3. Ricomposizione

Il gesto della ricomposizione richiama la volontà di ridare forma a qualcosa che si è spezzato: un vaso, un cuore, un’identità, una storia, una realtà. Rimettere insieme i pezzi è espressione di cura e salvaguardia verso qualcosa che non si vuole perdere. È anche una postura cognitiva che emerge abbastanza spontaneamente, come quando a partire da appunti sparsi si tenta di ricostruire il senso di una lezione oppure, davanti a un cielo che pare esploso di stelle, si cerca di identificare il disegno di questa o quella costellazione, che aiuti a orientarsi nella moltitudine. La ricomposizione è un atto che può risultare violento, in quanto toglie autonomia al frammento; ma guardata da una diversa angolatura, essa esalta ciò che è singolo proprio riconnettendolo a un insieme. Liberazione e forzatura convivono senza dubbio in ogni momento ricompositivo. Si tratta di fare una scelta: i tasselli del puzzle possono rimanere slegati nella propria autosufficienza e autoreferenzialità, rappresentando un conglomerato fluido e variabile; oppure possono trovare il modo di avvicinarsi e incastrarsi l’uno nell’altro per dare forma a un’immagine coerente. Questione di prospettiva.

RIMETTERE INSIEME I PEZZI È ESPRESSIONE DI CURA E SALVAGUARDIA VERSO QUALCOSA CHE NON SI VUOLE PERDERE

Le politiche movimentiste improntate sul concetto di differenza hanno permesso di risvegliare la disobbedienza civile a partire da margini e porzioni di realtà: le lotte per la casa raccolgono il malcontento di chi è economicamente indigente; le reti antirazziste realizzano una collaborazione fra migranti e cittadini che rifiutano le posizioni xenofobe del Ministro degli Interni; la marea transfemminista invade le città più tradizionaliste, come Verona, e ne sconvolge la fisionomia in un rombo di colori, suoni e slogan gridati a piena voce; i movimenti ambientalisti riattivano l’entusiasmo di giovani studenti che scoprono – alcuni per la prima volta – il potenziale euforico del corteo, il senso di aggregazione che ne deriva. Si parte dal genere, o dalla razza, o dall’età, o dal lavoro e si torna in piazza, in strada: ad ogni modo fuori dalle pareti insonorizzate del privato. Si potrebbe dire che già questa è una conquista: il Marzo italiano del 2019 è stato incredibilmente caldo. Qualcuno ha sperato fosse solo un brutto sogno; ha confidato che presto sarebbe tornato a piovere, per dormire meglio. La pioggia effettivamente è venuta, ma le varie lotte non si sono fermate, pur facendosi meno appariscenti. Nell’attesa (o proprio in preparazione) che le onde rimontino a minacciare i confini sicuri del litorale, la domanda che possiamo porci è come si possa fare per rendere un fenomeno stagionale e sfaccettato qualcosa di permanente e unitario.

L’obiettivo di questo tipo di movimenti – e quindi il modo peculiare in cui declinano il concetto di differenza rispetto a quanto fa la politica istituzionale o addirittura il marketing – è infatti antisistemico. Le loro lotte puntano alla costruzione di una società nuova. Non ci si accontenta di portarsi a casa qualche diritto in più, che permetta a chi è emarginato di restare entro i suoi confini, seppur con maggiore agio (e quindi maggiore passività). Non basta riconoscere il matrimonio gay; né sono sufficienti le quote rosa a garantire una parità di genere; così come non è il #MeToo che permetterà di scardinare la violenza maschile, né il Pride a garantire l’incolumità della comunità LGBTQIAPK+. Finché non viene intaccato il sistema che si struttura su dinamiche di violenza, oppressione e emarginazione, nessuna pubblicità della United Colors of Benetton, con i suoi meravigliosi fotomodelli di tutti i colori, saprà costruire un mondo differente.

