte queste forme di lavoro; pagare le persone che lavorano in Smart; garantire lo stipendio dei lavoratori indipendentemente da quando il committente li paga. Inoltre, Smart per i lavoratori diventa anche un sistema di condivisione del loro rischio d’impresa, proprio al contrario dell’ottica fordista per cui più rischi più guadagni, ma rischi di perdere tanto e quindi sei lasciato il più libero possibile. Al contrario, Smart decide di dare una struttura che garantisca tutta la flessibilità di cui i lavoratori hanno bisogno (dalla fatturazione, all’alternanza dei periodi di lavoro e non lavoro, etc), ma allo stesso tempo non scarica sul lavoratore tutto il rischio individuale d’impresa, ma lo collettivizza: con maggiori tutele.
Fammi un esempio.
Pensa al fotografo. Il suo committente gli dice: «io voglio che tu vada a farmi un reportage in Italia sulle elezioni politiche», ma non gli dice come deve farlo; quindi c’è una importante dimensione autonoma per cui il committente sceglie queste persone perché si fida delle capacità di autonoma realizzazione di un certo prodotto a un certo livello di qualità, ma è anche autonomia a livello di orari e di luoghi di lavoro. Si ha così una forte autoorganizzazione. Smart però contrattualizza i lavoratori, si realizza così una macro-manovra di riappropriazione del welfare per lavoratori che altrimenti avrebbero lavorato in ritenuta d’acconto o peggio senza contratto: senza versare contributi.
Quindi possiamo dire che questi lavoratori abitano una zona grigia all’interno della dicotomia lavoro dipendente e impresa?
Certo, il problema è che per questa zona grigia non esistono strumenti sistemici che garantiscano l’organizzazione e la tutela di quella che è a tutti gli effetti una nuova forza lavoro, e questo perché il sistema pubblico è rimasto cieco davanti alla novità: considera il freelance come una finta partita iva, o ancora peggio come un imprenditore che non ha abbastanza successo, senza riconoscerne le specificità. Quello che fa Smart è riconoscere che si tratta di lavoratori a tutti gli effetti e che vanno pagati come tali, non con birre e patatine o con la visibilità che in un futuro gli porterà qualcosa; di lavoratori specifici che hanno bisogno di strumenti di tutela specifici.
Spiegami questa specificità.
Sono lavoratori autonomi, ma in una situazione di dipendenza economica dai loro committenti: serve quindi un sistema che mescoli dipendenza economica con l’indipendenza organizzativa. Noi pensiamo che la risposta sia un sistema collettivo e solidale, più efficace di un sistema individualista. A Smart è successo che pian piano oltre agli artisti sono arrivati altri lavoratori, per fare alcuni esempi: il musicista fa anche corsi di musica; il ballerino fa anche il professore; il fotografo fa anche il programmatore di siti web; il blogger fa il traduttore e anche il giornalista. Sono quindi figure ibride, che entrano ed escono dal settore creativo: insomma il grafico che fa siti web può trasformarsi in informatico; e l’informatico può diventare un consulente informatico e via dicendo. A un certo punto la struttura ha iniziato ad aumentare, e capirai che il 6,5% di tanti lavoratori è diventata una bella cifra; ma Smart è una cooperativa senza scopo di lucro quindi questi soldi sono diventati veramente un modello di autorganizzazione perché sono stati continuamente investiti in servizi alle persone che utilizzano questo meccanismo.
In che modo avete usato questi soldi per i lavoratori?
Da un lato Smart ha iniziato a sviluppare tutta una serie di servizi, un sistema di difesa giuridica per i soci che hanno problemi di disoccupazione (non sono pochi i processi vinti in Belgio), servizi di formazione, eventi di networking, gestione di spazi di coworking, un servizio di micro-credito per i lavoratori. Dall’altro lato ha iniziato a interrogarsi sulla sua vocazione politica, intesa come rappresentanza di questi lavoratori. A un certo punto ci siamo fatti alcune domande: siamo nati per gli artisti, ma se ora ci apriamo a tutti, dai consulenti ai dogsitter, che incidenza possiamo avere a livello politico? In un primo momento, tra il 2012 e 2013, si è pensato di bloccare le iscrizioni, cioè da quel momento in poi si era deciso di accettare come soci soli chi effettivamente lavorava nel settore creativo e culturale così da ricentrare Smart in modo da rafforzarla in alcune specifiche attività di tutela: in sintesi per fare lobbying di categoria. Poi, dopo circa un anno e mezzo, si è capito che questa strategia non era sensata: perché ciò che rendeva Smart innovativa era la sua capacità di rivolgersi a una nuova forma di lavoro sempre più diffusa, che solo all’inizio era degli artisti ma che ormai apparteneva e appartiene a molti altri settori del lavoro. Abbiamo pensato che fosse proprio un certo tipo di lavoratore che andava difeso e organizzato, e che quindi l’azione di Smart dovesse diventare trasversale per creare una coscienza di classe tra i lavoratori, anche agendo per favorire un cambiamento culturale sui modi con cui si guarda al lavoro e su quello che ci si aspetta quando si parla di lavoro.
