«Chiunque dica che i soldi non comprano la felicità, semplicemente non ha idea di dove fare shopping», sono le parole, ormai fattesi aforisma e motto del consumismo contemporaneo, dell’attrice americana Bo Derek. Nella società postmoderna poche cose giocano un ruolo così centrale nelle nostre vite come l’atto del consumare, meglio declinato nella sua articolazione capitalistica dell’acquistare. Tale centralità deriva anche dal fatto che l’attività del consumo è oggi intimamente legata ai processi di creazione dell’identità e alla conseguente produzione di un senso di sé.
In misura sempre maggiore, quando consumiamo – e questa sarebbe una fondamentale differenza del consumismo moderno rispetto alle varianti tradizionali – non ci limitiamo a soddisfare bisogni e necessità, ma acquisiamo degli immaginari e dei significati e allentiamo pulsioni psichiche, per dirla con Freud. Il piacere e la gratificazione che derivano dal consumo passano più per canali emozionali che non per stimolazioni sensoriali. Il piacere è strettamente legato alle capacità degli individui di speculare su quali gratificazioni potranno trarre una volta che l’oggetto del desiderio sarà stato consumato e questo comporta che il momento dell’acquisizione in sé possa agire come un momento di disillusione, spingendo l’individuo a spostare il desiderio su qualche nuovo oggetto.
L’esperienza del consumo – dalla formazione del desiderio agli sforzi messi in atto per il soddisfacimento – avrebbe un peso maggiore, rispetto al prodotto effettivamente consumato/acquistato, nel determinare il grado di soddisfacimento prodotto. Il consumismo è la sclerotizzazione di questa dinamica: un aumento dei consumi, sostenuto in gran parte dal parallelo mercato pubblicitario, con effetto espansivo sulla produzione e l’induzione costante del bisogno di nuove e ulteriori gratificazioni mediante consumi.
Il mercato si adegua e come un’ombra – anche se questo è sicuramente uno di quei casi uovo-gallina in cui è difficile stabilire qual è l’ombra e quale invece il corpo che la proietta – segue i nostri desideri, li soddisfa e li alimenta.
Il consumo può essere quindi osservato a tutti gli effetti come un’esperienza, un’esperienza che, come il mangiare, il dormire e il navigare (sul web), ricopre un posto sempre più centrale nella nostra società. Studi sociologici mettono in luce come proprio lo “stile di consumo” – di tempo e di denaro – starebbe sostituendo il lavoro come attività sociale strutturante nuove forme di identificazione e di stratificazione. Il consumismo non è solo una sovrastruttura economica, è il modo – o almeno uno dei modi principali – in cui la nostra società funziona e si struttura. I prodotti sono simboli carichi di significati, il consumo stesso è un’attività simbolica che segna la nostra appartenenza ad una precisa visione del mondo. Attraverso l’esperienza del consumo sosteniamo – e modifichiamo – l’immagine di noi stessi, ci collochiamo nell’intelaiatura societaria e, eventualmente, tentiamo di modificare le nostre circostanze sociali. La circolazione, l’acquisto, la vendita, l’appropriazione di differenti merci simboliche costituisce oggi il nostro linguaggio; il linguaggio attraverso cui l’intera società comunica e mediante cui codifica e interpreta il suo ambiente.
Se quanto appena detto, circa la tracimante pervasività dell’esperienza del consumare, può essere letto come una presa di consapevolezza dei meccanismi nei quali ci muoviamo, come un disvelamento di categorie interpretative prima, magari, naturalizzate; dobbiamo anche prendere atto del fatto che – come in altri casi – il mercato era già sul luogo quando siamo arrivati. Oltre al tribal marketing infatti, una nuova e appetitosa tecnica di marketing prende il nome di marketing esperienziale. Il marketing esperienziale non ha certo introdotto l’elemento dell’esperienza nell’atto del consumo, ha però compreso la sua importanza, la possibilità di trattare l’atto del consumo come un’esperienza per rilanciare ulteriormente il movimento della valorizzazione del valore.
