3. I nostri liberisti e il loro merito

Possiamo trovare questa idea ben espressa dai discorsi della sinistra liberista nostrana, nella fattispecie nei discorsi del Partito Democratico. Non si può dimenticare come le radici storiche del PD facessero dell’uguaglianza – nelle sue varianti cattolica e comunista – e della conseguente lotta alle disuguaglianze uno dei centri dell’identità politica. Un poco di continuità con il passato è fondamentale. Una parte dei suoi elettori più anziani continua a pensare il PD come il Partito, in aperta continuità con quello di Togliatti e Gramsci: anche quando sbaglia rimane il Partito, quello con l’articolo determinativo (che non devi pensare cosa può fare lui per te ma devi pensare cosa puoi fare tu per lui). Il PD, inoltre fa appello ad una sensibilità di sinistra diffusa nel ceto istruito della popolazione italiana e nella società civile per la quale i valori di uguaglianza rimangono qualcosa di centrale per l’identità politica. La fine argomentazione neo-liberista permette allora anche in Italia di continuare a far appello a questi valori, ad usare queste parole, senza cadere nei loro pericolosissimi significati novecenteschi e legandoli saldamente ai valori della libertà individuale e della differenza.

W. Veltroni, 2007, in occasione della nascita del PD: «E se qualcuno dice che c’è chi vuole “rendere uguali il figlio del professionista e il figlio dell’operaio”, noi rispondiamo sì: vogliamo che siano uguali. Uguali non nel punto di arrivo. Ma in quello di partenza. Vogliamo che il figlio dell’operaio abbia tutte le opportunità cui ha diritto. Vogliamo che siano le sue capacità, i suoi sacrifici, la sua intelligenza a dire dove arriverà, e non che il suo posto nella società di domani sia stabilito a priori dal salario che suo padre porta a casa dopo una giornata passata davanti a una pressa. […] C’è troppa “ereditarietà” nella società italiana. Se c’è una cosa, tra tanto parlare degli Stati Uniti, che dovremmo far nostra è quel principio di mobilità verso l’alto che è il cardine del modello americano. Chi è in basso deve poter salire. Chi vuole cambiare deve poterlo fare. Deve avere la speranza di poterlo fare e le opportunità per farlo. Deve poter credere che il futuro è nella sua mente, nel suo cuore, nella sua determinazione. E in più, se cade, deve poter trovare una rete che lo salvi e gli consenta di ricominciare a sperare. »

M. Renzi, 2012, in occasione delle primarie del PD: «É evidente che se in questo paese per trovare lavoro bisogna conoscere qualcuno invece di conoscere qualcosa non andiamo da nessuna parte. Qui si gioca una partita fondamentale del paese, compresa la scommessa sul merito. Io devo fare passare il concetto anche ad una certa sinistra. A questa sinistra io devo dire che il merito è un valore di sinistra perché è il tentativo di affermare che l’uguaglianza non significa che tutti devono arrivare allo stesso punto. Significa dire che tutti devono partire dallo stesso punto. Significa dire che bisogna rimuovere gli ostacoli affinché il figlio di un operaio abbia gli stessi diritti del figlio di un padrone. Divento credibile e di sinistra se tutti quelli che possono vengono liberati dagli ostacoli e messi in condizione di giocare la partita.»

