Il prodotto delle radici, delle vigne e degli alberi dev’essere distrutto per tenere alto il prezzo, e questa è la cosa più triste e amara di tutte. Camionate di arance rovesciate a terra. Gente che fa chilometri di strada per prendersi la frutta buttata, ma bisogna impedirlo. Come fai a vendergli le arance a venti centesimi la dozzina se possono pigliare la macchina e andarsele a caricare gratis? E allora uomini muniti di pompe spruzzano kerosene sui mucchi di arance, e sono furiosi per quel delitto, furiosi con la gente venuta a prendersi la frutta buttata. Un milione di persone affamate, bisognose di frutta… e le pompe spruzzano kerosene su quelle montagne dorate.
E la puzza di marcio riempie il paese.
Si brucia caffè nelle caldaie delle navi. Si brucia mais per riscaldare, col mais il fuoco viene bene. Si buttano patate nei fiumi e si mettono guardie sugli argini per impedire alla gente affamata di ripescarle. Si scannano i maiali e si seppelliscono, e la putrefazione s’infiltra nella terra.
Un delitto così abietto che trascende la comprensione. Una piaga che nessun pianto potrebbe descrivere. Un fallimento che annienta ogni nostro successo. La terra è feconda, i filari sono ordinati, i tronchi sono robusti, la frutta è matura. E i bambini affetti da pellagra devono morire perché da un’arancia non si riesce a cavare profitto. E i coroner devono scrivere sui certificati “morto per denutrizione” perché il cibo deve marcire, va costretto a marcire.
Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia.
Niente come Furore, romanzo di John Steinbeck, è in grado di descrivere l’abiezione indotta dalle crisi di sovrapproduzione nel sistema capitalistico. La mancata coordinazione fra i produttori e i consumatori all’interno del complesso sistema detto mercato condusse per almeno due volte la matura società industriale di Europa e America contro sé stessa, scatenando contraddizioni, conflitti, tragedie. L’eccesso di prodotti invenduti in magazzini di stabilimenti abbandonati rappresenta uno degli incubi ricorrenti del capitalismo contemporaneo.
La nascita delle analisi di mercato e del marketing, a inizio Novecento, dovrebbe servire a prevenire queste situazioni. Fino a metà dell’Ottocento le fabbriche non si sono curate di pubblicizzare i propri prodotti, data l’esistenza di un mercato interno sprovvisto di qualsiasi moderna merce industriale. Alla prima crisi, scoppiata nel 1873, molte aziende reagiscono inventandosi, spinte da necessità, delle rudimentali tecniche di pubblicizzazione del proprio prodotto: treni carichi di carne in scatola percorrono le pianure americane fermandosi in ogni stazione, preceduti da bizzarri banditori; fraudolenti rimedi per il mal di testa vengono mischiati ad acqua gasata creando la più popolare bibita analcolica del mondo; si invogliano i clienti a contattare direttamente i bottegai, reclamando un prodotto, per creare un embrione di rete di distribuzione. Da questo momento, nonostante la crisi del ’29, il marketing influenzerà sempre più pesantemente le nostre esistenze.
Solo dopo la seconda guerra mondiale negli Stati Uniti il marketing acquista il grado di scienza. I suoi principi sono statistici – le indagini dovrebbero evidenziare le fasce di popolazione che potenzialmente potranno e vorranno acquistare un prodotto – e psicologici – nella misura in cui un certo segmento di popolazione deve essere indotto ad acquistare un prodotto. Il problema, ancora una volta di razionalizzazione può essere reso nei termini, drammatici, di uno dei primi manuali di analisi di mercato tradotto in Italia (1954):
Il pubblico dunque deve moderare le proprie esigenze: più esse saranno omogenee, più sarà possibile razionalizzare la produzione, meno verrà a costare una merce. Naturalmente, questa richiesta di omologazione proveniente dal mercato deve tradursi in pratica: è questo il punto in cui il marketing si salda alla psicologia, che aiuta a sviluppare tecniche sempre più efficaci nell’indirizzamento delle coscienze. Si racconta che nel 1957, durante l’intervallo di una proiezione cinematografica, il bar della sala subisse un vero e proprio assalto da parte degli spettatori: coca e pop corn!, nella più americana tradizione del cinema. La fame e la sete eccezionali sembra fossero indotte dal cosiddetto James Vicary experiment. Il marketer statunitense aveva infatti inserito nella pellicola alcuni frame, impercettibili a livello di coscienza, nei quali si pubblicizzavano i prodotti poi effettivamente acquistati. Hungry? Eat popcorn. Da questo momento i messaggi subliminali, con annessi timori complottisti, entrano a far parte dell’immaginario contemporaneo.
Fra anni Quaranta e Cinquanta le tecniche di persuasione pubblicitaria si sono diffuse sempre più; sembra che verso il 1955 negli Stati Uniti circa 7000 psicologi lavorassero o collaborassero con il settore del marketing, in decisa espansione. I consumatori, come vuole la classica mitologia del consumo, sono insomma re e regine, avendo a disposizione molti più oggetti di quelli un tempo a disposizione delle case reali europee, e l’industria è stata creata per servirli; a patto che una parte della loro libertà sia delegata e indirizzata verso uno standard razionalmente conveniente. La consapevolezza di questi meccanismi era nulla fino alla pubblicazione, nel 1957, del saggio e best-seller I persuasori occulti di Vance Packard.
