Autonomia e flessibilità sono un cavallo di battaglia di un certo riformismo liberista e in particolare neoliberista che viene contestato duramente da una sinistra radicale che preferisce tradurre questi termini con la parola precarietà, quasi a dire che nessuno desidera l’autonomia e la flessibilità. A me pare invece che ci sia una sorta di oscillazione semantica attorno ai concetti di autonomia e flessibilità, ed è un’oscillazione che può essere molto dolorosa. Per cui per il pensiero liberista si intendono alcune cose, ma per il lavoratore si può intendere anche qualcosa di diverso. Mi pare che ci sia questo scarto. Quindi secondo lei: cosa si intende veramente per autonomia e per flessibilità?
Questo è un tema complicato, aperto e tutto da discutere. Una volta ho fatto una ricerca sui giovani al lavoro inseriti come dipendenti. Era una fase in cui i giovani venivano assunti, come ancora adesso, a tempo determinato, quindi per un periodo definito, e questo comporta ingressi e uscite sia dalle varie aziende sia dal mondo del lavoro. Allora ho cercato di capire, guardando solo ai giovani del lavoro dipendente, legati al mondo tradizionale (principalmente la fabbrica), come si poneva il problema della flessibilità e della precarietà. Mi sembra di aver capito che la flessibilità intanto, al di là del significato che le si attribuisce, raccoglie un’istanza di carattere strutturale. Nel senso che il mondo dell’economia, ormai da qualche decennio, vive come necessario assumere dei comportamenti flessibili, nonostante possa essere doloroso anche per l’impresa. Noi guardiamo il lavoratore che viene costretto ad adattarsi e a muoversi, secondo dei fabbisogni particolari, e a volte non consideriamo che l’azienda vive lo stesso problema. Nel senso che l’azienda non è un potere onnipotente, la singola azienda è un potere limitato che si muove in un ambito che la sovradetermina. Allora da questo punto di vista la singola azienda sa che deve mostrarsi flessibile per reagire positivamente alle richieste che le vengono fatte dal mercato. Per far questo ovviamente scarica questo bisogno di flessibilità sul lavoratore. Questo è il gioco del potere, è una formula attraverso cui il potere aziendale si ripropone e si riproduce. Questa è una dimensione della flessibilità per cui noi la intendiamo come funzionamento variegato, oscillante, elastico, adattivo ed è un dato di fatto del sistema economico mondo che abbiamo di fronte. Almeno nel mondo occidentale, mentre il capitalismo industriale nel mondo asiatico è ancora in larga parte costruito su modelli fordisti. Abbiamo trasferito lì le catene fordiste e qui siamo passati a un’altra fase.
Detto questo bisogna chiedersi che cos’è la precarietà. O meglio in che misura l’oscillazione nei rapporti di lavoro ha a che fare con la flessibilità? Se la flessibilità fosse che l’azienda dice al lavoratore «Guarda non c’è più un orario di 170 ore al mese. Ma abbiamo un orario di 1500 ore all’anno e lo gestiamo in base ai fabbisogni. Ci saranno momenti in cui sarai molto impegnato – facciamo 10 ore al giorno – e momenti in cui sei meno impegnato – 6 ore al giorno», allora questo sarebbe un regime che possiamo chiamare di flessibilità. La precarietà è invece quando viene meno qualsiasi ancoraggio alla continuità nel rapporto di lavoro, ossia alla sicurezza che ha il lavoratore di sapere che in qualche modo è parte di questo mondo e ha delle garanzie. Questo mi pare il problema più rilevante su cui bisogna ragionare.
E l’autonomia come la identifichiamo?
L’autonomia è forse ancora più complicata. Molti lavori autonomi sono eterodiretti, e non dico per forza il caso di Uber o Foodora. Intendo, per esempio, anche il lavoratore autonomo che fa trasporti. È autonomo? Lo è nel momento in cui decide cosa accettare e come muoversi nel mercato. In realtà è sostanzialmente dipendente perché lavora in un sistema in cui il committente ha potere assoluto; non è nelle condizioni di crearsi uno spazio di vera autonomia. La differenza è questa, il libero professionista in senso tradizionale poteva crearsi uno spazio di mercato proprio: l’avvocato il mercato se lo costruisce, grande o piccolo, dipende da lui. Ma l’operatore logistico, in un mondo in cui la logistica è governata da grandi gruppi e da grandi sistemi, non ha autonomia effettiva, ha solo la possibilità di stare dentro certi sistemi e di ritagliarsi delle forme di responsabilità più che di autonomia. Cosa può decidere lui in autonomia? L’intensità della sua prestazione, decide l’intensità dell’autosfruttamento e dell’orario di lavoro. Direi quindi che sta dentro a una gamma che è difficile configurare come forma di autonomia; ci sono degli spazi molto stretti e all’interno di questi ha la possibilità di lavorare di più o di meno e questo dipende dalle sue preferenze. Se si accontenta di vivere con 500€ allora può lavorare di meno, ma se vuole di più deve lavorare di più.
