Ciò che dà spinta al mondo non è il crollo ma il sorgere ovunque di realtà nuove. Tutto nasce dal muro di Berlino. Dietro quell’evento reale e simbolico si intravede il movimento della storia, ad Est come ad Ovest, che è destinato a cambiare gli assetti mondiali e il modo stesso di fare politica. [1]
Achille Occhetto


Il 9 Novembre 1989 cade il Muro di Berlino. Tre giorni dopo, il 12 Novembre, a Bologna il segretario del Partito Comunista Italiano, Achille Occhetto, dichiara di voler proporre al partito – e di fatto con quel gesto propone – di concludere l’esperienza del PCI e costituire una nuova forza politica. Il 3 Febbraio 1991 a Rimini si scioglie il PCI e nasce il Partito Democratico della Sinistra; qualche mese dopo, il 12 Dicembre, i contrari alla liquidazione del PCI fondano il Partito della Rifondazione Comunista. Il 26 Dicembre dello stesso anno ufficialmente l’Unione Sovietica smette di esistere. Un mondo – l’ordine delle cose per come era stato conosciuto dopo la fine della seconda guerra mondiale – finisce. La configurazione internazionale definita al tavolo di Jalta da Churchill, Stalin e Roosevelt e caratterizzata dalla divisione del globo in due blocchi ideologicamente contrapposti, finisce. Finisce la conformazione del sistema politico italiano per come si era stabilizzata dopo la costituente a rispecchiamento della situazione internazionale: un governo a trainante democristiana di volta in volta appoggiato dal centro sinistra o dalla destra, e il PCI all’opposizione. Non è solo una questione di alte sfere della politica, in Italia sono le identità individuali di almeno tre generazioni di comunisti cresciuti tra le braccia del partito che vedono la realtà e la loro posizione in questa diventare incomprensibili; e non è solo una questione di comunisti: sull’anticomunismo – sulla paura dei rossi e della loro incapacità a governare – la DC ha costruito durante tutta la Prima Repubblica la sua legittimità, malgrado il marcio e gli scandali, malgrado le bombe, i tentativi di golpe e la mafia; malgrado tutto. È la fine di un mondo e, come al solito, l’inizio di uno nuovo.
Nei fatti niente veramente finisce e niente veramente comincia. In quegli eventi si condensa una traiettoria che sopravanza da entrambe le parti il periodo che va dall’autunno dell’89 all’inverno del ‘91. Se il dopo è la storia italiana e globale dei nostri giorni, il prima si compone di tutta una serie di crepe che si aprono negli anni del sistema-mondo diviso in due blocchi e nel suo corrispettivo nazionale.
I grandi eventi che cambiano il mondo suscitano rapidi processi trasversali destinati a scomporre e ricomporre su basi nuove i rapporti sociali, culturali e politici. Non è troppo difficile, negli anni Settanta e negli anni Ottanta, vedere le crepe e il loro moltiplicarsi, ma in pochi sono in grado di coglierne la reale profondità e prepararsi all’imminenza di una così rumorosa frana. Achille Occhetto è fra questi. Non è certo in quei tre giorni che separano la caduta del muro di Berlino dalle sue esplosive dichiarazioni a Bologna che Occhetto ha maturato la convinzione di dover aprire una pagina nuova della sinistra istituzionale italiana; nemmeno si può dire che abbia delle responsabilità nel mutamento di larghissima portata che si trovò a dirigere. Sembra molto più realistico pensare che Occhetto abbia sfruttato l’eco simbolico di quel crollo per tentare di agire nel miglior modo possibile sul più lento, di più lunga durata e forse inesorabile crollo del suo partito. L’esigenza di riorganizzazione complessiva di una sinistra scaturisce dalle mutazioni del mondo che mutano i termini sui quali si è sviluppata la sinistra su scala mondiale, dalla crisi delle vecchie idee della sinistra dinnanzi al manifestarsi di nuove contraddizioni che mettono in campo nuovi soggetti, nuove idealità e obiettivi di trasformazione.
SEMBRA MOLTO PIU’ REALISTICO PENSARE CHE OCCHETTO ABBIA SFRUTTATO L’ECO SIMBOLICO DI QUEL CROLLO PER TENTARE DI AGIRE NEL MIGLIOR MODO POSSIBILE SUL PIU’ LENTO, DI PIU’ LUNGA DURATA E FORSE INESORABILE CROLLO DEL SUO PARTITO
Achille Occhetto arriva ai vertici del Pci in un momento di chiara crisi. Il vuoto lasciato nella segreteria dal carisma di Berlinguer non può essere colmato dalla fisionomia troppo sovietica del compagno Natta, che ne prende il posto nel 1984 dopo la prematura morte. I dati elettorali di quegli anni segnano un lento ma inesorabile calo dei voti rispetto alla crescita significativa degli anni Settanta. Dopo il fallimento del compromesso storico, il programma politico si riduce all’attendismo dell’opposizione. Gli anni Ottanta vedono in Italia il saldo e impenetrabile equilibrio di potere del pentapartito: una coalizione composta da Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Socialista Democratico Italiano, Partito Repubblicano e Partito Liberale; una coalizione che sembra costruita apposta per escludere il Partito Comunista da qualsiasi possibilità di partecipazione al governo. Il sistema di potere italiano è bloccato e le porte sono chiuse ai comunisti in una nuova variante di quel bipolarismo imperfetto che caratterizza tutta la storia della prima repubblica. Ma – nel 1986 come coordinatore nazionale e nel 1988, dopo un infarto del compagno Natta, come segretario generale – quando Achille Occhetto prende la guida del partito la crisi è molto più profonda. Nel corpo stesso della società italiana è in atto una transizione complessa, iniziata negli anni Settanta, che porterà cambiamenti fondamentali nelle vite della classe che il PCI – non si può non riconoscerlo – ha reso soggetto attivo della storia italiana.