Le ambizioni dichiarate sono quindi grandi, complessive e complesse. Tanto più perché questi movimenti riconoscono come motore rivoluzionario il singolo, la sua differenza, il suo desiderio: “siamo corpi indecorosi e liberi”; “il corpo è mio, decido io”; “di sicuro vogliamo fare sesso, contro ogni fascismo facciamo un’orgia adesso, contro il decoro facciamolo più spesso”, sono alcuni degli slogan del movimento transfemminista NUDM. I movimenti si riappropriano in tal modo di una serie di elementi portanti dello stesso sistema capitalistico odierno, tentando di farne una rilettura che ne stravolga la funzione: da pietra d’angolo che sostiene l’intera abitazione a faglia pericolosa che ne intacca le fondamenta.

Il valore dell’individuo, l’esaltazione della sua eccentricità (da mettere a profitto) e della sua diversità (quando risulti possibile armonizzarla con il sistema), la messa a disposizione di una libertà apparentemente illimitata, soprattutto per quanto riguarda la sfera sessuale, sono tutte ricette con cui però anche il neoliberismo garantisce la propria conservazione. Pensiamo a una capitale come Londra: puoi scendere in strada in giacca e cravatta oppure in pigiama; puoi essere coperta da un burqa oppure indossare una tutina in lattex; puoi avere la pelle di qualsiasi colore o averla totalmente ricoperta di tatuaggi; puoi essere una drag queen o un frate francescano. Nessuno ti noterà, nessuno ti indicherà con il dito. Londra, allo stesso tempo, è una fra le città che maggiormente incarnano il modello economico neoliberista e i suoi riflessi sociali: l’individuo è il suo feticcio e a Londra deve sentirsi libero di fare tutto ciò che gli pare (salvo avere i soldi per permetterselo).

Qui sta la sfida di alcune frange del movimento: rileggere la funzione dell’individuo in senso anticapitalista. Qui sta anche il portato di novità che introducono nella prospettiva antisistemica: ci si distanzia dal modello sovietico omogenizzante e uniformante, ben espresso dalle miriadi di immagini di parate civili in URSS che abbiamo visto in altrettanti film hollywoodiani, dove tutti sono vestiti uguali, camminano allo stesso passo, hanno la stessa espressione stampata in faccia e all’unisono inneggiano al partito. All’omologazione e oppressione delle istanze individuali, si contrappone la coscienza del valore del singolo e della sua differenza; il bene collettivo si integra con il desiderio personale, che non viene necessariamente represso, anzi, viene proposto come miccia verso una liberazione collettiva.

ALL’OMOLOGAZIONE E OPPRESSIONE DELLE ISTANZE INDIVIDUALI, SI CONTRAPPONE LA COSCIENZA DEL VALORE DEL SINGOLO E DELLA SUA DIFFERENZA; IL BENE COLLETTIVO SI INTEGRA CON IL DESIDERIO PERSONALE, CHE NON VIENE NECESSARIAMENTE REPRESSO, ANZI, VIENE RIPROPOSTO COME MICCIA VERSO UNA LIBERAZIONE COLLETTIVA

Differenza è quindi valorizzazione dell’individualità e del desiderio da un punto di vista politico rivoluzionario e si traduce nel moltiplicarsi delle lotte che affiorano come un arcipelago nel mare della contemporaneità. Ritorniamo a questo punto alla domanda iniziale: cosa unisce questi isolotti apparentemente autonomi, cosa permette loro di riconoscersi sotto un unico nome? Esiste, prima di tutto, questa volontà di apparire come una terra unitaria, seppur sfaccettata? Questa domanda non trova per ora una risposta definitiva da parte dei diversi movimenti, i quali spesso non sono disposti a rinunciare alla propria autonomia, che rischia di tradursi in autoreferenzialità. E tutto a favore della forza di sussunzione del sistema: il mare inghiotte con più facilità un frammento di terra – sia pure un vulcano – piuttosto che un continente. Fuor di metafora: il femminismo che diventa la stampa su una maglietta di Dior, la multinazionale IKEA che introduce le coppie gay nelle sue pubblicità, esistono già. Come esistono le frasi a effetto della Apple che ti invitano a essere “foolish”: eccentrico, creativo, diverso, non integrato al sistema.

