3. La lavoratrice tra femminilizzazione e precarietà

La lavoratrice è una figura che è entrata relativamente tardi nell’immaginario collettivo: a setacciarlo, si scopre che esso ne è abitato soltanto in minima parte. È dal nuovo millennio che i personaggi di lavoratrici femminili avanzano progressivamente in primo piano: un piccolo sintomo del cambiamento che a livello economico e sociale ha subito il ruolo della donna almeno nelle società occidentali, dove esso ha acquisito una centralità che fino agli anni Settanta era impensabile anche dal punto di vista dell’immaginario produttivo. Ciò non significa affatto che le donne prima non lavorassero, anzi: a loro venivano assegnati compiti domestici e di cura all’interno della sfera familiare che non potevano rifiutarsi di svolgere in quanto erano considerati “naturalmente” femminili e da svolgere gratuitamente; inoltre, quando partecipavano alle attività lavorative extradomestiche, questa partecipazione era sempre limitata e accessoria, legata alla necessità di sopperire a un reddito familiare non sufficiente per il sostentamento oppure a una mancanza di forza lavoro maschile (come durante le due Guerre mondiali).Credere che questa eredità secolare nell’assegnazione dei compiti femminili e maschili possa scomparire nell’arco di cinquant’anni è evidentemente irrealistico e lo dimostra, per esempio, il peso che ancora oggi ha per le donne il “vincolo familiare” nella progettazione del proprio futuro lavorativo. Come dice Fabio Dovigo, «se gli uomini hanno una famiglia su cui contare, le donne hanno una famiglia a cui pensare»[1].

Al di là delle disuguaglianze di genere ancora persistenti, tuttavia è innegabile che una femminilizzazione del mercato del lavoro sia avvenuta. Prima della svolta degli anni Settanta la figura del lavoratore era sostanzialmente maschile nell’immaginario collettivo, non soltanto perché alle donne venivano assegnati ruoli di riproduzione sociale piuttosto che di partecipazione all’interno della catena produttiva, ma anche perché i settori su cui, fino a un certo punto, si è basato il sistema produttivo occidentale prevedevano una resistenza alla fatica fisica maggiore e per questo considerati naturalmente maschili. Ciò non significa che non si trovassero lavoratrici femminili all’interno del settore agricolo (basti pensare alle mondine) e di quello manifatturiero, dove esse venivano impiegate nella produzione di automobili, di elettrodomestici e di apparecchiature elettroniche, ma che il loro impiego era strettamente legato al costo della loro forza lavoro e alle modalità di assunzione che venivano loro concesse (part-time). In questo, il loro ruolo non era molto diverso da quello dei lavoratori migranti e dei giovani, ossia manodopera a basso costo, flessibile e con meno pretese (mai pregiudizio fu più infondato come dimostra la storia dei conflitti operai e il contributo che a esso hanno dato le figure femminili). Dopo gli anni Settanta e Ottanta, invece, la progressiva affermazione dei diritti delle donne sul piano politico, portata avanti dalle lotte dei movimenti femministi, e la vasta espansione del settore terziario e delle sue diverse occupazioni sul piano economico hanno condotto a prestare maggiore attenzione alla forza lavoro femminile e assorbirne l’offerta. Se l’operaio-massa trovava il suo corrispettivo nel settimo uomo, ossia nel lavoratore migrante arruolato nell’industria pesante, dagli anni Ottanta la terziarizzazione dell’economia mette a valore caratteristiche e tratti culturalmente associati con il genere femminile: la lavoratrice può, meglio di altre figure, riassumere il passaggio a un cambio di paradigma economico incentrato maggiormente sull’attenzione, la cura e la gentilezza da dimostrare nei confronti del cliente.  Molte occupazioni del settore dei servizi non fanno altro che replicare, al di fuori delle mura familiari, i tradizionali lavori di cura affidati alle donne: per essere svolti al meglio, essi richiedono lo sfoggio di una femminilità cristallizzata, come racconta – in un brano della Gemella H (2014) di Giorgio Falco – un personaggio romanzesco come la giovane commessa Hilde, assunta alla Rinascente di Milano:

La Rinascente educa alla cura di me stessa con moderazione, sebbene il corpo sia costretto alla divisa, che tuttavia non ha nulla di militare, ricorda semmai la collegiale, il colletto sempre bianco, il grazioso grembiule non troppo attillato. Potrei essere la figlia, la sorella, la cugina, la nipote, la bambinaia di molte clienti, potrei essere la fidanzata, la compagna di banco, la giovane amante di molti clienti. Sono una commessa della Rinascente, la somma potenziale di tutto, e in verità niente di tutto questo.