Perché il mercato spinge per estendere l’area del lavoro indipendente?
Il freelance è spesso costretto ad aprire partita IVA perché in questo modo, ancora una volta, viene costretto ad autoattribuirsi tutti gli oneri della sua condizione di lavoro. È una grande semplificazione che favorisce molto lo scambio. Infatti l’azienda che deve usare una competenza si deve chiedere se è più vantaggioso usare una logica di mercato o di organizzazione. Secondo la logica di organizzazione l’azienda prende questa competenza all’interno per gestirla direttamente, questo comporta alcuni benefici: si tratta di una risorsa che cresce, che matura che si riesce a controllare bene; ma ci saranno anche dei costi, bisogna mantenerla, tutelarla, formarla, garantirla e via dicendo. In alternativa si può utilizzare una logica di mercato, perché per alcune attività non c’è la vera necessità di governarle direttamente. In questo caso non è necessario costruire una competenza distintiva: funziona la regola di mercato. Il principio dell’autonomia è lo stesso sostanzialmente, il committente si muove sul mercato sapendo che in virtù di questi processi di scomposizione ha a disposizione molte competenze disperse sul territorio e che probabilmente per le sue necessità avrebbe un fabbisogno di competenze che non può completamente tenere all’interno, quindi valuta quel che può trovare all’esterno. Ecco quindi che troviamo molti soggetti liberi, questi soggetti per muoversi meglio e con più agilità diventano soggetti formalmente autonomi, sono detentori di partita IVA, cioè sono soggetti normati e riconosciuti come autonomi. Quindi la partita IVA è molto spesso l’esito di una sollecitazione del committente che vuole rapporti semplici e quindi si relaziona meglio con chi ha partita IVA. In quest’ottica tutti vengono spinti ad avere partita IVA; fino ai casi estremi e degenerati per cui ai dipendenti viene detto di uscire dall’azienda e aprire partita IVA e che gli sarà garantito il lavoro. Ti prendo quando ho bisogno, magari ti prendo ogni giorno dell’anno, ma per me sarai sempre un costo mobile; mentre se fossi dipendente saresti un costo fisso.

IL FREELANCE È SPESSO COSTRETTO AD APRIRE PARTITA IVA PERCHÉ IN QUESTO, ANCORA UNA VOLTA, VIENE COSTRETTO AD AUTOATTRIBUIRSI TUTTI GLI ONERI DELLA SUA CONDIZIONE DI LAVORO
Spesso nella rappresentazione comune il lavoratore autonomo è considerato un tipo umano tutto votato alla competizione e alla carriera. Mi chiedo se invece è possibile pensare che i lavoratori autonomi di seconda generazione pensino anche in modi cooperativi; per esempio è ipotizzabile che si organizzino in una sorta di categoria? Io penso ai problemi che hanno i freelance, ad esempio non hanno nemmeno un tariffario quindi si fanno concorrenza al ribasso oppure fanno fatica a farsi pagare. È pensabile invece che nasca qualche forma di cooperazione a partire da questi problemi elementari?
Si pensa che il lavoro autonomo, perché lo conosciamo attraverso gli stereotipi, sia un lavoro estremamente competitivo. In parte inevitabilmente è così, come le aziende competono tra di loro così anche gli autonomi competono tra di loro. Ma in realtà è sempre esistito anche il fatto che la competizione deve convivere con delle forme di cooperazione. Per le imprese il rapporto è un po’ più complicato, nelle imprese la competizione produce momenti di cooperazione solo attraverso strategie o condizioni complesse. Nel senso che io so che il mio vicino di azienda fa il mio stesso prodotto e quindi lo vivo come un avversario, però so che su alcune questioni e alcuni prodotti possiamo prendere il mercato solo se ci presentiamo insieme […]. Paradossalmente invece, in molte situazioni i soggetti autonomi singoli vedono soltanto la dimensione competitiva, perché i soggetti singoli tendenzialmente sono piccoli ed economicamente deboli, allora perdere una commessa può essere un problema vero; non è come per l’impresa che se perde una commessa può contare su altre 10. Questo determina una vocazione maggiore ad avere un atteggiamento competitivo. In realtà i freelance, e soprattutto nel caso dei giovani, sarebbero più portati a cooperare, ad attivare dei meccanismi di cooperazione, ma alle volte non lo fanno perché sono in difficoltà oggettiva, per cui vivono anche questo contrasto tra il desiderio di cooperare e la necessità di competere. Questa è una dimensione soggettiva molto interessante, perché alle volte è dolorosa. So che tanti giovani, obiettivamente, sarebbero più interessati a cooperare solo che non riescono. Tuttavia è importante capire che la predisposizione a cooperare e la volontà di farlo richiedono un progetto. Io posso avere emotivamente il piacere di cooperare, ma concretamente sono nella condizione di non poterlo fare. Come posso fare allora?