Una possibile strategia di ricomposizione delle battaglie è quella che NUDM sostiene attraverso il concetto di intersezionalità. Il suo significato è complesso e stratificato, in quanto l’ottica intersezionale, prima di identificare i nodi in cui si incrociano le diverse lotte, serve come strumento per interpretare l’individuo stesso. L’io, infatti, viene immaginato come attraversato da molteplici vettori. Sono le diverse e mobili identità che lo definiscono e che in certi casi possono diventare multipli motivi di oppressione. Ad esempio sono donna, bianca, proletaria, eterosessuale e vivo forme di emarginazione e violenza legate al mio genere e alla mia situazione economica; oppure sono uomo, nero, immigrato e omosessuale: le occasioni di oppressione si moltiplicano e si connettono a pregiudizi razziali e all’omofobia, oltre che – anche in questo caso – a una motivazione di tipo economico. Certo, se fossi un uomo africano omosessuale ma ricco, alcuni problemi verosimilmente si dissolverebbero; così come il benessere materiale può aiutare una donna di qualsiasi nazionalità a subire solo in maniera soft certe discriminazioni di genere. Ciò non deve stupirci: il denaro realizza le sue emancipazioni fasulle da sempre. Un riscatto reale passa per una presa di coscienza più profonda delle violenze subite, ovvero nel saperle leggere nella loro duplice natura: non solo personale o categoriale, ma sistemica. Se connetto le discriminazioni di genere, ad esempio, al DNA del sistema capitalistico, non posso immaginare di risolverle all’interno di questa configurazione economica. Devo ribaltare il tavolo, non mi basta diventare Hillary Clinton e pensare che tutte le donne supereranno il problema diventando ricche e potenti, una volta concessi loro i margini per una scalata meritocratica. In questo modo, infatti, non si farà altro che scaricare l’oppressione su categorie più deboli: migranti, disoccupati, indigenti.

L’intersezionalità quindi, dopo aver aiutato l’io a concepirsi nella propria stratificazione, guida a riconoscere nel sessismo, razzismo e classismo i tre pilastri portanti del mondo capitalistico. Secondo questo tipo di lettura – che rifiuta di identificare principalmente nel conflitto di classe l’elemento cardine della lotta al capitalismo – il sistema non si abbatte finché non si tagliano tutte e tre le sue gambe contemporaneamente. Sono legittimi alcuni dubbi: società maschiliste sono esistite ben prima della nostra (il feudalesimo, ad esempio); così come discriminazione e schiavizzazione del diverso strutturavano le civiltà antiche. Il modo di produzione, che determina la disuguaglianza di classe, pare invece essere davvero l’elemento peculiare del sistema capitalistico, un suo architrave, abbattuto il quale crollerebbe l’intero edificio: senza che per questo siano risolti gli altri problemi. Si pensi all’URSS e al machismo che non ha risparmiato quell’esperimento di comunismo. Sia chiaro: non si intende con questo discorso sminuire il peso che sessismo e razzismo hanno all’interno del mondo contemporaneo, ma si mette in questione l’idea che essi siano intimamente legati al sistema di produzione capitalistico. Contribuiscono al suo dominio, ed è necessario pensare a un modello sociale che li possa superare. Il fatto è che oggi lo stesso capitalismo avanzato cerca di integrare le differenze, valorizzandole (mettendole a valore) in un sistema di melting pot meritocratico. L’unica differenza che il capitalismo non può risolvere senza il rischio di smaterializzarsi è la disuguaglianza economica, la classe. Certo, resta irrisolto il problema del cosa sia la classe oggi, di come si sia trasformata, di quanto incidano razza e genere nel rendere più complessa la sua definizione, e di come sia identificabile all’interno di un sistema di produzione che ha parcellizzato e diviso i lavoratori: fisicamente e a livello di autopercezione. Siamo tutti imprenditori di noi stessi e quindi in competizione; già a scuola – in ossequio alle direttive dei nuovi decreti legge – ci hanno insegnato che siamo individui e non collettività (si rimanda all’articolo La norma del superdotato all’interno di questo numero), che siamo particolari e dobbiamo mettere a valore le nostre doti personali, allenandole verso la competenza massima dell’imprenditorialità. Parlare oggi di classe e della sua centralità conflittuale non è quindi affatto semplice: l’idea è trovare il modo di ricostruirla.