Uguaglianza sì, ma non Cattiva Uguaglianza. Uguaglianza di partenza ma differenza di arrivo (quelle che Friedman chiama uguaglianza di possibilità e differenza di risultato). La prima cosa che salta all’occhio da questi due frammenti è il tentativo di staccarsi da un’idea di uguaglianza proponendone un’altra che le si oppone: uguali non nel punto di arrivoMa in quello di partenza (Veltroni); l’uguaglianza non significa che tutti devono arrivare allo stesso punto. Significa dire che tutti devono partire dallo stesso punto (Renzi). La contrapposizione è retoricamente forte – ad un negativo viene affiancato un positivo – ed è costruita in modo da escludere uno degli elementi della coppia. Bisogna dare un nuovo significato alla parola uguaglianza, quello vecchio non è più utilizzabile. Il secondo elemento interessante è invece l’appello, inaspettato per il contesto, ad una figura carica di significato come quella dell’operaio. Renzi lo affianca al padrone, Veltroni lo rappresenta salariato e davanti ad una pressa (è proprio lui, l’operaio anni ’50 tipico del bestiario comunista; pensavamo fosse scomparso, e invece). In realtà non è l’operaio che compare ma suo figlio: non il presente, ma il futuro. Forse basta questo a renderlo nominabile (lui e il mondo mitico della sinistra a cui allude), relegarlo ad un presente già passato per concentrarsi sul futuro. Se il sogno di rendere l’operaio e il padrone uguali (togliendo al padrone quello che lo rendeva padrone – i mezzi di produzione) è fallito (e fallito male), ora l’idea della sinistra liberista è fare in modo che i rispettivi figli abbiano le stesse possibilità e che non trascinino la loro condizione familiare come un destino ineluttabile. Speranza per tutti e opportunità di essere ciò che vogliono – o quanto meno di provarci, chiunque siano i genitori: c’è troppa “ereditarietà” nella società italiana. Uno sguardo tutto proiettato ad una mobilità verso l’alto: chi è in basso deve poter salire, sul modello del sogno americano. Una volta che si riesce a rimuovere gli ostacoli posti dalle differenze, dalle disuguaglianze e dalle discriminazioni tra l’individuo (giovane) e la sua libertà di essere quello che desidera, a dare a tutti (in partenza) gli stessi diritti, allora la responsabilità sarà tutta del singolo e non più della società. Chi vuole cambiare deve poterlo fare, saranno le sue capacità, i suoi sacrifici, la sua intelligenza a dire dove arriveràÈ la scommessa sul merito e il merito è un valore di sinistra (tanto quanto l’operaio di prima). Combattere la disuguaglianza, o le discriminazioni di razza o di genere, significa allora fare in modo che gli individui trovino le condizioni migliori per potere mettere in campo il loro talento e giocarsi la partita, la sola che hanno. Questo vuol dire oggi essere di sinistra: vuol dire mettere una donna nelle condizioni di gareggiare alla pari con un uomo; il figlio di una coppia di migranti misurarsi con un coetaneo nato in una famiglia con pieni diritti di cittadinanza senza scontare gap linguistici, culturali o razzismi vari; un bambino della periferia di Foggia concorrere con un bambino nato nelle zone residenziali di Brescia.  Gareggiare, misurarsi, concorrere – non sono parole di Veltroni o di Renzi ma potrebbero esserlo.  È la metafora della gara sportiva, onnipresente nella retorica del merito della quale l’uguaglianza di partenza è un elemento fondamentale. Nelle gare sportive tanti partecipano ma può esserci soltanto un vincitore; chi vince però se lo merita, le critiche sono solo il frutto delle invidie di chi è arrivato secondo (che – come dice il saggio – è il primo degli ultimi).  

Si intravede una precisa idea di giustizia sociale nella retorica del merito fondata sulle pari opportunità – ovvero sull’eliminazione della portata discriminante delle differenze, come quella di genere o di razza, ma anche di differenze di tipo diverso come la disabilità – e sulla libertà di ogni individuo di costruirsi il futuro a modo suo. Il sogno lo devono poter sognare tutti senza discriminazioni. La visione ha dell’utopico (nel senso buono del termine): separare il singolo dalle sue determinazioni sociali (o naturali come quello della disabilità), dalle possibilità che gli sono date nascendo in un luogo o in un altro, in una famiglia o in un’altra, per costruire attorno a lui uno spazio completamente libero e totalmente plasmabile dalla sua volontà e dal suo desiderio. Il potere che ognuno ha di costruire la sua fortuna è immenso, basta volere e non essere pigri: sudare, far andare le mani, scommettere. Certo la libertà totale di autodeterminazione in potenza alla portata di tutti sarà conquistata solo dai più talentuosi, volenterosi, impegnati, affamati; ma questo, come Friedman, l’avevamo di malincuore già accettato. Il Black Friday ci pone uno scorcio: a tutti è data la possibilità del lusso, ma l’offerta è inferiore di gran lunga alla domanda. Chi arriva per primo porterà a casa il televisore il doppio più grande rispetto a quello che può veramente permettersi.  Chi arriva tardi – qualsiasi sia la sua motivazione – non può lamentarsi con nessuno che non sia se stesso. La gara sportiva qualche volta diventa guerra, ma forse è normale: gli antropologi ci hanno insegnato che tra i due campi dell’esistenza umana c’è una fortissima continuità. È come nella giungla, ma con un aiuto per colmare gli handicap di partenza e qualche regola che non faccia finire il match in pura violenza. E, come nella giungla, se sei disoccupato non puoi lamentarti del padrone, della crisi, delle delocalizzazioni o della finanziarizzazione dell’economia, se c’è qualcuno che devi odiare, quello sei tu: ti sono state date le possibilità e tu non te le sei giocate al meglio. Poco male, peccato non avere un’altra vita. Avanti il prossimo.

