3. Aprirsi alla differenza

Si tratta di andare oltre. I temi classici del PCI non scompaiono, ma vengono riposizionati in elenchi più variegati. Alla centralità del lavoro si affiancano nuove centralità: l’ambiente e le questioni di genere in primis. Stessa sorte capita al soggetto cardine della visione comunista del mondo, quella classe operaia che, in quanto elemento strutturale del sistema produttivo, liberandosi avrebbe liberato tutte le classi compresi i suoi nemici; ora la classe operaia è elemento in una lista aperta e plurale in cui classi e ceti differenti convivono con soggettività inedite. Il riferimento passa dalla classe al cittadino, nella sua estrema varietà; dal collettivo all’individuale. La lista rimane in via di definizione, flessibile alle vibrazioni di una società complessa per la quale nessuno può più proporre ricette scientifiche. Non sarà una semplice somma di elementi nuovi e vecchi in inedite alchimie, ma la sintesi di tensioni eterogenee che devono essere valorizzate nella loro autonomia. Non si può più fare l’errore, teorico e pratico assieme, di ricondurre tutti i conflitti all’unicum della lotta di classe. Sono anni che lo dicono tutti: serve qualcosa di aperto e plurimo. Le certezze monolitiche dell’ideologia vengono sostituite dalla concertazione di una pluralità di voci e visioni del mondo, interessi e bisogni differenti, che dovrebbero armonizzarsi per una liberazione integrale dell’uomo. Nessuno ha tutta la verità in tasca, ognuno ne ha un pezzetto. In varie forme e modi l’uno vien sostituito con i molti, l’omogeneità con la differenza.

Al centro c’è la differenza di genere. Fondamentale il contributo del movimento di liberazione della donna e il ripensamento radicale che è stato proprio del pensiero della differenza sessuale del rapporto tra uguaglianza e diversità, tra identità e differenza. […] È anche questo un percorso che conduce ad una nuova responsabilità verso di sé, verso gli altri e verso la natura. La differenza femminile, oltre a diventare uno dei cardini ideologici del nuovo partito – segnando una discontinuità con la tradizione machista del PCI – diventa modello e figura di questo moto di apertura. Sono le donne che pensandosi come parzialità in confronto con la parzialità maschile (differenza in confronto a differenza) mettono a nudo la pretesa totalizzante e totalitaria degli uomini e di chiunque si pone come totalità onnicomprensiva. Sono le donne che con le loro lotte rendono chiaro il limite del partito nella possibilità di modificare l’esistente entro le sue traiettorie classiche, aprendo conflittualità inedite e rendendo palese la necessità un nuovo rapporto tra le contraddizioni di classe e le contraddizioni trasversali. Sono le donne che con la loro stessa presenza mettono in campo una contraddizione al mito dell’omogeneità della classe operaia e ne prefigurano il disincanto. È solo attraverso le criticità che pone il movimento di liberazione della donna che è possibile ripensare un partito che sia veramente democratico e veramente di sinistra. Achille Occhetto lo sa e allarga la lezione appresa dalle donne a tutte le differenze rimosse dall’universalismo comunista – all’interno come all’esterno.  La nuova formazione politica vuole essere innanzitutto questo: la piena espressione delle differenze che sono già dentro di noi e che possono, se valorizzate nella loro autonomia, collegarci a tante altre lotte che ci sono all’esterno, infatti essenziale diventa per tutti l’apertura all’esterno e la capacità di contaminarci, di incontrarci, di riconoscere i valori, le energie liberatrici degli altri movimenti e delle altre culture.  Entrambe le direttive di apertura, quella verso l’esterno (non-comunisti) e quella verso le differenze interne (le minoranze e i temi considerati secondari nella vulgata comunista come la questione femminile) segnano una svolta radicale nella storia del Partito Comunista Italiano.

In Italia, una forma specifica di dialettica tra identità e differenza è stata fondamentale per la costruzione della fisionomia politica del partito comunista in senso identitario: verso l’esterno la differenza comunista (la separatezza dagli altri partiti e dalle altre organizzazioni in una sorta di lotta contro la contaminazione borghese, decadente, individualista, del malaffare e della corruzione); verso l’interno l’unità. Negli anni ’50 e ’60 i comunisti, ovunque al di qua dal muro di Berlino, sono come dei soldati oltre le linee nemiche – devono serrare i ranghi se vogliono resistere. L’Italia poi è un paese di confine, oltre Trieste c’è la Jugoslavia del Comandante Tito. L’identitarismo comunista è allora una tattica di sopravvivenza in ambiente ostile. Cosciente dell’impossibilità di governare in un paese del blocco Nato senza rinnegare la propria verità, abbandonata l’ipotesi armata, il partito di Togliatti non può che assumere la posizione del riccio. Lavora alla politicizzazione dei suoi quadri; punta a trasformare ogni elettore in un militante e integrarlo in una visione totale della realtà nella quale il partito ha un ruolo fondamentale. Pur nella dimensione organizzativa, nel numero dei suoi iscritti e nella capillarità con cui è diffuso sul territorio, il PCI si rappresenta e forma i suoi in netta separazione con il resto della società italiana (potremmo citare Pasolini ma non lo faremo). Ha una verità rivoluzionaria da tutelare a qualsiasi costo, di fronte a questa ogni differenza sembra una devianza, ogni minoranza un rischio di scissione, ogni critico un nemico. Così facendo produce un’organizzazione impegnata a tutelare sé stessa, spesso rigida e sorda verso l’esterno, in seria difficoltà quando c’è da metabolizzare input nuovi. Come una membrana l’identità comunista separa dal fuori e dà una forma al dentro definendo in modo chiaro e univoco. Qualsiasi alterità interna o esterna al Partito prende la forma del germe che può contaminare il corpo sano.

