0. La sinistra e il movimento

Autunno 2018, il primo numero di Jacobin Italia esce con il titolo: Vivere in un paese senza sinistra. Autunno 2017, il centro sociale Je So Pazzo propone l’idea che darà vita al movimento-partito Potere al popolo!. Lo slogan di lancio era: Nessuno ci rappresenta: facciamolo noi!

Due immagini, fra le tante, indicative della situazione italiana. Un paese in cui il centro sinistra – con i suoi partiti più o meno grandi – si è appiattito su posizioni liberiste. Il centro sinistra è spesso nominato come sinistra liberal; tale nomignolo gli viene attribuito perché è formalmente attento alle diversità e ai diritti civili, ma arreso davanti al problema delle disuguaglianze socio-economiche. Si tratta della sinistra accusata di essere buonista e allo stesso tempo incapace di opporsi alla macelleria sociale del capitale, nostrano e forestiero. Il PD, i suoi tardi secessionisti di LeU, gli amici della liberista Emma Bonino e così via; tutti talmente impauriti che il sistema produttivo italiano possa scivolare nel baratro del terzo mondo da aprire le porte ai peggiori espropriatori di ricchezza, purché anche sopra l’Italia continui a passare qualche flusso internazionale. È la sinistra che ha archiviato i miraggi del comunismo per farsi anti-berlusconiana e poi più nulla: balbettante davanti all’ascesa del Movimento 5 Stelle e impotente di fronte all’irruenza della destra nazionalista di Salvini. È la sinistra che negli ultimi anni ha sostituito le sue parole chiave con quelle proprie del neoliberismo: libertà (d’impresa), tolleranza, differenza, merito, competizione. Ha abbracciato così i processi di invidualizzazione di massa cedendo al mercato il ruolo di pianificare la società. Il progetto ha mostrato le sue debolezze e si può dire fallito, non a caso le destre reazionarie battono i loro colpi su concetti diametralmente opposti, si torna a parlare di identità, nazione, razzismo, famiglia tradizionale (con il rischio di derive patriarcali).

È LA SINISTRA CHE HA ARCHIVIATO I MIRAGGI DEL COMUNISMO PER FARSI ANTI-BERLUSCONIANA E POI PIÙ NULLA: BALBETTANTE DAVANTI ALL’ASCESA DEL MOVIMENTO 5 STELLE E IMPOTENTE DI FRONTE ALL’IRRUENZA DELLA DESTRA NAZIONALISTA DI SALVINI.

Chi non è neoliberista e pensa che la società debba preservare le sue funzioni di tutela sociale, promuovere l’accesso alle risorse per tutti e confrontarsi con le disuguaglianze, si guarda attorno e non trova nessuno che lo rappresenti. La sinistra manca non perché sconfitta nelle elezioni, ma perché ha smarrito la propria identità.

LA SINISTRA MANCA NON PERCHÉ SCONFITTA ALLE ELEZIONI, MA PERCHÉ HA SMARRITO LA PROPRIA IDENTITÀ

Uno dei simboli più grandi della sinistra è il sindacato; la mente vola immediatamente alla CGIL. Sicuramente è troppo sbrigativo attribuirgli la responsabilità dello smantellamento del diritto del lavoro, ma è indubbio che la funzione progressiva del sindacato sia in crisi dagli anni ’90; non a caso impera il luogo comune del totale rifiuto dei sindacati confederali di produrre conflitto. Le difficoltà del sindacato sarebbero un altro segnale del decesso della sinistra; mentre meriterebbe un discorso a parte il sindacalismo di base.

Ad ogni modo il grande sindacato (la CGIL conta oltre 5 mln di iscritti) e il grande partito del centro sinistra offrono una buona istantanea della vittoria e, nello stesso tempo, della miseria del capitalismo nostrano, capace solo – per campare – di puntare alla riduzione dei salari. La politica di compressione dei salari ha avuto la sua sanzione definitiva nel ’92 con l’abolizione della scala mobile; se spremi per quasi trent’anni alla fine non ti restano che cadaveri senza sangue, così quando è ora di reggere la competizione internazionale non si può far altro che sparare sui migranti e pregare a turno gli U.S.A e la Cina.