La retorica del merito si mostra coerente e totale ma tende a dimenticarsi dei secondi e dei terzi (oltre chiaramente degli ultimi di cui non si ricorda mai nessuno). Troppo concentrata a festeggiare le eccellenze dimentica non soltanto i pessimi ma anche i mediocri, li tratta troppo spesso da massa informe, non persone, bianchi o neri, uomini o donne che siano – falliti, ignoranti, zotici. Su di loro grava un giudizio morale. Dimentica pure che l’ascensore sociale funziona in entrambi i sensi e – gli Stati Uniti ce lo insegnano – tanto possibile e celere è l’ascesa quanto precipitosa e frequente la caduta. La questione fondamentale della lotta alla disuguaglianza si riduce ad una più equa e meno fatale distribuzione di questa secondo il principio del merito e ad un tentativo di eliminare la portata discriminatoria delle differenze esaltando il valore della varietà. Ma questo è il sogno, la teoria. Nella realtà – a dieci anni dalla crisi del 2008 – questo tipo di discorsi hanno mostrato tutta la loro limitatezza. La forbice delle disuguaglianze è aumentata e le promesse di abbondanza annesse alle politiche di austerità sono state ampiamente deluse. L’ascensore sociale non solo si è bloccato ma ha iniziato a trasportare le persone verso il basso. Il Figlio dell’operaio spera un giorno di avere la sicurezza lavorativa del padre, lo stipendio alla fine del mese, la possibilità economia e esistenziale di comprarsi casa e mettere su famiglia – o non farlo, ma come scelta e non come necessità. L’operaio ricorda con nostalgia gli anni ’90: la possibilità di fare i schei, il valore della lira in pizzeria o al supermercato, le possibilità che suo figlio (che nel frattempo è diventato dottore) potrebbe non avere.  Il sogno di autodeterminazione e autonomia ha mostrato il volto che era rimasto in ombra durante i periodi di crescita economica: la precarietà. La gara si è conclusa e qualcuno è rimasto disoccupato. L’individuo si è scoperto insignificante di fronte ai movimenti globali, in balia di forze che invisibili e incontrollabili lo determinano ben oltre la sua possibilità di agire. Altro che merito, homo faber fortunae suae, self made manMilano da bere: sul palpabile fallimento del progetto economico-politico delle sinistre liberiste (che mette insieme valore della differenza e libertà degli individui nella libertà totale del mercato) prosperano le nuove destre.

LA QUESTIONE FONDAMENTALE DELLA LOTTA ALLA DISUGUAGLIANZA SI RIDUCE AD UNA PIÙ EQUA E MENO FATALE DISTRIBUZIONE DI QUESTA SECONDO IL PRINCIPIO DEL MERITO

La differenza tende ad assumere allora due forme: per chi ce la fa (anche perché parte ben più avanzato rispetto agli altri concorrenti) è liberta di essere quello che vuole senza grosse discriminazioni, per gli altri è disuguaglianza. Una vignetta di Mario Biani in occasione di una social gaffe razzista che scambiava Magic Johnson e Samuel L. Jackson per dei migranti che bivaccavano su una panchina di Forte dei Marmi disegna in modo preciso questa situazione.  C’è un uomo in camicia davanti ad un computer che – leggendo i commenti razzisti alla foto delle due star americane – sbotta: la gente è scema; ma come si fa a scambiare un attore e uno sportivo famosi con due negri.