Proviamo a immaginare l’individuo e la società occidentale nella forma di una mappa. Osserviamo le linee innumerevoli che disegnano margini e confini più o meno rigidi al suo interno, segnalando cosa stia dentro e cosa fuori rispetto a un territorio preciso. Il fuori, immediatamente, diviene il criterio che permette al dentro di autodefinirsi. Il limite, l’alterità sono lo specchio attraverso cui l’identità si consolida. Così la realtà – o per lo meno un certo modo dominante di concepirla – si è strutturata a lungo attorno a dicotomie che invitano a riconoscersi per esclusione: sei maschio o femmina, nativo o straniero, religioso o ateo, etero o gay. Ad ogni modo, la rigidità di questi insiemi ha iniziato a traballare e confondersi nel mondo contemporaneo.
Ad oggi, il modello di produzione post-fordista ha favorito l’ingresso di realtà mondiali altre nel gioco del capitale; ha aperto le porte di casa, ricodificando il confine tra il sé e il diverso: una dinamica indotta dalla motrice liberista che, mentre ha sorretto ideologicamente questi nuovi contatti, sul fronte interno diluiva le precedenti forme identitarie con nuove connessioni; la classe per prima sembrerebbe essersi persa. Parallelamente, il mondo si è rimpicciolito ed ogni cosa appare a portata di mano: le reti di comunicazione globale hanno inghiottito le vecchie frontiere e connesso l’intera superficie terrestre; i mezzi di trasporto sono diventati sempre più veloci e accessibili; e la progressiva convergenza tra sviluppi politici ed economici ha indebolito la figura dello stato-nazione, rendendone permeabili i confini, a favore dell’indifferenza spaziale del mercato. Si presenta una realtà radicalmente diversa, vivace e mobile, che amplia gli orizzonti del quotidiano e mette in discussione qualsivoglia rappresentazione coesa e coerente della vita: ciascuno è ora calato all’interno di un flusso costante di differenze che si mescolano e scontrano in qualunque contesto. Questo nuovo sviluppo obbliga ad un necessario ripensamento e ampliamento delle categorie attraverso le quali gli individui hanno da sempre pensato sé stessi e il mondo.
SI PRESENTA UNA REALTÀ RADICALMENTE DIVERSA, VIVACE E MOBILE, CHE AMPLIA GLI ORIZZONTI DEL QUOTIDIANO E METTE IN DISCUSSIONE QUALSIVOGLIA RAPPRESENTAZIONE COESA E COERENTE DELLA VITA.
A questo punto emerge un paradosso. Il pensiero neoliberista, cornice di questo scenario, vive di differenze; dunque, non solo le crea e le alimenta per assicurarsi profitto, ma l’idea stessa di vita che insegna, l’esistenza come progresso, prospera solamente in un terreno sociale florido perché differenziato. La libertà di agire e desiderare, la libertà di essere diversi, è vantaggiosa, ma allo stesso tempo è un grave pericolo: l’edificio del capitale potrebbe crollare se investito dalla marea priva di controllo. Le differenze devono, allora, essere disciplinate; come fossero un terreno selvaggio, avviene la loro mise en valor, attraverso una doppia azione simultanea. Da un lato, chi detiene il potere decide cosa accettare e cosa no. Tuttavia, il materiale rimane grezzo e subisce un ulteriore trattamento. La diversità viene distrutta e ri-prodotta: si elimina tutto ciò che resiste al consumo, riducendone ogni spinta centrifuga al potenziale monetario. Dall’altro, questo processo legittima la nuova “merce” come tale e la normalizza. La norma non è il diritto, al contrario, lo precede e si estende ad ogni categoria interpretativa e linguaggio con cui intessiamo le nostre narrazioni quotidiane; disegna i limiti di ciascuno e definisce chi sia normale e chi no, creando in tal modo i margini della mappa di ogni società. Il potere fonda la norma e la norma insegna ad essere normali; attraverso essa, ogni individuo si riconosce ed è riconosciuto, mentre gli altri, o le altre parti di sé, vengono lasciate ai margini e represse.