PARLARE OGGI DI CLASSE E DELLA SUA CENTRALITÀ CONFLITTUALE NON È QUINDI AFFATTO SEMPLICE: L’IDEA È TROVARE IL MODO DI RICOSTRUIRLA

Andando oltre i dubbi espressi, il pregio della prospettiva intersezionale sta ad ogni modo nell’idea che sia necessario porre in luce un minimo comune denominatore che unifichi le diverse battaglie; le quali, nella loro peculiarità, non si devono pensare come isolate se non vogliono essere sedate con un contentino, del tipo: “fai pure la parata del Pride, mettiti in maschera e goditi il tuo carnevale”. Si sa, però, che dopo la festa che ha rovesciato il mondo, che ha lasciato sfogare i folli e incoronare i pezzenti, torna l’ordine repressivo e tenace.

L’intersezionalità, cosciente delle arti di sussunzione del capitale, cerca di dare una risposta teorica alla necessità di riconnettere un panorama di lotte diversificate. Ma come la si realizza nella prassi? Sembra infatti che la capacità di sentirsi partecipe di battaglie diverse, sia dentro di sé che nella società, sia affidata a una scelta etica; è delegata alla sensibilità del singolo la responsabilità di fuoriuscire dalla differenza portata avanti dalla propria categoria per incontrarsi con le altre e sondare il terreno comune su cui si muovono: perché io, transessuale, bianca e benestante, dovrei riconoscermi nella battaglia dei facchini immigrati? O viceversa. (Il dialogo con alcune attiviste di NUDM Padova ci ha permesso di approfondire questo nodo problematico. Rimandiamo quindi all’intervista nella sezione Voci di questo stesso numero, per un confronto aperto sull’uso del concetto di intersezionalità).

Se NUDM si dichiara marea, conservando in questa figura per lo meno la tensione verso la fusione delle singole gocce in un tutto maggiormente coeso ed efficace, un’altra parte del movimentismo di stampo antisistemico preferisce riconoscersi nel frammento che non si domina, che resta irriducibile e unico. Il vero elemento rivoluzionario viene quindi identificato nella moltitudine disgregata, nella singolarità metamorfica, nell’individuo che non viene mai trasceso da un qualcosa di più ampio, come una comunità o uno stato. Le varie soggettività si fanno direttamente carico dell’azione politica, negando ogni forma di delega e rappresentanza. Il moto è spontaneo e centrifugo, non si struttura, ma si genera quasi naturalmente e procede verso la realizzazione di una collettività nuova, da intendersi come luogo di una più radicale individuazione, come rete di individui indipendenti e non come unità omologante. Siamo al tripudio della differenza, a quanto pare, celebrata in sé come momento avanzato della lotta al capitalismo, senza che sia necessario alcun gesto di ricomposizione. Gli uomini-atomo non hanno bisogno di identificare alcuna caratteristica che li accomuni per muoversi nella stessa direzione a danno del sistema: prima di tutto ciò risulterebbe impossibile perché la loro stessa identità è mobile, costantemente in trasformazione e quindi indefinibile; in secondo luogo essi non vedono nell’unità la meta da raggiungere, bensì la premessa da cui parte il movimento di soggettivazione. Essa risiede fondamentalmente nel simile fondo biologico che ci contraddistingue: il corpo, la carne. È ad ogni modo uno stadio arretrato della lotta, non va perseguita oltre. Seguendo un simile ragionamento parrebbe che la rivoluzione sia a un passo da qui, che stia per compiersi. La sua ultima incarnazione è stata ad esempio indicata nel movimento spontaneo dei Gilet Jaunes: una specie di mostro senza testa che si muove in maniera tentacolare per lo stato francese, mettendo in crisi le istituzioni, senza lasciarsi catturare dalle malie di alcun partito. Un contropotere che si organizza unicamente dal basso, che non punta certo, nella sua sovversività, a fondare uno stato socialista, ma alla democrazia assoluta. Così almeno viene descritto sulla piattaforma Euronomade, megafono di una parte del movimento, senza che sia fatto accenno alle problematiche che potrebbero sorgere dalla composizione politica estremamente varia e anche conflittuale dei Gilet. Certo, se la prospettiva non va oltre il momento dello scontro o coincide con il perenne flusso magmatico e caotico degli individui, di ciò non ci si deve preoccupare. Non bisogna ricostruire nulla che abbia una forma.

