4. Parole

Saper comunicare è importante; l’affermazione è così scontata che per essere riconosciuta vera non è necessario tirare in ballo grandi teorizzazioni sulla formazione dell’opinione pubblica, sul controllo dei media, sul quarto potere o sulla pervasività di internet. Chiunque faccia politica dal basso sa bene quanto sia importante saper penetrare la sfera pubblica. Il problema del linguaggio, delle retoriche e delle estetiche da utilizzare ci accompagna ogni giorno: ogni volta che si rende necessaria la locandina per un evento; ogni volta che si distribuiscono volantini; ogni volta che bisogna presentare l’ospite di un dibattito; ogni volta che si deve caricare un video su YouTube o gestire una pagina Facebook; ogni volta che ci chiediamo come far circolare analisi, informazioni, concetti.

Da una parte c’è la questione del medium: con che mezzi è possibile comunicare? Questo aspetto è anche duramente materiale: avere o no accesso a radio, giornali, canali televisivi. Sono media novecenteschi, ma tutt’altro che tramontati e ininfluenti. Internet è, invece, accessibile anche con pochissime risorse; la qualità del suo utilizzo però non è solo tecnica, ma è anche legata alla disponibilità economica.

Altra questione – legata alla precedente – è quella dei contenuti e delle forme e anche in questo caso l’argomento è complesso. Possiamo fare analisi su Facebook? Quale uso bisogna fare di un blog? Che tipo di grafiche si devono utilizzare in un volantino? Certe parole sono ancora pronunciabili, senza provocare rifiuto o ironia nell’interlocutore? Possiamo continuare a farci questo tipo di domande ancora per molte pagine; tuttavia le risposte si trovano sperimentando senza preconcetti, senza attaccamento a feticci (compreso quello di affannarsi per innovare continuamente), con la consapevolezza che le soluzioni saranno inevitabilmente provvisorie.

Focalizziamoci sulla gestione comunicativa della piazza o della strada in tutte le occasioni in cui si organizza una manifestazione, un presidio, una critical mass, un flash mob, ecc. Eventi simili presentano caratteristiche peculiari, anche dal punto vista delle necessità comunicative. Innanzitutto si riflettono sul resto dei mezzi di comunicazione senza che sia possibile controllarne i modi. Inoltre, rappresentano un punto di condensazione, simbolica e non solo, delle attività politiche che precedono e seguono tali eventi. Infine, si tratta di occasioni che tendono a essere percepite come una fototessera dell’identità dei movimenti, sia dagli stessi manifestanti sia dell’opinione pubblica.

Facciamo un passo indietro. Perché si manifesta? O, meglio, a chi ci si rivolge quando si manifesta? Lo spettro dei destinatari non rimane invariato in ogni occasione, ma lo si può stilizzare. Che sia per solidarietà o opposizione, per sollevare un problema o respingerlo; ci si rivolge alle istituzioni, agli avversari o agli alleati. Ci rivolgiamo anche a noi stessi, perché anche noi abbiamo bisogno dell’evento, di vederci e riconoscerci, contarci e farci forza, sfogare la rabbia e caricarci di gioia. Necessitiamo di portare su pubblica piazza le attività che spesso facciamo in sordina. In tutto ciò, però, ci rivolgiamo anche all’opinione pubblica, per influenzarla, ma anche per fare in modo che smetta di essere solo opinione pubblica e diventi consenso, magari attivismo politico. Questo è il fronte che più spesso mistifichiamo e su cui più spesso siamo insufficienti. È inutile pensare di poterci rivolgere in modo indifferenziato a tutta la popolazione, il destinatario va ogni volta individuato e per certi versi creato. Quindi contenuti e forme sono selettivi, scelgono il proprio interlocutore.

In fin dei conti è facile (relativamente) rivolgersi contemporaneamente alla propria parte e agli avversari; entra in gioco il classico meccanismo della costruzione di identità (della soggettivazione) per differenza: se dipingo il nemico saprò chi sono io. Se Salvini sta per arrivare in città mi basta adottare un tono muscolare da antifascismo militante «Salvini non può mettere piede in questa città, ci siamo noi a presidiarla»; «Salvini non sei il benvenuto»; «Questa città è antifascista e antirazzista». Da questo punto di vista, non serve essere molto acuti, possiamo anche vestirci tutti di nero, scrivere uno striscione, accendere un paio di fumogeni e lanciare qualche coro «odio la lega»; ancora più facile se arrivano i fascisti dichiarati di CasaPound o Forza Nuova: «fascisti, carogne, tornate nelle fogne!». Se poi la celere carica verrà denunciata la violenza ingiustificata, sarà chiaro che la polizia difende i fascisti e mena gli antifascisti.