Il collasso della coppia partito-sindacato non è casuale, ha a che fare con la crisi stessa della mediazione statale e dei suoi organi istituzionali: ne abbiamo parlato nel n°2 di Figure. Il partito si colloca sul terreno della gestione del potere; il sindacato consiste nell’associazione formalizzata dei lavoratori per la tutela di interessi professionali. Di teorie del sindacato e del suo rapporto con il partito ce ne sono molte. Se togliamo le concezioni fasciste o cattoliche del sindacalismo corporativista – visioni che reputano possibile la piena collaborazione delle classi – in ogni elaborazione occidentale al sindacato è conferito il ruolo di incanalare il conflitto dei lavoratori. Si va da un massimo di radicalità, in cui al sindacato è attribuita la capacità di condurre al superamento del sistema di produzione capitalista, a un minimo, in cui si riconosce che tra imprenditori e lavoratori esiste un contrasto almeno sul lato delle retribuzioni e delle condizioni di lavoro (norme, contratti, ritmi). Lo stato dovrebbe mediare il conflitto tra lavoratori organizzati nella loro istituzione (il sindacato) e datori di lavoro, riconoscendo entrambi come attori fondamentali all’interno dello spazio sociale. Si spiega così la relazione (anche di tensione) tra il partito e il sindacato. Entrambi dovrebbero avere una funzione e di entrambi si sente l’assenza; in ogni caso il ridimensionamento del loro ruolo non è attribuibile solo a fattori oggettivi (non basta dire che «così va il mondo globalizzato»), ma anche a sconfitte, errori e libere scelte.

Le questioni politiche non si esauriscono (né l’hanno mai fatto) nel grande tema del lavoro. In generale, per tutti i temi di rilevanza politica, è stato spesso centrale il movimento: una forma più fluida, che possiamo descrivere come semi organizzata in vista del raggiungimento di un obiettivo parziale. Il movimento delle suffragette aveva lo scopo di conquistare il diritto di voto per le donne. Il movimento per l’acqua pubblica esprimeva la volontà di cambiare il quadro normativo per rendere nuovamente pubblico un sistema di servizi. Intendere l’obiettivo come parziale non significa attribuirgli un valore limitato, in questo senso è indicativo il movimento operaio e – almeno dalla fine del Settecento alla seconda metà del Novecento – la sua capacità di segnare tappe fondamentali della storia.

Come per il sindacato ma in modi diversi, anche (e soprattutto) in questo caso, siamo nell’ambito del conflitto e non della gestione del potere. I cittadini si riuniscono attorno a un obiettivo, danno vita a un movimento che esercita pressione e conflittualità che dovrebbero essere raccolte, in base alla collocazione politica, da qualcuno dei partiti democraticamente eletti. Senza l’attivazione di questo conflitto le istituzioni statali non prenderebbero l’iniziativa e non si occuperebbero delle questioni che il movimento percepisce essere rilevanti.

Quando si dice movimento senza nessun’altra specificazione, tuttavia, si intende un insieme di attori sociali, gruppi e associazioni politiche (più o meno formali) della sinistra radicale. Balza subito alla mente il decennio ’68-’77. In quegli anni il movimento era una via alternativa alla dicotomia fra organizzazione (partito o sindacato) e puro spontaneismo. La sua spontaneità stava nel porsi fuori dalle istituzioni e, in certi casi, nel rifiuto di dotarsi di vere e proprie strutture con sistemi di deleghe e rappresentanze interne. L’organizzazione consisteva nel saper far corpo comune per il raggiungimento di alcuni obiettivi, e nell’inseguire questi obiettivi sul lungo periodo reggendo il confronto con gli apparati dello Stato. Gli obiettivi potevano essere specifici o più generici, ma erano inseriti nell’orizzonte comune dell’anticapitalismo. Il fronte era così vario che già dire qualcosa di più sarebbe fare un torto a qualcuno.

QUANDO SI DICE MOVIMENTO SI INTENDE UN INSIEME DI ATTORI SOCIALI, GRUPPI E ASSOCIAZIONI POLITICHE (PIÙ O MENO FORMALI) DELLA SINISTRA RADICALE

Torniamo al nostro dramma: è sparita la sinistra?

Oggi si dice il partito si è pervertito, il sindacato non produce conflitto e il movimento non esiste nemmeno più. Questa immagine, però, ha il sapore di una cartolina patinata da nostalgismo. In piazza il 25 aprile un amico ci diceva «a furia di ripeterci che non esistiamo scompariremo veramente». Ovviamente non si muove nulla di paragonabile agli anni ’70, ma se ci immaginiamo di fotografare dall’alto le vicende italiane degli ultimi anni per poi farle scorrere velocemente avremmo l’impressione di un progressivo innalzamento della tensione sociale, oltre che di un’espansione delle occasioni di piazza, di attività di mutualismo, di creazione di gruppi politici. L’opposizione alle grandi opere è significativa, si pensi alla capacità che hanno avuto alcuni movimenti – come il no-Tav o il no-Muos – di partire da un problema specifico per farne una questione di politica generale. Anche alcuni eventi recenti sono particolarmente sintomatici: gli scioperi degli studenti contro il cambiamento climatico; l’8 marzo di NonUnaDiMeno (NUDM); la grande manifestazione di sabato 30 marzo in opposizione al Congresso Mondiale delle Famiglie (World Congress of Families, WCF). O, ancora, a quanto il reimporsi (necessario) dell’antifascismo sulla scena pubblica sia indicativo di una radicalizzazione del confronto politico.

La novità, relativa, è che il movimento si misura sulle politiche della differenza.