É in atto una ristrutturazione del sistema produttivo destinata a scompaginare il modello della grande fabbrica e i ruoli che da essa si proiettano nella società. Tra il 1971 e il 1975 a Torino nascono 18.000 nuove imprese fondate da ex-operai o figli di operai. Questo dato descrive l’uscita dei lavoratori dalla grande fabbrica verso un lavoro differente, non tanto nelle mansioni quanto nella posizione nel singolo processo produttivo. Questi lavoratori guadagnano un’autonomia nuova rispetto al padrone prendendosi carico di una parte del suo ruolo, e instaurano una relazione diversa con il lavoro e con i suoi frutti (ne parliamo nella sezione sul lavoro del secondo numero, Figure dell’immediatezza). Il soggetto operaio, il lavoratore salariato, la forma della contraddizione capitale-lavoro caratteristica del modello fordista e la strutturazione sociale che da esso derivava, muta in qualcosa di differente – non meno problematica e contradditoria, ma inedita e incomprensibile per le categorie in uso nel PCI. Il soggetto storico del Partito Comunista Italiano – maschio con la tuta blu, padre di famiglia di pochi consumi, mosso da una profonda etica del lavoro e da una forte coscienza collettiva – non scompare, ma perde la centralità che lo aveva caratterizzato nei decenni precedenti. Il mondo del lavoro viene investito da un processo di diversificazione che intacca profondamente quel senso di unità della classe lavoratrice sul quale il PCI aveva costruito la sua egemonia. Dalla centralità della grande impresa al modello della piccola e media, dall’industria alla terziarizzazione: assieme alla forma della produzione sono le autorappresentazioni degli stessi lavoratori che sono in una fase di transizione; mutano i loro valori, le loro necessità,
TRA IL 1971 E IL 1975 A TORINO NASCONO 18.000 NUOVE IMPRESE FONDATE DA EX-OPERAI O FIGLI DI OPERAI
Tanto di tutto questo è stato visto e compreso nel suo accadere dal movimento operaio e studentesco negli anni Settanta, dalle sue inchieste e dagli intellettuali che lo attraversavano. Il Partito Comunista però è stato sordo, incapace di autocritica e interessato più a proteggere la propria presunta omogeneità, la propria verità rivelata e la propria purezza, che a mettere a verifica la propria visione per comprendere le trasformazioni della realtà.
Figura classica di questa transizione è la marcia dei 40.000 colletti bianchi della FIAT che il 14 Ottobre 1980 scendono in piazza per protestare dopo 35 giorni di sciopero degli operai. In questo evento si è soliti vedere affrontarsi e scontrarsi la classe operaia e il ceto medio. La marcia dei 40.000 diventa allora una sorta di immagine del processo di ristrutturazione della società italiana che in quegli anni si palesa: una bruciante sconfitta operaia – dopo la mobilitazione dei colletti bianchi la Cgil decreterà la fine dello sciopero contro i licenziamenti, accettando di fatto condizioni sfavorevoli per gli operai – ma soprattutto la vittoria di quel ceto medio che si era fatto spazio silenziosamente negli anni Settanta e che negli anni Ottanta diventa un soggetto fondamentale nella composizione, culturale e politica, del paese. Un’altra figura che può ben rappresentare i mutamenti sociali degli anni Ottanta è il referendum sul taglio della scala mobile dell’1985. Il 14 Febbraio 1984 il Governo di Craxi vara un decreto che taglia la scala mobile, lo strumento finanziario attraverso il quale si tenta di allineare i salari al costo della vita al fine di contrastare la diminuzione del potere d’acquisto dei lavoratori di fronte all’aumento dei prezzi. Il PCI e la Cgil indicono un referendum per abrogare questa azione profondamente anti-operaia. Craxi – da classico copione liberale – sostiene che il taglio sia necessario per risolvere la stagnazione in cui si trovava l’economia italiana e per limitare processi inflattivi, e quindi faccia anche gli interessi dei lavoratori salariati. Con il 54% vince la linea del Si (la non abrogazione) con risultati significativi anche in zone ad alta concentrazione operaia.




Quando alla Bolognina Achille Occhetto dà inizio al processo di scioglimento del Partito Comunista Italiano, oltre alle macerie del muro di Berlino ha davanti le macerie del mondo sul quale il partito aveva costruito il suo significato storico; guardandole presagisce un mondo nuovo e carico di possibilità che vorrebbe essere capace di interpretare e organizzare. Non sarà così, ma questa è un’altra storia.
3 replys to 1. Cosa resterà di questi anni Ottanta
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