Sfogliando articoli del Journal of Consumer Marketing, una rivista di riferimento per gli interessati alle alternative più “tecniche” del dibattito sul marketing, leggiamo che:
Fino ad ora, i principali sviluppi del marketing esperenziale suggeriscono che i marketers dovrebbero provare a potenziare tutti gli aspetti e le dimensioni dell’esperienza per ottenere un vantaggio competitivo. Per esempio, Pine and Gilmore mettono in luce il bisogno per i marketers di creare un’esperienza di intrattenimento, di evasione, di apprendimento ed estetica per attrarre e vincere consumatori.
In linea con le strategie del marketing esperienziale, una volta individuate le dimensioni dell’esperienza del consumo – tra le principali nella manualistica troviamo l’edonismo, l’immersione, l’evasione, l’apprendimento, la sfida, la socializzazione e la communitas – i marketers dovranno procedere a compensare eventuali mancanze e debolezze. Il fine è quello di far fronte a quelle lacune che rendono l’esperienza del consumo non all’altezza delle altre esperienze che un soggetto può fare liberamente, magari senza ricorrere al mercato, nel suo ambiente sociale e di vita.
Immaginiamo lo shopping, attività e/o passatempo che – dopo la vetrina – più si è guadagnato il posto di simbolo rappresentante il consumismo. Applicando il marketing esperienziale, in riferimento ad una specifica struttura o area commerciale, il marketer potrebbe rilevare una carenza di communitas: quando si fanno acquisti in quei negozi manca la sensazione di appartenere ad una comunità più ampia. Il marketer dovrà quindi trovare il modo di sopperire a tale mancanza, ad esempio riorganizzando gli spazi e ricorrendo a particolari slogan e immaginari; andare oltre la semplice transizione commerciale, ed ecco comparire dunque aree per lo sport, sale per l’ascolto e la cucina, stanze per la meditazione all’interno degli spazi vendita più al passo con i tempi.
Ovviamente, le ragioni per cui il marketer dovrebbe favorire il senso di comunità, o altre dimensioni, sono le ragioni del mercato, la finalità non è garantire un’esperienza di qualità ma l’incremento dei profitti. Tornando alla nostra rivista di marketing: «L’esperienza del consumo viene creata nella mente dei consumatori, che in risposta valutano, si impegnano in azioni e formano intenzioni future circa l’attività di consumo».
Le conseguenze dell’esperienza di consumo che vengono maggiormente ricercate sono la satisfaction, la nostalgia intensity; queste sensazioni spingerebbero i consumatori al desiderio di esperire nuovamente quella particolare esperienza, come appare evidente dal WOM, acronimo di words-in-mouth, un indice della propensione dei consumatori di condividere storie e aneddoti sulla loro esperienza di consumo con familiari e amici. Il consumo è trattato come un’esperienza tra le altre, l’obbiettivo è rendere l’esperienza del consumo sempre più coinvolgente, memorabile e attraente. Su marketing arena, sito che si occupa di marketing, leggiamo che:
Per costruire esperienze si deve agire su tutti gli strumenti che riguardano il marchio, dai punti vendita, al personale, a internet. La base per raggiungere gli obiettivi del marketing esperienziale è una buona progettazione che, attraverso la scelta degli strumenti più adatti possa portare alla creazione di un’esperienza di consumo ricca di valore per chi la vive.
Il focus non è sul prodotto, ma sull’atto del consumare in sé. L’acquistare è sempre meno mezzo e sempre più fine, e viene valorizzato in questa direzione. L’atto del consumare si fa esperienza sempre più centrale delle nostre vite, e la sua estensione è totalmente esaurita in un mercato che pone tutti i consumatori in competizione tra loro per l’acquisizione di capitale simbolico, producendo identità e differenze.
Considerata come un capolavoro del marketing esperienziale, la campagna promozionale della compagnia aerea Virgin Atlantic propone una serie di pubblicità centrate sul celebre slogan: “Flying in the face of ordinary”, letteralmente “viaggia alla faccia dell’ordinario”. In una delle ultime pubblicità, vediamo delle persone che, “in un giorno qualunque”, come viene scritto in sovraimpressione, decidono di sostare su una panchina che ha “qualcosa di differente da tutte le altre”. Una panchina rossa che spicca sull’ordinario grigiume del resto del quartiere. Una volta preso posto, l’ignaro cittadino viene coinvolto in un’esperienza inaspettata: servito da eleganti camerieri, piatti prelibati e champagne, può scegliere un film, che verrà recitato da attori in carne ed ossa di fronte alla panchina, o ascoltare della musica, suonata per lui da veri musicisti. Il mercato irrompe nel quotidiano, dissolve l’ordinarietà e la monotonia portando esperienze più coinvolgenti, più stimolanti e più vere.