Differenze multiple investono ciascun uomo, senza alcuna eccezione, intersecandosi e annodandosi al suo interno: genere, etnia, sesso, classe, età, istruzione, ricchezza, come fili di matasse differenti si avviluppano e intrecciano un groviglio di nodi che definisce ogni soggetto. La norma vuole mettere ordine, trovare il bandolo della matassa, ma questa è una ricerca mirata, tutt’altro che innocente. In questo incontro-scontro tra dinamismo e fissità, alcune “differenze” (uomo bianco) talmente centrali nel paradigma sociale non sono ritenute tali mentre altre, ai margini, come fossero creature mitologiche, stanno sotto i riflettori. Pertanto, non è un caso che le figure eccentriche, anormali, abbiano destato un grandissimo interesse proveniente da ambienti differenti.
Il primo ad allungare le mani è il sistema stesso, volendole orientare verso il guadagno; così come la vita naturale fiorisce nella biodiversità, quest’ultimo guarda a un capitalismo multiculturale, fatto di desideri molteplici, in cui la cultura e la differenza possano diventare merce facilmente vendibile e consumabile. Si passeggia tra le vie del centro e le vetrine gettano ai nostri piedi moltissimi esempi di quanto detto: statuette del budda vendute a pochi euro da Tiger, l’apertura a ventaglio del mercato culinario, dal vegan al sushi, ed altri, tantissimi, simboli, svuotati di senso e smerciati nelle piazze. La produzione diversificata aumenta i guadagni e alimenta la macchina del capitale. A fomentare questo ciclo di appropriazione e vendita è sempre il desiderio; nella società del “be different” l’individuo crede di fuggire dalla massa omologata, affermando le proprie peculiarità; gli è permesso esclusivamente consumando. Il sistema, dunque, risponde offrendo prodotti personalizzati, all’insegna dello slogan “sei quello che mangi, o meglio consumi”.
A seguito della crisi delle grandi sinistre europee, anche molti gruppi politici sono entrati in rapporto con questa nuova realtà e hanno fatto delle politiche della differenza un vero e proprio cavallo di battaglia nella lotta politica. I soggetti a cui si rivolgono spaziano tutte le differenze socialmente riconosciute, benché l’asse di maggior interesse sia l’intersecazione delle discriminazioni di genere e razziali, incarnate dalla donna media del terzo modo. Ad esempio, dopo l’11 settembre 2001 e la millantata “liberazione” dell’Afghanistan, è stata posta sotto gli occhi del governo inglese la questione del burka, quando un gruppo di ministre del governo laburista ha voluto immedesimarsi nelle sensazioni che si provano nell’indossarlo, per manifestare solidarietà verso le sorelle oppresse. Tutto avvenne senza una consultazione in grado di approfondirne seriamente il significato, ma ricavando notizie da testi orientalisti ed essenzialistici che hanno legittimato l’appropriazione politica di un linguaggio altrui. La base teorica di questa azione non si allontana molto da quella che ispirò Kipling, il cui fardello dell’uomo bianco ha ora l’aspetto di una politica di salvazione: donne bianche salvano donna nera da uomo nero; il femminismo liberale si mostrerebbe un anacronistico principe azzurro che sul cavallo bianco galoppa per salvare la sua principessa esotica, succube del padrone malvagio. Non si vuole mettere in dubbio la bontà del progetto, né una situazione empirica di reali difficoltà e violenze che queste figure, donne, omossessuali, migranti, vivono quotidianamente, ma la supposta innocenza e la retorica con cui questo impegno si declina, un etnocentrismo di derivazione coloniale.