Le commesse, come insegnanti, infermiere, assistenti sociali, educatrici, ecc.: lavori che tradizionalmente sono svolti da donne, che fanno leva su caratteristiche propriamente “femminili”, dove l’aggettivo è volutamente posto tra virgolette a sottolineare il carattere artificiale e sociale del concetto di femminilità che tendenzialmente si crede invece naturale. Una certa rigidità organizzativa del mercato del lavoro e stereotipi di questo tipo contribuiscono all’esclusione o, almeno alla discriminazione, dell’offerta femminile di forza lavoro che viene incanalata e confinata in precisi ambiti occupazionali più “femminili”, rispetto ad altri considerati “maschili”. È il fenomeno sociale della segregazione orizzontale che compare anche negli ambiti in cui più elevato è il tasso di riflessione sulla disparità di genere e in cui la bandiera delle pari opportunità e del progressismo viene tenuta alta; anche lì si potrà notare in certi casi che, a parità di titoli, di qualifiche e di intelligenze, le donne si assumono – come incarico aggiunto – il ruolo di segretarie, con il silenzio-assenso dei colleghi uomini che inconsciamente le reputano più adatte. È evidente che casi di questo tipo siano aspetti particolari di problemi più generali che abitano un sistema fondato sul patriarcato, in cui il potere è detenuto principalmente dagli uomini e la donna è concepita come oggetto al servizio dell’uomo e a esso subordinata. Lo dimostra meglio di altre il monologo di Paola Cortellesi, recitato nel 2018 durante la premiazione dei David di Donatello, in cui tra l’accostamento di nome al maschile e nomi al femminile passa tutta la concezione patriarcale della società italiana:

Un cortigiano: un uomo che vive a corte; una cortigiana: una mignotta. Un professionista: un uomo molto pratico del suo mestiere; una professionista: una mignotta. Un intrattenitore: un uomo dalla conversazione divertente; un’intrattenitrice: una mignotta. Un uomo pubblico: un uomo famoso, in vista; una donna pubblica: una mignotta. Un massaggiatore: un fisioterapista; una massaggiatrice: una mignotta. Un uomo di strada: un uomo duro; una donna di strada: una mignotta. Un uomo con un passato: un uomo ricco di esperienza; una donna con un passato: una mignotta. Un uomo facile: un uomo col quale è facile vivere; una donna facile: una mignotta. Un uomo molto disponibile: un uomo gentile; una donna molto disponibile: una mignotta. […]

Una concezione del “femminile” di questo tipo si accompagna a una segregazione non solo di tipo orizzontale, ma anche verticale: la possibilità di accesso a posizioni manageriali e di responsabilità per le donne lavoratrici si scontra inevitabilmente con un «soffitto di cristallo» invisibile e apparentemente inscalfibile che è costituito allo stesso tempo da discriminazioni di genere e da condizioni di lavoro particolarmente invasive da accettare. Il pregiudizio qui agisce sull’esigenza produttiva: si pensa che una donna sia meno propensa ad accettare che il tempo dedicato al lavoro sia maggiore di quello dedicato alla vita, che sia inevitabilmente attratta da desideri di maternità, che sia per lei più difficile concentrare le sue capacità fisiche e intellettuali sul lavoro, sempre divisa tra lavoro e famiglia. È questo un luogo comune che nasconde una sua verità profonda dato che, rispetto alla controparte maschile, una lavoratrice è costretta a scegliere tra l’avanzamento di carriera e la possibilità di avere dei figli (solo negli ultimi anni sono state avanzate misure di flessibilità che permettano alle donne di conciliare questi due aspetti).

UNA CERTA RIGIDITÀ ORGANIZZATIVA DEL MERCATO DEL LAVORO E STEREOTIPI DI GENERE CONTRIBUISCONO ALL’ESCLUSIONE O ALMENO ALLA DISCRIMINAZIONE DELL’OFFERTA FEMMINILE DI FORZA LAVORO

In questo panorama, è legittimo chiedersi quanto sia possibile riunire sotto la stessa etichetta le lavoratrici e i lavoratori, data soprattutto l’invisibile confine di genere che assegna svantaggi e vantaggi a una parte piuttosto che all’altra. In altri termini: la figura della lavoratrice può richiamare sullo sfondo una più ampia comunità di destino? Oppure è una figura che può parlare soltanto di sé stessa e dei membri del genere cui essa appartiene? Per rispondere a questa domanda bisogna fare un passo indietro e individuare quali siano quelle condizioni di sfruttamento o di svantaggio implicite o esplicite che tradizionalmente colpivano la manodopera femminile e che nel corso degli ultimi anni si sono invece “universalizzate”, colpendo indiscriminatamente lavoratori e lavoratrici.