Se spesso hanno la volontà di collaborare ma non riescono a farlo per mancanza di progetto, allora le chiedo perché mancano i progetti che permetterebbero di cooperare.
Questo ha a che fare con un problema di carattere culturale, sociale e soggettivo. Nel senso che le condizioni di precarietà del lavoro e quindi anche di disagio che ne esce e le ripercussioni sulla stessa volontà di cooperare, sembrano nascondere un’incapacità, o almeno una difficoltà, di questi nuovi soggetti di immaginare un’azione che migliori la propria condizione non soltanto attraverso un meccanismo individuale, ma anche attraverso meccanismi collettivi. Le nuove generazioni sembrano incapaci di pensare a come dare risposte ai propri problemi attraverso percorsi che abbiano rilievo, valenza e significato collettivo. Quello che riescono a pensare sembra essere solo che è possibile costruirsi una prospettiva se si migliora individualmente, trovando lavori e incarichi adeguati. Tutto ciò passa attraverso un meccanismo individuale che quindi fa più leva sulle risorse competitive che cooperative. Per esempio in questi anni ci si lamenta molto del rapporto tra giovani e sindacato – è un’occasione di polemica con il sindacato -, si dice che il sindacato ha abbandonato i giovani, che non si cura dei loro problemi al lavoro e che li ha messi da parte, si accusa il sindacato di tutelare solo i lavoratori tradizionali e via dicendo. Tutto ciò ha certamente un fondo di verità, perché si muove sulla base della sua visione culturale: il sindacato è tradizionalmente portato a pensare il lavoratore come soggetto dipendente, quindi pensa a questo tipo di lavoro e si configura come un organismo che organizza questi lavoratori. Eppure già i lavoratori che sono nelle piccole aziende (e ho avuto molte occasioni di frequentarli) che fanno i designer, gli informatici o i progettisti, lavorano fianco a fianco al capo e, quindi, sono meno facilmente catturabili. Va detto che in realtà la storia del sindacato è una storia di lavoratori in situazioni difficili che rispondevano a questo problema costruendo delle strategie collettive, cioè organizzandosi, capendo che una risposta individuale non trovava risorse e spazio di azione e quindi hanno iniziato a organizzarsi in modo collettivo. Magari era più facile perché erano già immediatamente presenti in contesti numerosi, ma questo avveniva anche in aziende più piccole. Mentre sembra che i giovani di oggi non riescano a immaginare una struttura collettiva per sé; in qualche modo, o per disperazione o per scarsa riflessione o per il peso di un contesto culturale che esalta l’individuo piuttosto che la collettività, pensano che la soluzione possa essere individuale. E questo è un problema grosso, non so se sia un nocciolo strutturale che non si riesce a sciogliere, o se lo sia solo apparentemente, cosicché basterebbe un’iniziativa di altro tipo, ma pratica, operativa o anche di lotta e forse darebbe spazio a un modo diverso di agire.
All’inizio di questa intervista le avevo chiesto se un lavoratore autonomo decide di diventare autonomo o se è anche il fatto che il mercato del lavoro subordinato è diventato più precario a spingere molti lavoratori a diventare autonomi. In modo speculare però possiamo pensare che le condizioni di lavoro a cui sono sottoposti i lavoratori autonomi vadano a influire al ribasso sui lavoratori subordinati. E quindi anche per questo motivo è necessario tutelare gli autonomi, per difendere anche i lavoratori subordinati.