Chi ci guarda capirà? Quanti, anche con una sensibilità politica di sinistra, simpatizzeranno con noi? Quanti avranno il dubbio che siamo sempre i soliti – i soliti no-global, i soliti comunisti, i soliti dei centri sociali – esagerati e magari in cerca dello scontro? Quanti diranno «avete ragione, ma…»?

Una ragazza presente, seppur defilata, a molte manifestazioni lamentava l’atmosfera settaria e autoreferenziale di alcune occasioni, proprio quelle in cui il nemico (razzista, sessista, omofobo) fa la sua comparsa, soprattutto quelle in cui la celere si mette di traverso. Una sera avevamo occupato la piazza in cui i militanti di Forza Nuova avrebbero dovuto radunarsi. Eravamo colorati, avevamo gonfiato i palloncini, avevamo promesso alla Digos che avremmo lasciato la piazza prima dell’arrivo dei fascisti. Prontamente, con tono provocatorio (e a dieci millimetri dalla faccia), ci è stato detto «andatevene o vi bonifichiamo», qualche strattone, qualche minaccia di finire in questura. Non so se l’allusione alle imprese di Mussolini fosse voluta; la ragazza al corteo successivo urlava con tutti «celerino figlio di puttana». È evidente che non si può parlare a tutti, e chi vuole un mondo diverso deve anche educarsi ed educare a una diversità: il linguaggio qui ha la sua parte. Allo stesso tempo però non possiamo nemmeno essere vittime delle stesse rappresentazioni che ci vengono cucite addosso, non possiamo sperare che tutti facciano prima le nostre stesse esperienze per comprenderci.

Forse dovrebbe essere l’opposto: il nostro linguaggio dovrebbe permettere l’accesso ad alcune esperienze e non prevederle per essere compreso.

Una manifestazione comunica in vari modi. Innanzitutto ci sono i manifestanti con i loro corpi, gli accessori, i vestiti, la capigliatura; insomma con tutta la loro estetica. Da un documento riservato è emerso che alcuni addestratori appartenenti al corpo delle forze speciali statunitensi impegnati in Siria si adoperassero per diffondere informazioni utili agli oppositori di Assad; gli esperti della repressione davano anche consigli sulle strategie più opportune per la buona riuscita delle manifestazioni di piazza. Oltre a dare informazioni molto pragmatiche su come proteggersi da manganellate e lacrimogeni (poi arriveranno le pallottole vere), si impegnavano a suggerire alcune piccole strategie per accattivarsi l’opinione pubblica mondiale. Scendete in piazza colorati, portatevi dei fiori, portate bombolette spray colorate; potrete comodamente accecare i poliziotti senza sembrare dei bruti violenti. Anche i corpi, i vestiti, i colori con cui riempiamo una piazza fanno la loro parte, sicuramente sono uno strumento di riconoscimento, come facciamo a capire chi sono i nostri altrimenti? In sintesi servono tutta una serie di riferimenti, anche simbolici, per poter capire di essere dalla stessa parte, per poter continuare ad aderire a quella parte; la necessità di rivolgersi agli stessi manifestanti non è per nulla secondaria. Il pugno chiuso è servito (e serve) anche a questo: senza tante parole, senza andare per il sottile, capisco che chi è in piazza la pensa come me e aderisce alla mia stessa visione del mondo. Se oggi vedo qualcuno con il pañuelo fucsia già so da che parte sta. Nonostante questo, resta fondamentale anche la capacità di rivolgersi all’esterno, ossia di coinvolgere e persuadere parte dell’opinione pubblica. O almeno così dovrebbe essere se si intende la manifestazione anche come un’occasione per moltiplicarci: si tratta della necessità di avere un immaginario e una narrazione in grado di unire gli attivisti e, contemporaneamente, di coinvolgere nuovi soggetti.

In manifestazione, inoltre, si comunica con la scelta dei percorsi, della musica, delle attività che riempiono la manifestazione. Si comunica, ovviamente, anche con le parole. In generale i punti più problematici sembrano poter esser ricondotti all’impostazione binaria di tante occasioni – noi, loro – che sfocia in: atteggiamenti oppositivi, provocazioni festose e nel ricorso a una lingua settoriale.