Fino ad ora ci siamo riferiti al consumo come esperienza, il ribaltamento dei termini consente di mettere in luce un altro processo, quello dell’esperienza come consumo: un’altra faccia della stessa medaglia.
Thomas Gilovich, riconosciuto professore di psicologia alla Cornell University, raccogliendo dati per quasi 20 anni, è giunto alla conclusione che “spendere soldi nelle esperienze offre una felicità più duratura”. Le conclusioni proposte da Gilovich sono tutto sommato ottimistiche: essendo le esperienze più complesse e fugaci delle cose materiali, questo le renderebbe ontologicamente più resistenti ai processi di mercificazione e alle tecniche di “lucidatura” del marketing, preservando quindi un maggior margine di libertà individuale e facendo del consumo di esperienze – in sostituzione al consumo di cose – perno per avviare percorsi di emancipazione dalle logiche materialistiche e consumistiche.
In secondo luogo, le esperienze – in quanto maggiormente slegate dalle dinamiche del possesso – ostacolerebbero quel confronto sociale che suscita invidia e svaluta immediatamente il potenziale gratificante di una merce consumata, alimentando la corsa per la competizione simbolica che sottende e sostiene il consumismo.
Ma le cose stanno davvero così? Bazarvoice, società americana di marketing digitale, conferma le conclusioni degli studi accademici, interpretandole, però, come un’opportunità. Infatti, se i nuovi consumatori sono maggiormente orientati al consumo di esperienze, il mercato dovrà e potrà rispondere a questa nuova e crescente domanda che non rappresenta altro che l’ennesima occasione per alimentare profitti ed estrarre valore.
Le esperienze possono essere ben lustrate e impacchettate come le cose, sono ugualmente mercificabili. Del resto, abbiamo visto, non è tanto la cosa in sé a fare la differenza quanto l’immaginario simbolico che vi si costruisce sopra; e questo potrebbe addirittura rendere le esperienze ancora più plasmabili delle cose, dato il superamento dei limiti imposti dalla materia.
Esemplificazione di questo florido “mercato delle esperienze” è Trips, la nuova proposta di Airbnb, piattaforma leader mondiale della sharing economy relativa agli alloggi. Con Trips, Airbnb si lancia nel cosiddetto “turismo esperienziale” promettendo di trasformare i nostri viaggi – dalle gite fuori porta alle avventure per il mondo – in esperienze intense e vivere così la vera essenza del luogo visitato, citando dal sito: «our guests should be able to fully take part in your experience by participating in two or more activities – not just observe them».
Su Trips quindi, la domanda di esperienze trova l’offerta costituita da proposte della “gente del luogo”. L’incontro è mediato dalla piattaforma che, di fatto – attraverso un sistema di feedback e recensioni – pone dietro all’ormai familiare maschera della neutralità algoritmica il giudizio del capitale. Proprio come in un qualsiasi “mercato delle cose”, sarà la vendibilità a stabilire quali esperienze meriteranno di rimanere in vetrina e quali invece prenderanno la polvere.
Anche per quanto riguarda la questione, sollevata da Gilovich, della fisiologica resistenza dell’esperienza al possesso e all’appropriazione, assumiamo una posizione quantomeno scettica. Davvero l’esperienza offre una naturale resistenza al possesso e all’appropriazione? Prendiamo l’immagine del “frigorifero ricoperto di calamite”: ogni viaggio dev’essere dimostrato, ogni esperienza certificata da un oggetto che la rappresenta, il frigorifero diventa la teca su cui riporre le proprie conquiste e da mostrare ai propri ospiti così come si mostra la nuova macchina o il nuovo divano. Alla base vi è il mito romantico del Wanderer, del viaggio come esperienza che trasforma il sé e lo arricchisce, il mito entra però in cortocircuito, il potenziale trasformatore dell’esperienza è riconosciuto e desiderato e si fa gara a chi si trasforma di più. In un contesto in cui tutti sono arricchiti da tali esperienze, l’imperativo diviene il renderne conto e la competizione si sposta sulla capacità di dimostrare le “avvenute” trasformazioni.