Se si tratta di una forma di lavoro specifico, allora devono esserci dei fattori che accomunano dei lavori tanto diversi.
Questi lavoratori sono accumunati da una serie di fattori: lavorano in modo saltuario (con momenti di lavoro e non lavoro); hanno spesso più committenti; sono tenuti a formarsi in continuazione; devono combinare funzioni o capacità diverse più o meno contigue; a volte lavorano da soli a volte in collaborazione e queste collaborazioni variano nel tempo; sono caratterizzati quindi da una grande fluidità e da una grande mobilità a livello internazionale. Quindi molte persone si trovavano a lavorare e collaborare in contesti internazionali: il lavoratore belga che collabora con un amico di Parigi e deve fatturare a un committente di Berlino. Per facilitare il grado di mobilità di queste persone si è deciso di investire parte di questo 6,5% anche nello sviluppo di Smart in altri paesi, così da sopperire anche altrove alle mancanze che si registravano in Belgio ma che erano presenti in altri Stati. Così nel 2008 nasce Smart Francia, e successivamente, dal 2012 in poi, è stata creata Smart in altri paesi e ora siamo presenti in 9 Stati, tra cui l’Italia. In Italia, Smart è operativa da poco più di tre anni, ed è uno dei contesti in cui sta prendendo piede con più rapidità.
Quali sono le difficoltà più grandi in Italia?
Meglio fare un passo indietro: in Belgio ora hanno 85.000 soci e usano un tipo di contratto particolare: è un contratto da dipendente a tempo determinato con leggerissime differenze nei trattamenti previdenziali se il lavoro è artistico o no. In Italia abbiamo 1350 soci e 8 tipi di contratto, quindi immagina il caos e la frammentazione.
Scusami se ti interrompo, spiegheresti meglio perché è un problema avere 8 tipi di contratto? Che problemi vi crea e crea ai lavoratori?
Ai lavoratori dello spettacolo noi cerchiamo di applicare dove possibile il contratto intermittente. Si tratta di un contratto da dipendente a tutti gli effetti e a chiamata, quindi vuol dire che Smart fa un contratto di un anno che non è in nessun modo vincolante al lavoratore. Significa solo che in quell’anno di lavoro quando il lavoratore ha dei concerti o dei progetti pagati, si accende il contratto per delle giornate specifiche, quelle sono giornate in cui è un lavoratore dipendente con tutti i contributi versati. Quando non è chiamato o non lavora, non è vincolato. Questo contratto intermittente è applicabile in Italia a un lista di lavori che è stata redatta nel 1923.
Di un’attualità sconcertante!
Eh sì, era stato fatto per quei lavoratori che negli anni Venti erano considerati stagionali. Ecco allora che se tu sei un designer che a volte fa scenografie per teatro piuttosto che mobili che poi vendi, tu hai un lavoro solo che richiede una sola formazione, quando lavori per il teatro noi possiamo darti l’intermittenza, ma se non lavori per il teatro dobbiamo usare i co.co.co. E questo purtroppo vuol dire pagamenti previdenziali separati, sempre all’INPS ma in casse separate, e quindi tu un giorno se vorrai unire queste due casse dovrai pagare. Inoltre, il co.co.co è un contratto che fiscalmente è assimilato al lavoro dipendente, ma a livello previdenziale a quello lavoro autonomo. E di conseguenza i diritti previdenziali che il lavoratore ipotizza di avere, in realtà quando lavora con il co.co.co sono molto inferiori a quelli del lavoro dipendente, per il fatto che in Italia – come in tutti i paesi – il lavoro dipendente è quello più tutelato, anche da un punto di vista previdenziale; e non sto dicendo che sia il lavoro dipendente a dover essere meno tutelato!
