È delicato mettere a critica la questione dell’immediatezza all’interno del mondo del lavoro. Non si può certo negare il guadagno di autonomia e di libertà, e soprattutto non si può rimpiangere un vecchio modello gerarchico; nessuno ha nostalgia dei mali del passato. Grattando un po’ sotto la pura superficie, tuttavia, si scoprono alcune incrinature nel sistema e nei discorsi che lo legittimano; si scopre che autonomia, libertà, orizzontalità sono declinazioni particolari e molto parziali di principi potenzialmente esplosivi.
A inizio secolo Freud raccontava che l’uomo è sottoposto alla sofferenza e che gran parte delle sue attività altro non sono che tentativi di sottrarsi a questa sofferenza, al di là che di ciò abbia o no coscienza. Le persone soffrono per diversi motivi, perché la vita psichica può causare dolore; perché la natura ci è avversa, ci ammaliamo e moriamo, noi e i nostri cari; perché gli altri possono darci pena; perché il mondo si oppone ai nostri progetti di esseri limitati. A fianco di queste cause ve ne è un’altra che deriva semplicemente dal vivere all’interno di una società: ogni individuo deve rinunciare a parte delle sue pulsioni personali in favore della collettività, non possiamo fare tutto ciò che vogliamo, è questo il disagio costitutivo di ogni civiltà, ma questa non potrebbe realizzarsi senza rimozione e repressione di parte delle pulsioni personali. Tutti riconoscono questo funzionamento come tipico di una società verticale.
Nonostante la repressione l’uomo continua a seguire il principio di piacere come strumento di fuga dal dolore e, se ne ha la possibilità, di realizzazione personale. Uno dei modi con cui è possibile sottrarsi al dolore è spostare la destinazione dei nostri investimenti psichici; una cosa normalissima per ogni persona. Si tratta di modificare gli obiettivi delle nostre pulsioni in modo che queste non rischino di entrare in cortocircuito con il mondo esterno, ossia attiviamo processi di sublimazione. Funzionerebbe così la gioia che prova l’artista difronte all’opera realizzata, il processo creativo è riempito di libido, di forze erotiche che ritornano all’artista quando può osservare l’opera d’arte compiuta, l’oggetto in cui è rinchiusa una parte di sé e con cui si mostra al mondo.
Siamo rimasti d’accordo […] Sul vantaggio di potersi misurare, del non dipendere da altri nel misurarsi, dello specchiarsi nella propria opera. Sul piacere del veder crescere la tua creatura, piastra su piastra, bullone dopo bullone, solida, necessaria, simmetrica e adatta allo scopo, e dopo finita la riguardi e pensi che forse vivrà più a lungo di te, e forse servirà a qualcuno che tu non conosci e che non ti conosce
[P. Levi, La chiave a stella, cit., p. 143]
È interessante che Freud sembri dolersi del fatto che la via creativa sia accessibile solo a pochi e fa notare che, però, non è detto che il comune lavoro professionale non possa prendere il posto della sublimazione artistica. Così come si capisce perché Faussone tenga tanto al suo lavoro, allo stesso modo si prova simpatia per il padre della psicanalisi quando dichiara che l’attività professionale provoca particolari soddisfazioni se è liberamente scelta, perché permette di utilizzare, attraverso la sublimazione, le inclinazioni preesistenti nel soggetto. È come se ci dicesse: «che peccato! Se sublimassimo le nostre passioni in un lavoro saremmo più in armonia con la civiltà e questa ci creerebbe meno disagio», e dato che la nostra civiltà si fonda sul lavoro potremmo soddisfare molte delle nostre pulsioni.
Insomma il capitalismo moderno, come ogni sistema civile, si fonderebbe su una necessaria rimozione della libido individuale e su un’organizzazione sublimante della libido collettiva, in cui il lavoro potrebbe giocare un ruolo fondamentale. In ogni caso per la psicoanalisi freudiana il disagio della civiltà resta, è costitutivo e insuperabile. Pur nell’eterogeneità delle posizioni politiche espresse nel decennio ’68 – ’77, i movimenti anti-autoritari sembrano pensarla diversamente: la repressione è una forma sociale determinata che la lotta può eliminare liberando le energie produttive e creative, e questo perché si tratta di una repressione specifica, senza la quale non vi sarebbe sfruttamento e alienazione.
Negli anni Settanta buona parte della libido individuale viene comunque repressa in favore di un progetto collettivo. Solo che questo progetto e le relative energie psichiche confliggono con il progetto della civiltà capitalistica. La ristrutturazione dell’appartato produttivo con il passaggio al post-fordismo, relativa impennata tecnologica e abbassamento del tasso visibile di verticalità, consente di accogliere parte di queste pulsioni libidiche – che sono aggressive perché politicamente in opposizione all’apparato politico-economico del capitale – attivando così altri processi di sublimazione, deviando verso altre mete quegli investimenti libidici problematici. «A me del padrone non me ne fa mica tanto, basta che mi paghi quello ch’è giusto e che coi montaggi mi lasci fare alla mia maniera»; potrà dire Faussone nel ’78, quando gli esiti di questo conflitto stanno ormai pendendo dalla parte del progetto del capitale.