Con i social network la competizione si fa ancora più serrata, non solo i viaggi ma ogni esperienza – dimostrata attraverso un post, una foto, un video – contribuisce a rendere il nostro profilo, e quindi noi stessi, più interessanti. La pagina Facebook è un’ulteriore teca, le occasioni per competere mostrando agli altri la quantità e la qualità del nostro capitale simbolico si moltiplicano esponenzialmente, e un ulteriore passo in tal senso sono le stories, divenute celebri con Instagram ma ora adottate da molti altri “social”. Le stories mostrano istanti di vita – da una foto a un video di pochi secondi – che rimangono disponibili online per solo 24 ore: la quotidianità si fa vetrina, ogni giorno posso – e “devo” in alcuni casi – mettermi in gioco per mostrare quanto le mie giornate siano ricche di “vere” esperienze. La competizione per la differenziazione simbolica non si limita ad invadere il tempo libero ma, sempre più, viene a coincidere con esso.
Quindi, consumo come esperienza ed esperienza come consumo, due processi che, pur muovendosi da direzioni quasi opposte, si incontrano dialetticamente e si sostengono reciprocamente. Da un lato l’esperienza del consumo acquista una sempre maggiore centralità, il marketing esperienziale cerca di rendere l’atto stesso del consumare sempre più attraente, il mercato si fa canale sempre più coinvolgente attraverso cui organizzare i propri vissuti, originando processi di pedagogizzazione consumistica del desiderio; dall’altro lato, il mercato mercifica le esperienze e le mette in vetrina e in vendita ponendole come differenti dalle altre esperienze, le esperienze presenti sul mercato infatti appaiono come più appetibili, più lucide e più colorate delle esperienze che si possono trovare al di fuori di esso, colonizzando ulteriormente quello spazio sociale ancora esterno alle logiche capitalistiche.
Theodor Adorno, come già Aristotele del resto, riteneva che il progresso tecnico avrebbe consentito all’uomo di affrancarsi dal suo stato di subordinazione, quest’ultimo inteso primariamente come legato alla scarsità delle risorse da cui la necessità di faticare per procurarsele. Progressivamente liberatosi dal lavoro, l’uomo avrebbe guadagnato “tempo libero” – appunto il tempo in cui essere e agire in modo autenticamente libero – nel quale realizzarsi in quelle che sono le sue dimensioni fondamentali, la sfera relazionale e la sfera intellettiva. Nella sua ambiziosa visione, il tempo libero avrebbe dovuto essere la nostra principale opportunità per espandere e sviluppare noi stessi, per conquistare la nostra natura migliore e per acquisire gli strumenti con cui cambiare noi stessi e la società.
Tuttavia, guardando criticamente al suo tempo, Adorno si rese conto che il tempo libero, man mano che si estendeva, veniva progressivamente colonizzato dallo spirito di competizione capitalistico, dall’industria culturale consumistica e dalla fredda e cinica razionalità della produzione. Il “tempo libero” quindi, da terra promessa per l’espressione dell’uomo non alienato, si tramutava in ulteriore spazio di alienazione.
Passando ai nostri giorni, così come nelle retoriche del lavoro dello Humanistic Management, anche nel tempo libero il soggetto si esprime ma non si realizza; in entrambi i casi è messo al centro ma è libero di muoversi entro confini stabiliti nei quali, muovendosi, produce valore. Il soggetto produce valore nel mercato del lavoro e reinveste – nel mercato dei consumi – il valore di scambio ottenuto; il mondo del tempo libero, compreso quello delle esperienze e delle avventure, è gestito capitalisticamente.
In un momento storico in cui l’immagine del futuro è sempre più presente, in cui, in buona parte delle società occidentali, si parla frequentemente di riduzione dell’orario lavorativo e di reddito universale, e si fantastica su automazione e fine del lavoro, dovremmo provare domandarci quale forma assumerebbe quel tempo libero – e liberato – tanto anticipato e profetizzato.
1 reply to 5. Consumo come esperienza, esperienza come consumo
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