IL FEMMINISMO LIBERALE SI MOSTREREBBE UN ANACRONISTICO PRINCIPE AZZURRO CHE SUL CAVALLO BIANCO GALOPPA PER SALVARE LA SUA PRINCIPESSA ESOTICA, SUCCUBE DEL ADRONE MALVAGIO
L’accresciuta importanza sul bilanciere politico di questi soggetti subalterni li ha portati ovunque e ovunque parlano; ma quale voce gli è affidata nel teatro del mondo? Tutti questi individui sono connotati; chi li ascolta sa perfettamente quale sarà il taglio del loro discorso; è impossibile che un soggetto individuato da quelle differenze, rese così acute dalla cassa di risonanza del movimento liberale, possa parlare di altro rispetto a quanto egli sia, un’alterità. Tutti i mostri stanno nel cono di luce dell’occhio di bue, un fascio di luce intensa e concentrata che illumina solo una piccola porzione circolare del palco totalmente al buio. In quello spazio minuscolo al centro del mondo, la parola è data loro, ma una sola e quella deve essere: chi è diverso deve parlare all’interno della diversità che gli è riconosciuta, se abbandona il suo campo, abbandona il campo di luce e resta al buio, come se non esistesse.
CHI È DIVERSO DEVE PARLARE ALL’INTERNO DELLA DIVERSITÀ CHE GLI È RICONOSCIUTA, SE ABBANDONA IL CAMPO DI LUCE E RESTA AL BUIO, COME SE NON ESISTESSE.
Possiamo scendere tra le strade di Hoxton, Londra, e osservare il lato ideologico della medaglia, la certezza che la prospettiva determinante sia determinata da un’ipotetica identità neutra. Nel distretto londinese, la scrittrice Zadie Smith ricorda come la gran parte degli studenti appartenenti alla classe media bianca vivesse un incomprensibile paradosso. Infatti, la difficoltà più grande di questi ragazzi sarebbe ritrovarsi ad essere troppo normali, dunque privi di una storia. Un’origine ritenuta neutra, ai loro occhi, equivale a una mancanza, dalla quale germoglia l’invidia per il diverso, l’individuo marginale e minoritario, dotato di una creatività di cui loro si sentono privi. Dilaga un’insoddisfazione esistenziale, alimentata da un forte desiderio di avere una storia di vittimità – victimhood.
Questi aneddoti illustrano la grande illusione legittimante la bontà della maggior parte delle politiche liberal, ufficiali e quotidiane: pretendere di possedere un’identità neutra e di nascondere la propria posizione privilegiata, voler essere “semplicemente umano”. È un’idea tanto errata quanto efficace sul versante pratico, dal momento che al soggetto razzialmente o sessualmente definito è offerta la libertà di parlare esclusivamente della propria particolarità, mentre chi non lo è, l’uomo bianco – maschio – occidentale, è incentivato a parlare per tutti e di tutti. La violenza che si vuole sconfiggere è implicitamente assorbita in tale discorso; il diverso rimarrà sempre diverso, marginale perché emarginato, uno specchio in cui il pensiero europeo può riconoscere la propria santa bontà. Ancora una volta, l’altro è oggettivato e divorato da chi ha potere.
Questo rapporto complesso con chi sta al margine può essere risolto in una sola domanda: che cosa voglio da loro? Ognuno risponde a suo modo: il sistema vuole il profitto e le politiche liberal uno “specchio delle brame”, ma c’è chi avanza una possibile controproposta capace di rispettare il darsi della differenza nella sua spontaneità. La reinterpretazione interna dell’azione femminista, volta ad approfondire i nessi tra potere e genere, ha riformulando la natura della propria lotta: messa in discussione la centralità del soggetto donna, ha boicottato l’illusorio obbiettivo dell’uguaglianza di genere a favore di un transfemminismo.
IL SISTEMA VUOLE IL PROFITTO E LE POLITICHE LIBERAL UNO “SPECCHIO DELLE BRAME”, MA C’È CHI AVANZA UNA POSSIBILE CONTROPROPOSTA CAPACE DI RISPETTARE IL DARSI DELLA DIFFERENZA NELLA SUA SPONTANEITÀ.