Ogni società deve confrontarsi con svariate differenze e diversità che producono spesso disuguaglianze. Alcune di queste si ereditano alla nascita, altre dipendono dalla scelta dei soggetti, ma in ogni caso le differenze hanno a che fare con un processo sociale che le rende tali. In altre parole non sono mai semplicemente naturali, ma sono culturalmente costruite. Su tutte il genere, la razza e l’orientamento sessuale sono quelle più comunemente vissute come naturali: non decidi se nasci donna o nero, e una volta nato il danno è fatto. Anche in questi casi, tuttavia, ciò che significa donna o nero o gay è dettato da un costrutto sociale.

QUANDO SI DICE MOVIMENTO SI INTENDE UN INSIEME DI ATTORI SOCIALI, GRUPPI E ASSOCIAZIONI POLITICHE (PIU’ O MENO FORMALI) DELLA SINISTRA RADICALE. SU TUTTE IL GENERE, LA RAZZA E L’ORIENTAMENTO SESSUALE SONO QUELLE PIU’ COMUNEMENTE VISSUTE COME NATURALI: NON DECIDI SE NASCI DONNA O NERO, E UNA VOLTA NATO IL DANNO È FATTO. ANCHE IN QUESTI CASI, TUTTAVIA, CIÒ CHE SIGNIFICA DONNA, NERO O GAY E’ DETTATO DA UN COSTRUTTO SOCIALE.

Dagli anni ’70 viene meno l’idea che l’uguaglianza sia un fine da raggiungere, anzi si contesta tale ideale in quanto mezzo per reprimere tutto ciò che non corrisponde agli interessi maggioritari e di potere; prende corpo una visione che auspica il riconoscimento delle differenze contro le sociali che opprimono le nostre vite e le rendono inautentiche. Da questo avvicendamento si diffondono le politiche della differenza, che sembrano, inoltre, in grado di offrire una risposta valida al disagio creato dalla società di massa all’individuo, disagio vissuto in termini di spersonalizzazione e smarrimento della propria individualità. In un simile contesto l’altro non è più da assimilare, si parla allora di società multietniche o (poi) interculturali. Emerge tuttavia un problema: come gestire le differenze senza esplodere?

Le teorie sociologiche (e politiche) propongono varie soluzioni. Per alcune la sfera pubblica è neutra, si promuove quindi la tutela dei diritti umani con la convinzione che riconoscendo libertà e uguaglianza a ogni persona ciascun individuo possa soddisfare i suoi bisogni: materiali e non. Per altre è auspicabile l’accettazione incondizionata di tutte le differenze, ipotizzando anche il riconoscimento di diritti differenziati (ossia fatti apposta per le minoranze, proprio tenendo conto della condizione particolare in cui si trovano).

Al di là della soluzione adottata – in modo pieno o parziale – dalle varie politiche nazionali, il neoliberismo cerca di garantire al singolo individuo la possibilità di essere accolto nella sua particolarità e di competere alla pari con tutti gli altri. Data quindi l’uguaglianza di partenza ciò che conta è che il singolo possa (potenzialmente!) arrivare al vertice. Conquistandosi il primato economico, politico e simbolico, ossia primeggiando per ricchezza materiale, potere e prestigio sociale. L’ideale di civiltà neoliberale è che a ogni individuo – indipendentemente da genere, razza, orientamento sessuale, ecc. – sia permesso di provare a percorrere l’autostrada del successo.

La sinistra liberal ha fatto sua questa battaglia; si capisce quindi perché a molti possa sembrare un baluardo di civiltà contro l’assalto delle destre barbariche. Il movimento, però, punta il dito e svela l’inganno di questa retorica.

In altri termini – dice il movimento – non si tratta solo di integrare le differenze nella possibilità di competere, i problemi sono almeno due. In primo luogo, è falso dare per raggiunta l’uguaglianza nella condizione di partenza, le differenze continuano a pesare con tutto il loro effetto penalizzante, favorendo così l’ingiustizia. Soprattutto la sinistra neoliberista trascura le disuguaglianze socio-economiche, chi nasce povero non ha le stesse possibilità di chi nasce ricco, celare questa verità con la retorica del merito equivale a fare demagogia. E, in secondo luogo, è ovvio che qualcuno verrà schiacciato: funziona così la competizione capitalistica. Il campione che vince si merita la vittoria, agli altri sta bene la sconfitta. E, a dirla tutta, questa guerra può risultare fastidiosa e odiosa, ma la possibilità di non parteciparvi non è tra la lista dei diritti individuali e collettivi.

Da che parte stare? La nostra scelta di campo è stata fatta da tempo. Abbiamo cercato di attraversare i movimenti che si oppongono alle destre e accettano la sfida delle differenze allontanandosi però della scala di valori neoliberale. Li abbiamo osservati e ascoltati, abbiamo camminato con loro e ne facciamo parte. Dove siamo giunti?

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