Senz’altro è vero, solo che di fatto i meccanismi sono contro-intuitivi. È chiaro che in prospettiva, dal punto di vista razionale, se agisce una concorrenza sul mercato del lavoro io sono indebolito dalla possibilità di essere sostituito a condizioni migliori per il committente. Quindi razionalmente io dovrei essere motivato a costruire una strategia di coinvolgimento, per ridurre di fatto la concorrenza che è la ragione alla base della formazione del sindacato. Il sindacato nasce per ridurre la concorrenza dei lavoratori, perché se i lavoratori si fanno concorrenza ne beneficia il padrone; quella di oggi alla fine è una condizione permanente. Nello stesso tempo la storia dimostra che anche in passato nonostante questo potesse essere chiaro, non per forza i lavoratori hanno reagito in comune, organizzandosi; anzi spesso si scontravano tra loro. La stessa cosa la possiamo vedere oggi in Italia con i migranti. Ma la stessa cosa si verificava con gli italiani in giro per il mondo, quando emigravano per povertà alla ricerca di lavoro; hanno subito ritorsioni, accuse e addirittura uccisioni. Questo perché i lavoratori e soprattutto quelli che non detengono molto potere, possono tentare di rivalersi su qualcuno più debole perché non hanno il potere di rivelarsi su qualcuno più forte, e quindi questo è quello che si ripropone. La forza del sindacato, la sua ragione storica e progressiva è stata quella di ridurre questo spazio di competizione, di controllarlo e di governarlo, questo è vero in alcuni ambienti, quelli più vicini all’origine del sindacato. L’asino casca nel mondo del nuovo lavoro. Dove il sindacato non c’è, e dove il sindacato non riesce a capire come muoversi. Per dirti ci sono delle piccole aziendine, delle società in cui ci sono tre persone che fanno programmi informatici (il titolare e due lavoratori): il sindacato non sa come fare, non sa prenderli.
Secondo gli schemi classici di una divisione classista della società noi dovremmo avere da una parte i capitalisti che detengono la proprietà dei mezzi di produzione, dall’altra tutti i lavoratori che possono vendere solo la loro forza lavoro. Attualmente domina invece una divisone tecnica del lavoro, con mille categorie di lavoratori. All’interno di tutta questa serie di categorie si fatica molto a collocare dentro uno schema più classico i lavoratori autonomi, perché alla fine cosa sono? Non sono lavoratori subordinati, forse sono imprenditori mancati, dove li mettiamo? Mi sembra che la questione sia questa: al di là della formula contrattuale che lo inquadra il lavoratore autonomo ha solo la forza lavoro da vendere, allora possono esistere o si possono immaginare delle forme di contatto strutturate tra lavoratori autonomi e subordinati, che diano spazio a delle rivendicazioni non di categoria ma di classe. È la questione cruciale: si possono mettere insieme i lavoratori autonomi e subordinati come lavoratori senza altri aggettivi?
Si deve mantenere una visione corretta dal conflitto, perché qualsiasi relazione sociale implica una relazione di potere e la relazione di potere implica un conflitto latente o esplicito. Posso gestire il conflitto in modo dialogico e discorsivo, oppure posso avere momenti di conflitto più esplicito. Però è giusto culturalmente ridare legittimità e cittadinanza complessiva all’idea di conflitto, perché è una valutazione puntuale di quel che succede nel nostro mondo. Dopo di che è chiaro che il lavoratore autonomo è un lavoratore che persegue una certa forma di liberazione dal lavoro, o meglio persegue l’idea che il lavoro può essere occasione di espressione di sé, senza dover passare per la dipendenza da un altro. Questa è un’idea che possiamo ritenere connaturata nella mente delle persone, nel senso che naturalmente tutti sono portati ad avere il desiderio di una piena disposizione di sé e senza doversi subordinare al comando di un altro. In passato, per gran parte del mondo del lavoro, questa prospettiva era negata: il lavoro veniva solo organizzato. Ora paradossalmente con effetto contro-intuitivo le trasformazioni liberano queste forze, chi era una volta per definizione il lavoratore autonomo? Era l’artista, o il grande artigiano. Leonardo da Vinci è un lavoratore autonomo, non ha bisogno di un padrone. Ha bisogno di committenti, ma i committenti fanno a gara per averlo e lui si muove liberamente, va da una corte all’altra perché vuole non perché è costretto. Decide lui dove andare! E questa è la rappresentazione più pura del lavoratore autonomo, no? Il soggetto che ha delle cose importanti da esprimere e queste cose sono ricercate, desiderate e ambite. E lui può gestirle liberamente. Anche