È un tentativo di superare la violenza di genere, ormai talmente abituale da divenire naturale, dando la parola ai soggetti sfumati, i mostri posti ai limiti della mappa. Il cardine del ragionamento sono le differenze, possibili forze rivolte all’abolizione non solo dell’eteronormatività e del patriarcato, ma del genere stesso; una lotta femminista e non solo, dal momento che molti movimenti legati a questa causa si dichiarano anticapitalisti e osservano attentamente le implicazioni tra capitale e patriarcato. Calato all’interno di un sistema che si pone come unica alternativa e genera violenza, il pensiero transfemminista si rivolge ai desideri degli individui e alla loro spinta anarchica. Il potenziale immaginativo di ciascuno rappresenta l’arma vincente in grado di mettere in moto le contraddizioni del capitalismo onnicomprensivo e di recuperare una possibile realtà, ancora eclissata. Accanto alla centralità del soggetto, sta la convinzione dell’artificialità del genere, uno strumento imposto, attraverso il quale produrre identità e gestire la relazione tra gli individui. La codificazione binaria, maschio-femmina, si presenta come un dato di fatto naturale, mentre nasconde l’atto di imposizione di una categoria identitaria, il fondamento di una distribuzione asimmetrica del potere tra chi è dentro e chi fuori. Ai singoli e ai loro desideri è affidata la responsabilità di scardinare tali dualismi semplicistici e soffocanti offerti dalla società.
Per quanto dall’esterno il movimento appaia compatto e coeso, né il femminismo né il transfemminismo si riducono ad un’unica linea di pensiero, ma al loro interno trovano spazio varie correnti teoriche e pratiche. In questa marea, nel giugno 2015, il collettivo “Laboria Cuboniks” pubblica online il “manifesto Xenofemminista”, con sottotitolo “A Politics for Alienation”. Attraversando il nome, dal greco ξένος – straniero – il manifesto si mostra, dapprima, in rottura con quanto lo ha preceduto, dall’altra si rivolge direttamene a coloro cui desidera affidare la parola: chimere e barbari, coloro che – come per i greci – non condividono determinati tratti di cultura o norma con chi dà loro questo titolo. Dunque, in modo immediato, si annuncia quale insieme assolutamente aperto e inclusivo, poggiante sulla differenza, quella vera, pronto a mostrare l’innaturale naturalezza del sistema e l’insensatezza delle categorie essenzialistiche in quanto violenza verso chi non si sente normato e normale. Se da una parte risulta essere fondamentale un coinvolgimento nuovo e rinnovato delle tecnologie e della scienza, ora al servizio del potere, dall’altra il concetto fondamentale è l’alienazione. Attraverso un processo di riappropriazione del termine, lo XF prende le distanze dal marxismo: rinnega l’esistenza di una condizione naturale non alienata e, al contrario, la considera l’unica esistente. In quest’ottica l’alienazione multipla, il costante cambiamento, sono eletti come uniche forze capaci di rompere i limiti e i divieti cristallizzatisi nel contesto sociale. Ritorna lo slogan “vietato vietare”, riadattato a un uomo metamorfico che dovrebbe svincolarsi dalle catene e aver la forza di colorare fuori dai margini, anzi, senza; che sia libero di alienarsi e di costruire in questo modo una vera libertà, opposta a una democratica non-libertà che impone una scelta tra alternative aprioristiche, maschio o femmina, etero o omosessuale. Il desiderio è posto nuovamente al centro, ma è ora disintossicato dal costante condizionamento liberista e rivolto altrove, fuori dallo schema: alienarsi significherebbe proiettarsi sempre altrove, essere altro rispetto a quanto è dato scegliere. Lo XF è un pensiero recalcitrante, desidera desiderare nuovamente per la prima volta, e, nel farlo, risponde “I would prefer not to” a quel sistema che vende solo forme preimpostate. È un percorso inedito e coraggioso, una proposta che offre a tutti la possibilità di trascendere le differenze stesse – razza, età, sesso, genere – e finalmente interpellare il singolo sulla base delle sue esigenze. Quest’idea è una delle tante che affrontano l’idealizzazione della figura del bambino, simbolo della ripetizione perenne dell’identico, difeso da qualunque virus inquinante che possa interrompere un ciclo di riproduzione omologata della società; al genere si oppone il desiderio, alla ripetizione l’alienazione, al bambino, il queer.