Spesso emerge l’autoreferenzialità dei linguaggi di piazza, più rivolti agli stessi militanti o, nei casi in cui si presenta, al nemico. Il problema non si può eludere tanto in fretta, non si possono far battutine sull’autoreferenzialità o il settarismo: sia perché chi dedica il suo tempo all’impegno politico merita rispetto; sia perché non si tratta di colpe morali da attribuire con leggerezza, ma di ostacoli politici da superare. Ai tuoi devi parlare costantemente, i tuoi sono in piazza e devono riconoscersi. Se cambi le tue parole, o il ritmo con cui scandisci un intervento al megafono, o il modo di sfilare per una piazza, rischi di essere scambiato per straniero e ritrovarti solo. Eppure resta l’esigenza di persuadere e di far aderire altri destinatari, pena la stessa perdita di senso in ciò che facciamo. Rivolgersi, in modo efficace, a due destinatari che non sono in opposizione richiede riflessioni profonde e sperimentazioni.

Il cemento primo dell’autoreferenzialità sta nel rimando – attraverso i cori, gli slogan, gli interventi al microfono – all’area semantica della guerra. Gli interventi ribadiscono la necessità di «avanzare»; «conquistare terreno»; «non mollare neanche un metro»; «riprendersi le strade»; «resistere»; «dare battaglia»; «fare la lotta». Il tono stesso degli interventi, spesso, scandisce con rabbia la nostra posizione pronta al conflitto, fa percepire un tono di minaccia: «che questi cazzo di antiabortisti abbiano paura». L’area semantica della guerra è poi ribadita dai cori e dagli slogan impressi su striscioni e cartelloni: «l’antifascismo mena»; «ogni sgombero sarà una barricata».

Il rischio dell’autoreferenzialità non sta nella presunta irrazionalità di simili affermazioni o nel loro legame con pulsioni violente. Al contrario il richiamo alla guerra ha motivi storici, non è solo retaggio. Rimanda a una tradizione che ci ricorda quanto sulle nostre vite si stia consumando un conflitto e di come sia necessario assumerlo e non subirlo. Spetta proprio a chi fa politica dal basso saper ridare legittimità alla conflittualità come chiave di accesso a una realtà diversa. Eppure il problema persiste, pochi sono in grado di capire simili ragioni: i più non capiscono l’idea di conflitto, la confondono con un semplice sinonimo di violenza; l’affermazione «siete fascisti di sinistra», nella sua falsa coscienza, tocca tali nervi scoperti. La nostra società si dichiara pacificata, racconta che fuori dalle regole democratiche esiste solo il caos informe. I più ci credono. Si nasconde così che la democrazia liberale non è l’unica forma politica possibile e che, perdipiù, essa stessa poggia su una quota di violenza: l’imperialismo statunitense, con la potenza del suo esercito, la pervasività delle sue multinazionali, il ricatto del suo dollaro, ne è l’immagine più evidente. Possiamo dire di aver ragione e che sono gli altri a non capirci; ma tanto varrebbe dichiararsi gli ultimi superstiti di una riserva indiana: siamo sconfitti e non crediamo di poter vincere. Oppure, se gli interlocutori che abbiamo scelto non ci capiscono ma crediamo reale il cambiamento che proponiamo, ammettiamo di non saperci spiegare o, almeno, di cadere vittima delle rappresentazioni che ci vengono cucite addosso, riuscendo solo in alcuni casi a rifunzionalizzarle.

Altre perplessità sollevano le provocazioni festose, visibilissime durante i vari pride, ma presenti in ogni occasione in cui in primo piano vi siano le tematiche del genere e dell’orientamento sessuale. A fianco di cartelloni ben riusciti e canzonette efficaci («l’autodifesa si fa così: lo aspetti sotto casa e poi lo lasci lì») si vedono e si sentono tanti: «confini aperti come i nostri culi»; «veniamo ovunque»; «lotta anale contro il capitale». Lo stesso striscione d’apertura del corteo di NUDM a Verona – in occasione del congresso mondiale delle famiglie – rimandava a questa serie di scelte comunicative. Contro le destre e gli ultra cattolici il corteo avanzava «un orgasmo vi seppellirà».