L’IDENTITARISMO COMUNISTA È ALLORA UNA TATTICA DI SOPRAVVIVENZA IN AMBIENTE OSTILE

Nella proposta di Achille Occhetto questa membrana deve diventare sommamente permeabile, lasciare entrare il diverso e l’estraneo per ridefinire forme, valori e immaginario. Il nuovo partito porterà dentro di sé la differenza non come devianza, non come idea di scissione e frantumazione ma come momento attivo di costruzione dell’unità. D’altronde è chiaro a tutti come la differenza comunista oltre a tattica di sopravvivenza sia stata ragione di squalifica del partito dalle possibilità di governo e causa di un destino da eterna opposizione. Perché noi, come le altre forze politiche, troppo a lungo abbiamo avuto la presunzione di avere il monopolio della verità politica. Mentre oggi bisogna prendere atto che è solo in rapporti alla società e alle sue diverse articolazioni che si può costruire una politica, solo aderendo alle domande, alle intelligenze, ai diritti, alle forze che maturano nel corpo della società che si può aspirare al governo del paese.  L’apertura del Partito alla differenza è nello stesso tempo un tentativo di risolvere la sua crisi identitaria e una mossa politica finalizzata a guadagnare la credibilità necessaria per poter accedere alla stanza dei bottoni.

La trasformazione culturale che fa perno sulla reinterpretazione della differenza da rischio a valore, ha un corrispettivo anche nella forma organizzativa del partito. Non solo un pluralismo politico interno ma un rinnovamento della struttura organizzativa che il partito comunista ha ereditato dal passato. Il centralismo democratico – il principio organizzativo di matrice leninista che interpreta i rapporti tra il partito e l’esterno secondo una dinamica di reductio ad unum della discussione interna ai fini dell’azione sulla realtà – viene sostituito con un’idea pluralistica, meno pragmatica, magari, ma garante di maggiore democraticità.  Il centralismo democratico fa del partito un’istituzione prettamente omologante che riconduce le minoranze alla maggioranza. Il modello di base è quello militare, verticale e disciplinato: d’altronde Lenin deve fare la rivoluzione e non può permettere che il partito si perda in discussioni o si sciolga in rivoli e contro rivoli, ha bisogno di una struttura affidabile e solida. L’azione primeggia sulla discussione, l’unità sulla differenza, come sembra naturale in guerra. In tempo di pace invece il nuovo soggetto politico deve convertire la sua struttura piramidale in una nuova struttura a rete (ne parliamo in altri termini in Figure dell’immediatezza) sostituendo il centralismo con nuove autonomie su base regionale o locale capaci di controbilanciare il potere.  Fondamentale è quindi abbandonare l’illusione di poter essere un grande partito e contemporaneamente esprimere una struttura politica strettamente omogenea. L’omogeneità è divenuto oramai un disvalore, segno di coercizioni e mancanze di democrazia.  La linea diventa allora unire la maggioranza dei cittadini non su un obbiettivo finale, ma su un minimo comune denominatore. Superiamo l’idea del partito ideologico e onnicomprensivo e mettiamo in campo una vera e propria dottrina del limite del partito. Limite di rappresentare la coscienza ideale di ogni iscritto. Limite dinnanzi all’emergere di nuovi soggetti della società civile anch’essi portatori di soggettività politica ai quali vanno riconosciuti mezzi, spazi e funzioni. Il partito non ha più la pretesa di interpretare ogni singolo centimetro del paese ed ogni singolo attimo della vita dei suoi militanti secondo la propria visione totale del mondo. Finita la pretesa di possedere una verità generale per tutti, finisce il tempo della propaganda, ed inizia il tempo del dialogo; un’attenzione particolare dev’essere concessa in questo al momento dell’ascolto. È il modello del lean party che come la lean production riesce a garantire flessibilità e celere capacità di modificarsi nel contesto della società del just in time: meno appartato organizzativo e esternalizzazione di alcune mansioni, una struttura più leggera e capace di innovarsi di fronte alle necessità di un mondo più veloce e in mutamento. Anche se i compagni forse non se ne sono accorti è finito il Novecento e Achille Occhetto lo sa.

C’è un video su YouTube tratto da una puntata di Porta a Porta del 21 Aprile 1996, notte elettorale.  Il PDS, forza trainante de’ L’ulivo, vince le elezioni politiche. D’Alema da un palco di una piazza gremita e festante, un sorriso che mostra i denti del giudizio, prende parola: «Quando noi saremo una grande forza della sinistra non ci sarà più quel marchio di origine che noi portiamo. Però vedete…» si fa passare una bandiera del PDS, la stende davanti a sé e indica il simbolo alle radici della quercia post-comunista: la falce e il martello. Visibilmente commosso si rivolge alla piazza dal microfono « …lasciatemi dire una cosa. Io sono contento che noi abbiamo portato al governo del paese anche questo simbolo». Grida, esultanze, pianti. Il PCI per governare in Italia doveva sciogliersi e presentarsi in una coalizione con a capo un ex democristiano come Romano Prodi (fra le altre cose già ministro tecnico dell’industria, del commercio e dell’artigianato nel 1978 per il quarto governo Andreotti). Doveva farlo e l’ha fatto.