Il termine queer – bizzarro, strano – per lungo tempo è stato centrale nel discorso d’odio rivolto all’omosessualità: era sinonimo di malato, invertito. Tra gli anni 80’ e 90’, le stesse comunità vittime di quest’etichetta se ne sono appropriate con orgoglio, rivendicando una differenza positiva in cui riconoscersi al di là di categorie come gay o lesbica. Sarà poi Teresa de Lauretis ad accompagnare queste pratiche con la teoria, dando vita alla queer theory. Viene offerta un’immagine della società artefatta e restrittiva, ridotta ad un ballo in maschera al quale, se non si ha il costume, non si partecipa; questa è la regola che il queer rifiuta e attacca con la sua eccentricità. Il genere e la sessualità non sono elementi naturali, ma abiti sociali, più stretti di qualunque corsetto, più scomodi di qualsiasi tacco, abiti che non si tolgono mai e, incollati alla pelle, danno forma alle vite di tutti.
Il testimone passa poi a Judith Butler che trova la chiave di volta del rapporto tra genere e identità nella nozione di performatività. Un enunciato performativo è tale poiché, allo stesso tempo, descrive ed esegue l’azione descritta. Il genere funziona allo stesso modo, marchia e performa (to perform) l’individuo, ne produce l’identità, ne forma i desideri, ne gestisce le relazioni e produce violenza. I fattori che definiscono queste dinamiche sono certamente contingenti, eppure il dualismo creatosi solca una linea talmente netta da rendere tutto all’apparenza naturale. Il vero viso è la maschera.
Alla speculazione teorica, l’universo queer affianca una dimensione teatrale e corporea; esalta, infatti, pratiche di sovversione e di indocilità ragionata legate al travestitismo e al drag. È un gioco di imitazione che prevede la parodia delle norme di genere e la conseguente denuncia dell’artificialità delle stesse. La ridicolizzazione della norma mette in scena le dinamiche alla base della creazione dell’identità sessuale e di genere: discorsività e performatività. Ad essere attaccato è il mito della naturalezza, delegittimato e ridotto a favola, mentre si risale al modello formativo del soggetto sociale, l’eteronormatività: un insieme di discorsi e simboli che strutturano le categorie di riconoscimento, mentre tracciano il confine tra l’uomo e il mostro.
Le politiche liberal hanno raggiunto molti risultati, diritti e riconoscimenti preziosi, un tempo inimmaginabili, ma questo non basta; il femminismo vuole “molto più di 194”. La libertà è il sogno e lo stesso mezzo per raggiungerlo; i singoli sono i protagonisti di questo nuovo atto, poveri di freni e ricchi di differenze e spontaneità, atomi eccedenti l’obbligo di identificarsi, di dover essere normali ad ogni costo. Questa è rivoluzione, almeno identitaria: riuscire a creare una società in cui fioriscano le differenze senza produrre identità, senza ridurre l’individuo alle proprie singolarità, reprimendolo come tale. Tutto ciò è rivoluzionario, perché ad essere attaccata è la forma stessa della logica occidentale, il dualismo, di cui il patriarcato di Adamo ed Eva è l’esempio originale. La marea rosa ha toccato le pareti dell’acquario in cui siamo immersi e, ora, vuole mostrare a tutti la sua artificialità. Vuole denunciare il torpore di un pensiero ormai assuefatto all’idea del un mondo naturale e centrifugo, perché non ha mai visto altro. Vuole lottare per porre fine alla violenza, per chi la soffre e per chi la tollera senza saperlo. Vuole dare a tutti un’alternativa. La storia ci ha portato a questo punto e ora vogliamo uscirne; ma non sarà solo un bellissimo sogno? L’avvento del nuovo può avvenire senza scontro? Difficile da pensare, serve un fronte che rivendichi questa possibilità e lotti per essa. Il problema è darsi una forma, un corpo, ricomporre queste individualità alienate e metamorfiche per creare un contropotere; è forse un paradosso. Gli stessi movimenti affrontano questi nuovi dubbi con una nuova strategia pratica, l’orizzontalità: una forma che sprigioni forza senza innalzare piramidi gerarchiche. È il desiderio di pesare sul mondo, rimanendo piume. Forse è utopico, forse no, ma come è possibile essere reali, senza il limite della realtà?
1 reply to 2. Individuo
Comments are closed.
Correlati