Marea e moltitudine sono quindi le immagini attraverso cui possono essere sintetizzati due atteggiamenti del movimentismo che si riconosce all’interno di politiche della differenza; in sé racchiudono valutazioni dell’attuale momento storico e soprattutto prospettive diverse, in particolare riguardo all’esigenza di una ricomposizione delle lotte in funzione antisistemica.

Ciò che comunque accomuna gran parte dell’area del movimento è un certo fastidio verso l’organizzazione strutturata della prassi politica. Qualsiasi forma di gerarchia viene stigmatizzata a favore del concetto di orizzontalità assembleare; la mediazione è sostituita dalla responsabilizzazione personale; la soggettività e lo spontaneismo sono riconosciuti quali motore dell’azione collettiva, la pluralità è solo indice di conflittualità diffusa e capillare. Lo stesso sciopero transfemminista dell’8 marzo è stato costruito attorno a una campagna che insisteva sull’autodeterminazione delle modalità di protesta a seconda dei contesti e delle possibilità di ciascuna, senza alcuna sovradeterminazione da parte delle assemblee, le quali a loro volta si configurano come spazio in cui a ogni voce viene riconosciuto lo stesso peso. In vista delle elezioni europee, inoltre, NUDM ha ribadito la propria distanza da qualsiasi partito politico a caccia di voti, sottolineando la crisi delle istituzioni e la loro incapacità di aggregare dal basso: “Questa autonomia è la nostra forza e a partire da qui abbiamo rifiutato e rifiutiamo ogni forma di gerarchia e delega, facendo dell’orizzontalità e del consenso assembleare la base della nostra pratica politica”.

I motivi per criticare la forma partito e le istituzioni ci sono tutti e sono innegabili. Ad ogni modo resta da chiedersi se una volontà rivoluzionaria, che punti a una trasformazione radicale della società, possa identificarsi in una corrente spontanea, plurale, molteplice, incontrollabile. Il sistema dall’altra parte è infatti forte, radicato e ben organizzato. E seppure – per un caso fortuito e inaspettato – la scintilla rivoluzionaria riuscisse a scoccare dal caos magmatico di insoddisfazioni plurali, come si penserebbe poi di ricostituire il tessuto sociale nuovo, opponendosi a ogni tipo di struttura? Questo vale tanto per la società, quanto per l’individuo. Il soggetto libero, metamorfico, che scavalca i confini di ogni definizione perché sempre in movimento, può veramente vivere al di fuori di qualsiasi norma che lo renda riconoscibile a un gruppo e partecipe della sua vita comunitaria? Il transfemminsimo, ad esempio, ci ha insegnato che la norma non rappresenta un’istituzione immutabile, non è una legge naturale ma una formazione storica, artificiale e quindi modificabile. Ciò è sacrosanto. Modificabile, ad ogni modo, non significa eliminabile. Le norme si ricostruiscono costantemente (tanto quanto le gerarchie): negarlo equivarrebbe a perdere la capacità di vederle e quindi a non riconoscere potenziali nuove forme di oppressione.

Esiste un mondo, in definitiva, che possa immaginarsi privo di qualsiasi forma di repressione, intesa nei termini di norma, regola, struttura? Forse la libertà assoluta è una chimera, almeno in un’ottica di integrazione del singolo individuo in una comunità.

La politica della differenza insegna che nella lotta per un sistema alternativo non deve venire schiacciato l’individuo e la sua peculiarità, e va in tal modo a risignificare termini già da tempo colonizzati dal neoliberismo per riappropriarsene; allo stesso modo concetti come struttura, norma e gerarchia possono venire riletti e non semplicemente negati. In particolare se la prospettiva rivoluzionaria non è un fuoco d’artificio o un gioco retorico, ma un progetto di lunga durata che vuole resistere e consistere.