L’impiego della psicanalisi di massa nelle grandi offensive di «persuasione» sta ormai alla base di un’industria multimilionaria. E i «persuasori» di professione non hanno esitato a servirsene, avidi come sono di tutto ciò che possa aiutarli a propagandare con maggiore efficacia le loro merci – siano esse manufatti, idee, ideali, atteggiamenti, candidati, o stati d’animo.
Nonostante tutte le critiche ricevute, quel che Packard sosteneva era vero; il libro provocò un terremoto. Chi, nella patria della libertà, poteva accettare di sottoporre inconscio e desideri al controllo dei «persuasori occulti» e della loro psicanalisi di massa, al solo scopo di garantire i profitti dell’industria?
Il problema del marketing, tuttavia, non poteva essere risolto negli anni Cinquanta. Dal punto di vista delle soluzioni tecnologiche (produzione, distribuzione, comunicazione), non si poteva far altro che identificare, grossolanamente, segmenti di mercato su cui orientare la produzione: genere, età, reddito, poco altro. Nella società di massa, l’individuo è solo in un mare di suoi omologhi consumatori, senza vera possibilità di differenziarsi nel consumo.
Il bilancio della Benetton nel 1990 si chiude con un sorprendente +24% di fatturato. Al termine della riunione con gli azionisti, Luciano Benetton risponde a una domanda sulla comunicazione della propria azienda. «Non si tratta di essere creativi: capire dove va il mondo, questo è molto importante». E poi, con aria visibilmente soddisfatta: «io non credo che se un cantante farà una buona musica sia un cantante creativo: cioè lui interpreta il suo momento contemporaneo, o magari è un po’ avanti». Il pubblicitario è il nuovo vate, predice il futuro, l’imprenditore lo realizza.
Sono i mesi in cui Achille Ochetto scioglie il Partito Comunista, i berlinesi scavalcano le macerie del muro e osservano esterrefatti le vetrine della città occidentale, sta finendo la prima Repubblica. Essere avanti significa, per Benetton, aver interpretato correttamente la svolta storica che si sta consumando: intercettando – e mettendo al lavoro – la valorizzazione del desiderio e dell’eccedenza contro la normalizzazione, la libertà nella differenza contro l’omologazione nella massa dei consumatori. Meno chi acquista percepisce la standardizzazione della produzione industriale, più si sente diverso (e unito dagli altri dalle particolarità, dalle differenze), meglio andrà il fatturato. Per arrivare a questo è stata necessaria una complessa svolta tecnologia e organizzativa nella produzione, con l’introduzione del cosiddetto just in time. Il postfordismo, con la parcellizzazione e lo smembramento sul territorio della grande fabbrica moderna, permette una produzione differenziata e flessibile, in grado di garantire tempi di reazione estremamente rapidi – nell’ordine dei giorni – alle richieste del mercato rispetto a un determinato prodotto. Il processo di produzione non avviene in un unico luogo ma attraverso un sistema di subappalti a caduta delle sue diverse fasi; i vari attori (spesso aziende familiari con dieci dipendenti) comunicano con l’azienda-madre in tempo reale e si uniformano alle sue richieste. Se si vendono più maglioni viola dei neri, ri-orientiamo la produzione in due giorni. Nel contempo, però, il marketing e più in generale la relazione fra produttore, cliente e pubblicitario cambia completamente.
Una meta si profila all’orizzonte per il capitalismo neoliberale di fine millennio: un mondo in cui i soggetti esprimano liberamente le proprie diverse soggettività attraverso i modi scelti da ciascuno – fra i quali, comunque, primeggia il consumo, anche di prodotti immateriali – creando così delle comunità nelle differenze. Il marketing, in questa utopia laica del neoliberismo, ha il ruolo fondamentale di mediare fra la produzione e la fruizione delle merci, guidando il consumatore nell’acquisto ma anche nella costruzione di saldi rapporti con gli altri consumatori dello stesso prodotto, nonché con l’azienda: creando così delle comunità fluide, che si identificano per differenze.
Il marketing moderno aveva lavorato segmentando, dividendo la massa dei consumatori secondo criteri oggettivi: 15-20 anni, femmine, ceto medio-alto; maschi, adulti, bianchi, classe operaia.
Il concetto di segmentazione rimane valido, ma si combina con altri elementi, più complessi. Se il marketing ha il ruolo di favorire la formazione di comunità attorno al consumo, allora si appoggerà ad altre discipline oltre la psicologia: sociologi e antropologi vengono arruolati nelle fila dei marketer. Con l’ausilio di queste discipline il marketer non guarda più all’acquirente nella sua soggettività individuale, ma lo concepisce pienamente come essere sociale: il consumo aiuterà, al culmine della crisi della società tradizionale, a rendere effettiva questa costante antropologica.
Vediamola in prospettiva: sociologi, psicologi e antropologi collaborano a fornire maggiori possibilità di felicità agli uomini dei nostri giorni. In un mondo dove le strutture sociali tradizionali sono deperite, si formano nuove comunità attraverso le comuni passioni per oggetti di stretto o largo consumo. Gli appassionati della Mulino Bianco potranno dibattere fra loro – ma anche con l’azienda – sui prodotti, distinguendosi per linguaggio, valori, abitudini dagli amanti della tecnologia Apple; i consumatori di whiskey si differenzieranno dai collezionisti di edizioni limitate, e fra loro si riconosceranno. La libertà, cioè la libertà di consumo, non dovrà più essere limitata e indirizzata come durante la modernità, ma potrà fiorire in tutte le sue potenzialità.
2 replys to 1. Psicologi, sociologi, antropologi e marketer
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