4. Subalternità materiali e culturali

Ritorniamo così alle questioni poste nell’introduzione: è possibile lottare sul piano economico, senza che ci si dimentichi quelle diseguaglianze (di genere di razza) che non sono strettamente legate al modo di produzione capitalistico? Oppure è meglio distinguere bene i diversi fronti (lavoro, migrazione, genere), senza farli incontrare mai? Rispondere a queste domande oggi significa prima di tutto capire che subalternità materiale e culturale (di genere e di razza) si innestano sempre l’una sull’altra, in rapporto simbiotico. Non basta una rivoluzione culturale o una presa di posizione etica e collettiva contro le diseguaglianze, per debellare la subalternità. Potremmo per esempio chiederci quanto considerare subalterna, oggi, una donna di colore come Michelle Obama rispetto a certe lavoratrici afroamericane di Boston, licenziate nel 2013 per essere «troppo nere».

Patriarcato e razzismo agiscono sempre ai livelli più bassi della scala sociale, andando a diradarsi ai livelli più alti della stessa. Sono in poche parole istituzioni che il sistema capitalistico ha ereditato e ha saputo mettere a valore, ai fini del profitto (lavoratori e lavoratrici migranti come jolly a basso costo all’interno del mercato del lavoro) o del mantenimento e della regolamentazione dell’assetto sociale. 

In quest’ottica è necessario sempre partire dai cambiamenti dell’assetto produttivo e del mercato del lavoro. Prima di tutto per comprendere che funzione questi soggetti svolgano all’interno di una determinata fase del ciclo produttivo (il settimo uomo come operaio-massa; la lavoratrice la cui femminilità cristallizzata viene messa a servizio della terziarizzazione), in secondo luogo per capire a quali forme di sfruttamento essi siano soggetti. Un’individuazione tuttavia che non deve essere proposta né in un’ottica separatista (esempio: «i problemi delle lavoratrici donne sono completamente diversi da quelli dei lavoratori migranti») né assimilazionista (appiattendo le particolari disuguaglianze le cosiddette differenze), ma in un’ottica strategica nel tentativo di ridare soggettività politica a quella comunità di destino, da cui questa serie di articoli ha preso avvio.

Non è un compito semplice e l’analisi degli attuali sistemi produttivi ci pone di fronte a un quadro desolante non soltanto per le disuguaglianze di razza e di genere, ma anche perché le attuali forme di occupazione all’interno del mercato del lavoro prevedono pochi luoghi in cui i lavoratori si raccolgano sotto un medesimo tetto e di conseguenza possano rendersi conto di condividere interessi comuni. Sia dal punto di vista temporale (con la flessibilizzazione) che spaziale (tramite l’esternalizzazione della forza lavoro), le occasioni per creare forme associative tra i lavoratori, lavoratrici, migranti si riducono drasticamente, creando un arcipelago di isole non comunicanti.

PATRIARCATO E RAZZISMO AGISCONO SEMPRE AI LIVELLI PIÙ BASSI DELLA SCALA SOCIALE, ANDANDO A DIRADARSI AI LIVELLI PIÙ ALTI DELLA STESSA

È tutto perduto? Forse no. L’attuale atomizzazione non solo dei luoghi di lavoro, ma della manodopera stessa, molte volte contrattualizzata nelle forme della collaborazione esterna (attraverso l’apertura della partita IVA), si scontra per esempio con modalità di condivisione di uno stesso ambiente lavorativo, come nel caso del coworking. La necessità di combattere l’isolamento e di intessere relazioni lavorative e collaborazioni future, si accompagna anche con i primi deboli barlumi di resistenza informale e di presa di coscienza di interessi comuni: un generico senso di fratellanza tra questo particolare tipo di lavoratori si può trasformare in una pratica reale di conoscenza e di salvaguardia dei propri diritti, in una preliminare condivisione di problemi che può successivamente portare a un’azione di tipo politico. Questo non vale solo per i precari e le precarie native, ma anche per i lavoratori migranti, oggi sfruttati soprattutto nel campo della logistica e della consegna di prodotti just in time, lavoratori che hanno saputo, nel corso di questi anni, organizzarsi e resistere agli attacchi nei confronti dei loro diritti; ma lo stesso si può dire di tutte quelle lavoratrici migranti impiegate nei lavori di cura (badanti soprattutto): le troviamo nei parchi o nelle piazze cittadine nelle ore d’aria, parlando della famiglia lasciata nel paese d’origine, mostrandosi a vicenda le foto dei figli, ma anche lasciando spazio a in cui individuare strategie per la salvaguardia dei propri diritti di lavoratrici.

Sono tutti frammenti, isolati, non comunicanti la maggior parte delle volte. Manca qualcosa che li leghi assieme e che li trascenda a livello organizzativo. Manca una forza sindacale che abbia una voce per intervenire all’interno dell’opinione pubblica e che permetta di riconoscere una comunanza di interessi dei diversi lavoratori, tenendo tuttavia presenti le subalternità che tra essi esistono: che non veda il lavoratore autonomo come non “sindacalizzabile” o la lavoratrice migrante come l’ultima ruota del carro da rappresentare. C’è bisogno, oggi più che mai, di una forza che sappia collegarci, che trovi parole-chiave nuove per permetterci di riconoscerci, al di là delle differenze etniche e di genere, al di là del ruolo che ricopriamo all’interno del sistema produttivo; che ci insegni di nuovo a lottare.