Piccole provocazioni, un po’ di scandalo, ma per chi manifesta gioia e liberazione. Nonostante il sicuro guadagno interno (enorme nella giornata di Verona), non può essere esagerato chiedersi – di volta in volta, non in modo astratto – se il gusto della provocazione vada oltre sé stesso, se si riesca a farne un uso politico (per approfondire questo aspetto rimandiamo alla sezione Voci e all’intervista fatta a NUDM). Conosciamo l’effetto provocato dalla messa in mostra del seno femminile durante le lotte degli anni ’70; riusciremo oggi a ottenere gli stessi risultati (in termini di uso politico dello scandalo) in un contesto in cui il nudo è sdoganato e il corpo è esibito come merce sessualizzata? La trasgressione purtroppo scade in fretta, viene velocemente riassorbita e deve essere costantemente reinventata. Ne è un chiaro esempio la sorte de L’origine del mondo, opera del 1866 di Gustave Courbet che raffigura un sesso femminile in primo piano. Il quadro è stato a lungo esposto coperto da una tendina o da un’altra tela. Ora è tranquillamente esibito al Museo d’Orsay. L’efficacia delle scelte è da considerarsi concretamente, nelle sue occasioni specifiche. Pensavamo che parlare di «oppressione patriarcale», «sfruttamento capitalista» fosse impossibile, abbiamo visto però che in alcuni casi (nelle situazioni giuste) dirlo strappa consensi inaspettati.

Nelle manifestazioni, infine, una parte comunicativa importante – da assommare al resto delle scelte espressive – è costituita dagli interventi al microfono. Anche questi non devono scivolare nell’autoreferenzialità, sia nelle piccole occasioni in cui i passanti possono fermarsi ad ascoltare, sia in generale perché quegli interventi saranno pubblicati online.

«Oggi abbiamo preso coscienza che i nostri corpi migranti sono corpi proletari, ci siamo soggettivati in classe antagonista contro la valorizzazione del capitale produttivo» non è solo retorica? Una follia se consideriamo che il discorso è stato pronunciato da un marxista davanti a una folla di facchini immigrati che (anche per difficoltà linguistiche) assolutamente non avranno capito nulla.

Noi sappiamo bene che eteronormatività e sessismo sono strutturali e vanno a braccetto con fascismo, razzismo ed omo-lesbo-trans-fobia; niente è indirizzato a distruggere i ruoli di genere che sono la base della violenza etero-patriarcale. Il nostro rifiuto di continuare a perpetrare il maternage di massa che la cultura patriarcale – così bene incarnata dal fascismo di ogni tempo – sta producendo una spinta reazionaria potente e strisciante. Il fascismo mette radici nella paura, paura di non poter più abusare di altre e altri per poter mantenere i propri privilegi, paura di dover guardare oltre sé stessi, oltre i propri recinti che diventano confini.

Un discorso così prende un’interpretazione giusta e la rende impossibile da recepire, se chi ascolta non è già un militante o uno studente dell’università abituato a simili argomentazioni. Il discorso si struttura su termini specifici, alcuni di difficile decifrazione (eteronormativitàmaternageviolenza-eteropatriarcale), altri politicamente carichi (sessismofascismorazzismoomo-lesbo-trans-fobiaspinta reazionaria), a cui si aggiunge una chiusura che crea un salto analogico tra i confini dell’io e quelli del sistema politico. I termini fortemente connotati si pongono come rapide chiavi di accesso a un’interpretazione della situazione, d’altra parte sono anche ostacoli, sia linguistici che ideologici. Se chi mi ascolta non la pensa già come me di sicuro non si farà persuadere, piuttosto si troverà davanti a un muro di parole che fatica ad accettare; magari accetterà un paio di termini orientati politicamente (sessismo; trans-fobia), forse se ne approprierà; ma, se esagero, creerò un effetto di asfissia e il mio discorso sarà rifiutato in quanto fazioso. Un discorso simile non è fatto per spiegare: tolti i termini settoriali non resta che un pugno di sabbia, ripete il già noto e non convince nessuno che non sia informato. Gli unici che possono capire sono gli stessi manifestanti che già sanno e condividono le stesse argomentazioni. In quest’ottica rischia di essere una retorica autoreferenziale, una gabbia da cui bisogna uscire.

Lo scivolone colpisce particolarmente perché il discorso cade in un 25 Aprile in cui la Resistenza è stata riattualizzata con la battaglia femminista, un 25 Aprile che ha emozionato con il racconto di storie di donne resistenti e appassionato con O bella ciao cantata tutta al femminile, un’occasione in cui si era riusciti a rompere la vuota ritualità.

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