Al di là delle specificità di ogni contratto, il problema è che c’è una grandissima frammentazione contrattuale a fronte di un’omogeneità molto forte delle condizioni di lavoro, cioè le condizioni di intermittenza del fonico dei concerti e del grafico sono esattamente le stesse. E allora perché uno ha più diritti di un altro? Perché uno può essere tutelato con un contratto e all’altro invece non si può fare? Perché uno può chiedere la disoccupazione e a l’altro no?
Perché dal punto di vista dell’azione politica, intesa proprio in senso governativo e legislativo, questa situazione non viene uniformata e si mantiene invece la frammentazione?
La nostra impressione è che – a parte per poche cose e solo molto molto di recente – questi lavoratori non sono riconosciuti. A quanti sarà capitata una situazione in cui ti viene chiesto cosa fai nella vita e alla tua risposta ti senti dire: «Ah sei musicista? Ma di lavoro cosa fai?».
Le cause mi sembrano soprattutto due. La prima una mancanza di riconoscimento culturale di questo tipo di lavoratori. La seconda risiede in una classe politica e sindacale che si è concentrata principalmente sulle categorie che ritenevano comporre il loro elettorato o i loro rappresentati; mentre i freelance sono stati a lungo dipinti come evasori fiscali da un lato, o imprenditori che non funzionavano dall’altro, oppure sono stati visti come lavoratori che volevano essere dipendenti, ma non ci riuscivano e quindi si è fatta la lotta alle false partite iva per cercare di ripristinare una situazione di lavoro dipendente. Ovviamente c’è del vero in tutto ciò, ci sono molte situazioni indecenti, per esempio la casa editrice che prende il lavoratore lo obbliga a fare un lavoro di ufficio con un orario fisso 8-18, con il computer aziendale e solo su testi decisi dall’alto; ossia: «lavori come ti dico io, ma ti apri la partita iva». Noi assolutamente non neghiamo l’esistenza di queste situazioni, e l’esempio della casa editrice è solo uno sui tanti, ma così sono stati persi gli altri freelance, sono stati ignorati totalmente. Poi possiamo pensare che ci sia anche una non innocenza nel cercare ancora una volta di disgregare i lavoratori, per cui si cerca come sempre di stabilire i vari contratti di categoria; così si evita di prendere tutto come un unico movimento, perché altrimenti i lavoratori uniti sarebbero più forti. Il Jobs Act dei lavoratori autonomi ha introdotto un minimo di miglioramenti, ad esempio sulla tutela della malattia o sull’accesso alla maternità, ma siamo ancora molto lontani dal dire anche quello del freelance è un lavoro, e non è invece un’impresa.
In Italia si è sviluppata tutta una moda di fornire ai disoccupati dei corsi e delle risorse per farli diventare imprenditori; ti sembra una buona soluzione alla disoccupazione?
Mi pare che sia stato piuttosto un grave errore perché si è perpetuato a tutti i costi il modello dell’imprenditoria, ma questo genera uno stress pericoloso sulle fasce sociali più deboli che si trovano catapultate in un meccanismo ad alta competizione per cui spesso non sono preparate; ed è ovviamente pericoloso. Tanti di quelli che si buttano nel mondo dell’impresa (disoccupati o comunque fasce fragili che non hanno capacità imprenditoriali) vengono schiacciati dal sistema: falliscono e si bruciano i capitali. Queste [Le] persone che aprono un’impresa (la pizzeria, tanto per fare un esempio) quando hanno fallito poi vedrai che accettano di farsi pagare a voucher; c’è una complicità del sistema rispetto a un meccanismo neoliberale che atomizza la società, pressa gli individui per fargli accettare delle condizioni di lavoro ingiuste.
Ma allora secondo te perché una persona decide di diventare un lavoratore autonomo? Lo decide veramente o in certi casi è l’unica soluzione?
Partita iva e lavoro autonomo andrebbero un po’ distinti, perché il fatto che tu lavori autonomamente non vuol dire necessariamente che apri partita iva. Puoi lavorare in modo autonomo, ma puoi appoggiarti a strutture collettivizzanti; come Smart o Acta. Quest’ultima non dà dei servizi, nel senso che lascia i lavoratori con la loro partita iva, ma collettivizza i loro bisogni portando avanti battaglie pubbliche.