se uno non ha la genialità di Leonardo da Vinci ha comunque questa aspirazione, questo elemento innato. Questa dimensione qui c’è sempre, storicamente questa condizione è stata progressivamente ridimensionata o espropriata. Oggi paradossalmente questa condizione si ripropone, in maniera sottile, perché poi molto spesso è comunque governata da altri. Nel campo dell’informatica digitale è sempre più chiaro che ci sono delle forme che governano tutto, ma qualche volta ti danno la sensazione di sentirti più libero, oppure ti mettono nella condizione per cui all’interno di un ambito di mercato ristretto ti senti libero. Se io sono un professionista che sa gestire bene i programmi ho il mio mercato e mi muovo liberamente; ma è chiaro che poi dipendo sempre da chi fa l’innovazione vera. Ma io traggo da questa uno spazio per me, e questo vuol dire che sono orientato a pensarmi come lavoratore autonomo. Mentre il lavoratore dipendente ha un riferimento obbligato, combatte anche lui per l’autonomia perché le trasformazioni che sono in atto oggi di fatto obbligano un certo esercizio dell’autonomia nel lavoratore. Io domani sarò a un convegno in cui parlo di industria 4.0 e dico che l’industria 4.0 chiede e prevede un lavoratore che sia flessibile, autocentrato, proattivo, che si muove autonomamente ma dentro uno schema che è imposto dall’esterno, calato dall’alto. Quindi la battaglia dell’autonomia si fa anche dentro le fabbriche, in modi diversi ma si fa anche lì; ma in qualche modo l’imprenditore capisce che il lavoratore ha una disponibilità di autonomia e a lui serve, e cerca di usarla. Non gli consente un grado di autonomia totale, ma dei margini di autonomia, quelli che servono a lui e al processo produttivo, vengono ottimizzati da un processo produttivo organizzato in altro modo. Però questa necessità e desiderio di autonomia, è un elemento astratto e generale che spingerebbe e farebbe immaginare come plausibile un avvicinamento tra lavoratori autonomi e subordinati. Ossia i due tipi di lavoratori potrebbero riconoscersi simili perché entrambi hanno questo desiderio. Da questo punto di vista potrebbero riconoscersi. La diversità è che il lavoratore dipendente è ancora dentro un sistema costruito, un sistema di gabbie, ma paradossalmente anche il lavoratore autonomo è dentro un sistema di gabbie che sono meno visibili; e per certi versi danno meno certezze. Uno dice «ho la gabbia e ho l’interlocutore», lui invece non ha nemmeno questo. Però questo configura ancora delle condizioni soggettive diverse, c’è la tendenza a pensare «io sono autonomo e mi muovo in maniera più individualistica». Mentre il lavoratore dipendente sente di dover cooperare per forza. Questo meccanismo è molto complicato, ricongiungerli non so come si possa fare. L’unica cosa che si può fare perché il passaggio inevitabile, necessario, per questo tentativo di ricongiungimento è quello di creare un campo organizzato per cui entrambi i soggetti traggono dei benefici e delle risorse. Vorrebbe dire un sindacato che si impegna a dare risposte a entrambi i tipi di lavoratori, e dando risposte ad entrambi costruisce un campo in cui questi due soggetti possono riconoscersi, incrociarsi, stare vicini e quindi abituarsi a pensare che sì ognuno ha un destino di un certo tipo però quello che pensavo fosse uno da me lontano, ha un destino non troppo diverso dal mio. E forse magari se non sempre, ma almeno occasionalmente, si possono avere momenti di confronto e di intreccio, anche di cooperazione. Si potrebbe pensare di fare una contrattazione in azienda che regola i dipendenti dell’azienda, però poi la si estende e si tenta di regolare anche la condizione di alcune figure che hanno un certo rapporto con l’impresa. Quindi come sindacato le si ingloba, le si assume nel proprio mondo, perché sono importanti per l’impresa e allora vanno regolate anche queste, le si tutela in parte, in alcuni aspetti minimi. Per altri aspetti faranno da soli gli autonomi, però probabilmente uno che è tutelato per degli aspetti minimi ne terrà conto nel rapporto con il sindacato, non diventerà un suo antagonista. Però questo vorrebbe dire avere un sindacato che ci pensa, e siamo un po’ lontani da questo punto di vista. Ci sono dei segnali, ma siamo molto lontani. Forse i passaggi preliminari potrebbero avvenire nella fascia delle attività informatiche, sono attività molto presenti sia in azienda che fuori, è quasi strutturalmente diventato un campo in cui i soggetti si assomigliano molto; allora forse lì si potrebbe tentare, potrebbe essere un punto di attacco.
1 reply to Uno sguardo politico. Intervista a Vladimiro Soli
Comments are closed.
Correlati