Il rifiuto del lavoro, l’attacco alle gerarchie, le proteste, il desiderio di autonomia e di mobilità vengono sussunti dal sistema, fatti diventare gli elementi chiave del mondo del lavoro e infine naturalizzati, quindi resi innocui: la creatività e l’autonomia sono messe al lavoro. Il desiderio stesso diviene la forza motrice dello sviluppo capitalistico, e alla repressione viene sostituita la seduzione: una forma di potere, magari non gerarchica, ma pur sempre verticale e forse anche più invasiva dato il suo carattere costantemente travestito da morbida orizzontalità. In questo modo la narrazione dell’immediatezza può rendere seducente e desiderabile un certo modo di lavorare, nascondendo però le gabbie in cui siamo costretti perché riesce a farcele interiorizzare.
Se il ’78 è l’anno di Faussone, bisogna ricordare che l’anno successivo è quello della vittoria di Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli U.S.A, i padri del neoliberismo. Quella del potere è una storia di pratiche mutogene, ossia capaci di introdurre attese, desideri, comportamenti, pensieri stabili negli uomini. Il neoliberismo, la forma politica del capitalismo degli ultimi decenni, ha avuto per programma politico lo scopo di introdurre il principio di impresa nello spazio del desiderio e delle relazioni umane, e questo comporta la liberazione della dinamica economica da quei vincoli di ordine politico, sociale, etico, giuridico, sindacale, ambientale che l’avevano contenuta proprio per l’effetto dell’azione normativa dello Stato; si pensi alle politiche di spesa pubblica considerate il nemico numero uno dall’intransigenza europea dopo la crisi del 2008. Va detto che era soprattutto l’azione organizzata dei lavoratori a costringere lo Stato a un’azione di mediazione nei confronti dei capitali.
Ecco allora che la deregulation liberista tende la mano alle idee di liberazione dalle gerarchie: la società liberata dalle regole della verticalità, svuotata di anticorpi di mediazione, ha interiorizzato fino a renderle invisibili le catene economiche. Nel momento in cui i corpi sociali sono entrati in tensione con le forme di autorità e hanno richiesto maggiore autonomia e libertà, il neoliberismo si è rivelata la soluzione ideale per vincere il conflitto tra capitale e umanità: la libertà è diventa libertà di impresa; l’autonomia si è ridotta a autonoma organizzazione del proprio lavoro determinato dai committenti; l’informalità si traduce nella possibilità di dare del tu al capo; l’insofferenza per la standardizzazione è ribaltata in narcisismo e individualizzazione.
Questa è l’ideologia neoliberista, una voce che sussurra in continuazione alle nostre orecchie con l’obiettivo di imporre un modello di vita; le realtà però è più complessa e non si fa ridurre a questi schemi. E tuttavia dal momento in cui questo progetto prova a far interiorizzare la forma impresa, il corpo sociale tende alla scomposizione: ognuno è imprenditore di sé stesso e l’autorealizzazione diviene un gesto puramente individuale, la competizione si estende a tutte le sfere della vita. L’individuo non vuole più inserirsi in un corpo più grande che lo farebbe sentire costretto – che sia l’impresa, lo stato, la società, una parte politica – ma si proietta nel quadro di una molteplicità di uomini-impresa tra loro intrecciati. In questo modo la vita dell’individuo – il rapporto con la proprietà privata, ma anche con la famiglia, con la sanità, l’assicurazione, la pensione – è interamente parte di un’impresa permanente; la strada è aperta a ogni tipo di investimenti privati. Percorrendo questa strada il modello economico diviene modello di rapporti sociali, una forma del rapporto dell’individuo con sé stesso, con il tempo, l’ambiente, il futuro, con il gruppo. L’intero campo sociale viene colonizzato dall’economia e da questo modellizzato. Eppure la competizione economica può essere dolorosa e gelida: ecco allora che la passione del lavoro può contribuire a vitalizzarla. Per rendersene conto è sufficiente ascoltare la retorica suadente calata sul lavoro creativo e osservare il modo affascinante con cui sono dipinte certe professioni.
Questo percorso ha trasformato il giudice supremo in un tecnico dell’economia: non solo sul piano politico l’azione del governo viene valutata in termini di mercato, ma tutto – educazione, cultura, sanità, progresso – fa i conti con questo tipo di giudizio. La stessa qualità della vita corrisponde alla ricchezza economica. In sintesi il modello disciplinare di gestione dei comportamenti, le regole di autorità e di conformità agli interessi che assegnavano alle classi sociali e ai sessi un destino sono stati respinti dalle forze sociali, ma alle richieste di autonomia e libertà si è risposto con norme invisibili che incitano ogni persona all’iniziativa individuale ingiungendogli: diventa te stesso! L’esito di questo scontro è stata la seduzione dell’intimità di ognuno di noi da parte dei meccanismi di sublimazione del desiderio forgiati dalla civiltà capitalistica.
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