In generale il fatto di lavorare in modo autonomo si deve all’evoluzione delle forme di lavoro in Italia come in Europa; il proliferare del lavoro “creativo”, che però è anche un arma a doppio taglio: fai il fotografo perché ti piace, non perché è un lavoro vero; in generale c’è tutto un proliferare di nuove forme di lavoro. E anche la digitalizzazione fornisce una maggiore possibilità a questi lavoratori di etero organizzarsi, quindi di lavorare da casa e via dicendo; in sintesi le condizioni di lavoro sono veramente cambiate: intendo proprio come si svolge la quotidianità del lavoro. Non necessariamente questa maggiore autonomia diventa una flessibilità a senso unico; spesso sì, ma non è un autostrada che deve portare solo lì. Quindi puoi essere flessibile ma non automaticamente devi essere precario, e questo non per forza significa assumersi un rischio individuale grande come quello dell’impresa. Allora una maggiore autonomia e indipendenza è una condizione trasversale per le persone che entrano ora nel mondo del lavoro, spesso (non sempre) è anche una decisione delle persone. Quello che va spezzato è il legame tra autonomia e precarietà. Quello che è importante è che ci sia una presa di coscienza più forte.
Secondo gli schemi tipici della visione classista della società (la vulgata marxista) noi dovremmo avere da una parte coloro che hanno la proprietà dei mezzi di produzione, dall’altra i lavoratori, che sul mercato possono offrire solo la forza lavoro. Questo schema si realizza effettivamente solo se si è in presenza di un conflitto reale e forte tra capitale e lavoro, per cui ci si schiera o da una parte o dall’altra. Attualmente invece domina quella che potremmo chiamare (con lessico marxiano) la divisione tecnica del lavoro, per cui ci sono mille categorie di lavoratori. In questo caso mi pare che sia la sinistra sia il senso comune fatichino a collocare nel posto giusto i lavoratori autonomi. In maniera provocatoria potremmo chiederci: sono sfruttati o sfruttatori? padroni o lavoratori? Dove vogliamo metterli? A me pare che la maggior parte dei lavoratori autonomi, al di là della contrattualizzazione, possano contare solo sulla loro forza lavoro: dovremmo collocarli all’interno della classe lavoratrice. Dato che anche tu all’inizio mi hai parlato di “coscienza di classe”, ed è ormai raro sentire pronunciare questo concetto, ti chiederei se esistano o se possano esistere forme di contatto tra lavoratori autonomi e lavoratori subordinati tali da ipotizzare delle rivendicazioni comuni che non siano più di categoria, ma di classe, e se esistano delle richieste in comune a tutti i lavoratori senza aggettivi, lavoratori punto.
Assolutamente sì, perché in un momento storico in cui i confini tra le diverse categorie giuridiche di lavoro sono così porose, per me non ha nessun senso rifarsi a un modello di lotta di classe che si richiama appunto alla categoria giuridica. Oltretutto in un momento in cui siamo all’apoteosi del sistema liberista (siamo giunti alla totale erosione dei diritti dei lavoratori e un accumulo di ricchezza nelle mani dell’algoritmo o dell’imprenditore che investe). È assolutamente possibile fare un ragionamento collettivo: noi lo stiamo facendo e anche Acta, al di là di due livelli di inquadramento diversi. Banalmente quando Ichino a settembre scorso ha proposto di sistematizzare il lavoro di piattaforma attraverso il modello dell’umbrella company, Smart e Acta hanno dato una risposta collettiva. Quindi noi (che in sostanza siamo una cooperativa che tutela i lavoratori autonomi offrendo loro un contratto da dipendente) troviamo che Acta sia impegnata in un’azione culturale importantissima (e si tratta di un’associazione che fa lobbying per la difesa dei diritti dei lavoratori autonomi), ma le nostre differenze non sono un ostacolo rispetto alla possibilità di muoversi insieme; anzi bisogna farlo al di là dello statuto giuridico dei lavoratori di riferimento. Bisogna parlare di forza lavoro e non del quadratino in cui è incasellato il lavoratore altrimenti si perde valore e si rischia di creare un sistema a compartimenti stagni ed esclusivo, e questo è il miglior modo per atomizzare la forza lavoro e creare dinamiche competitive all’interno della stessa.
1 reply to La prospettiva del mutualismo. Intervista a Chiara Faini di Smart Italia
Comments are closed.
Correlati