Come si è detto, le donne sono state e sono tutt’oggi, in linea generale, più esposte degli uomini al rischio di una precarizzazione della condizione lavorativa. A questo elemento la maggior parte delle volte si sommano una irregolarità dei compensi economici soprattutto per la manodopera femminile non qualificata, una sottovalutazione di titoli e competenze per quella qualificata, una incertezza legata ai tempi e all’organizzazione dell’attività lavorativa. Una condizione che tuttavia oggi non è esclusiva, dato che è condivisa non solo da molta forza lavoro straniera, ma anche da buona parte della fetta privilegiata, ossia i lavoratori maschi e nativi. Da ormai trent’anni a questa parte ci troviamo di fronte a una tendenza alla flessibilità che la maggior parte delle volte si traduce in una precarietà estrema. Pratiche di assunzione tipicamente neoliberiste sono state agevolate e in certi casi promosse da una legislazione dissennata dal punto di vista del diritto del lavoro che, lo si ricorda, dovrebbe servire a ridimensionare il rapporto asimmetrico tra lavoratori e datore di lavoro. A partire dagli anni Novanta questo principio semplice viene disatteso e sostituito dal principio di una libera contrattazione tra le parti, in nome di una battaglia contro l’irrigidimento del mercato del lavoro: bisognava rendere più snella l’entrata e l’uscita, permettere un maggiore ricambio tra insiders (ossia i lavoratori garantiti, in quanto aventi un lavoro a tempo determinato) e outsiders (lavoratori non garantiti, il cui accesso al mercato del lavoro risultava piuttosto difficile). La soluzione è stata quella di diversificare le tipologie contrattuali (nel tentativo di facilitare il mercato in entrata) e di ridimensionare i diritti dei lavoratori, prima di tutto rendendo più facile il licenziamento (per rendere più flessibile il mercato in uscita). Una strategia europea (risale al 1997 l’avvio della cosiddetta “Strategia europea per l’occupazione”) che in Italia prende forma attraverso manovre come il pacchetto Treu (1997), la Legge Biagi (2001), la Legge Fornero (2012), il Jobs Act (2015).  Questo non ha fatto altro che sdoganare i contratti atipici e i lavori che da essi derivano, considerati molte volte parte dell’economia informale talmente minimo è il livello di protezione e di diritti per il lavoratore che li stipula.

DA ORMAI TRENT’ANNI A QUESTA PARTE CI TROVIAMO DI FRONTE A UNA TENDENZA ALLA FLESSIBILITÀ CHE LA MAGGIOR PARTE DELLE VOLTE SI TRADUCE IN UNA PRECARIETÀ ESTREMA.

In quest’ottica la figura della lavoratrice, la prima a subire gli effetti di queste disposizioni legislative, può farsi figura più universale, richiamando una condizione che vive – in misura minore e con sfumature diverse – anche la forza lavoro non discriminata per questioni etniche o di genere. La storia raccontata da Elisa, redattrice per un grosso gruppo editoriale spagnolo e protagonista del romanzo La lavoratrice (2019) di Elvira Navarro, non è forse la storia di molti precari tra i venti e quarant’anni, siano essi uomini o donne?

Quando arrivavano i collaboratori esterni, come avvolti nell’aria, non potevo fare a meno di invidiarli, e immaginavo che dopo aver lasciato la pila di carta sarebbero andati a vagare nel parco di La Quinta, tra la bizzarra piantagione di platani e ulivi che in inverno si ricopriva di brina, o a tuffarsi lì, dove avevo desiderato farlo tutte le mattine della mia vita lavorativa prima di entrare in ufficio: attraversare il parco e immergersi nei capannoni industriali che spuntavano qui e là, saltati come un piatto cinese tra edifici fatiscenti. Qualche volta, a fine giornata, anch’io andavo a passeggiare, ma ormai ero stanca e non era la stessa cosa. Prima della scadenza del contratto avevo preso in considerazione la possibilità di chiedere ai miei capi di correggere a casa un paio di giorni alla settimana. Quando mi annunciarono che sarei diventata una collaboratrice esterna, mi avevano ridotto lo stipendio e cominciavo ad avere problemi ad arrivare a fine mese.

Nella misura di un paragrafo si consuma il passaggio repentino e traumatico di Elisa da lavoratrice dipendente a salariata della precarietà. Se in un primo momento, flessibilità e gestione del tempo del lavoro da parte dei collaboratori esterni rappresentano un’attrattiva anche per la giovane donna («vagare per i parchi» e «immergersi nei capannoni industriali»), quando il lavoro viene di fatto esternalizzato dal gruppo editoriale per il quale lavora, il sogno di una gestione razionale, leggera e non precaria si trasforma nell’incubo dell’affitto troppo alto, dell’extra-lavoro incessante per raggiungere uno stipendio che permetta di vivere, dei ritardi nei pagamenti da parte dell’azienda perché, alla fine, sanno che ti hanno in pugno.

È una situazione allo stesso tempo topica (riguarda molti lavoratori del terziario) e particolare (è quella di una donna). Al di là delle condizioni materiali simili (contrattuali, abitative, precarie dal punto di vista economico ed esistenziale) c’è infatti sempre un elemento in più che aggrava la situazione lavorativa di una donna. È un elemento invisibile e difficilmente identificabile che si traduce in una sotterranea violenza, quasi un’ingiunzione a rimanere subalterne e che conduce le donne a una continua dimostrazione del proprio valore, delle proprie competenze, del proprio diritto a esistere nell’ indipendenza lavorativa, intellettuale ed economica. Un fenomeno che è utopico pensare scompaia anche con un ipotetico crollo della società capitalista.

Bilanciare il piano del conflitto tra capitale e lavoro (le condizioni lavorative comuni e l’unità di interessi che da queste potrebbe derivare per combatterle), con quello della lotta alla violenza di genere (in tutte le sue forme) e alle discriminazioni di cui sono oggetto i soggetti subalterni (migranti, omosessuali, ecc.) è forse una delle sfide più difficili cui è chiamata oggi la sinistra.