Critica e didattica della letteratura. I limiti del pensiero postcoloniale

La questione della revisione del canone, cioè della lista degli autori ritenuti indispensabili per una cultura e una tradizione, dibattuta anche in sede didattica, è stata avviata dagli studi postcoloniali e di genere secondo i quali la letteratura occidentale, considerata una parte della cultura, è vista foucaultianamente come una grammatica del potere occidentale o maschile, come documento di un progetto ideologico dominante e repressivo.

La scuola e l’università, nel contesto delle grandi migrazioni e dei conflitti del mondo globalizzato, non possono certo fare come lo struzzo e evitare il confronto con questa prospettiva, che mette radicalmente in discussione il peso specifico di ogni singolo autore canonico (ad esempio, Platone, Kant, Hegel, o Shakespeare, Dante, Goethe) oltre che quello degli strumenti utilizzati per “spiegarlo” e interpretarlo.

 Pur senza blindarsi nello splendore non durevole delle nostre tradizioni, occorre tuttavia saper valutare, insieme alla sua carica critica, il limite e il rischio di questa corrente teorica e delle sue “ricadute” didattiche. La categoria di studi postcoloniali condivide – nella sua stessa formulazione prefissoide – l’orizzonte dei post, vale a dire il presupposto di essere oltre (la fine della storia e delle ideologie). È nata a opera di studiosi di letterature comparate e di storici della mentalità, espatriati da paesi ex coloniali (dall’India all’Inghilterra, dall’Africa e dal Medio Oriente agli Stati Uniti). I più rilevanti sono Edward Said, palestinese, Homi Babha e Gayatri Spivak, indiani, che hanno vissuto in gioventù l’apogeo e il fallimento dei grandi movimenti di liberazione nazionale e che dunque hanno cercato di superare il marxismo terzomondista con apporti eterogenei (poststrutturalismo, Foucault, Derrida, nuovo storicismo). Questi teorici della cultura hanno complicato insomma la prospettiva della lotta di classe con le nozioni di soggettività, differenza, alterità. Said, ad esempio, ha chiamato orientalismo  l’immagine dell’Altro costruita dall’Occidente e basata su stereotipi e  pregiudizi funzionale alle strategie di dominio politico-economico. Trapiantate nei campus americani, queste prospettive hanno conosciuto negli anni Novanta una fortunata ricezione adialettica, polarizzata su due estremi: apologia o rifiuto. Per i professori conservatori si è trattato del puro “risentimento” da parte delle minoranze etniche e sessuali, distruttivo nei confronti dei valori culturali “alti” dell’università statunitense. Per i “democratici” dei campus, invece, smascherare l’ideologia del dominio nei testi letterari e emarginarli nel canone è stato il solo modo per valorizzare le differenze in sedi didattiche ufficiali.

 In un articolo apparso sul “Manifesto”, Remo Ceserani – uno studioso italiano di recente scomparso e molto attento alle teorie letterarie d’oltreoceano – ha raccontato un decennio fa lo sconcerto di una insegnante francesista e femminista americana davanti alle richieste sempre più banalizzanti delle sue stesse studentesse del ceto medio bianco. Nelle università americane, in cui si è praticata la prospettiva della differenza e degli Studies, gli studenti si aspettano ormai solo letture di testi che riflettano in modo semplicistico e immediato situazioni di repressione etnica o sessuale. Ne deriva da un lato una tentazione liquidatoria, non diversa da quella che circolava nel nostro ‘68 a proposito della letteratura, rifiutata dal movimento in nome della saggistica politica e, soprattutto, della prassi. Dall’altro canto, il multiculturalismo, con il conseguente meticciato, è stato visto euforicamente come grande occasione di libertà comunicativa. Questa opzione ideologica presuppone che le differenze e i meticciati siano di per sé agenti di liberazione, fenomeni di fuoriuscita culturalista dalle ipoteche delle funebri ideologie novecentesche. Il mercato globale, spostando interi popoli e ridisegnandone l’identità, implicitamente democratizzerebbe le culture, distruggendo le eredità del Novecento: identità oppressive, fanatismi e totalitarismi.

Il fatto è che il mercato non costituisce un’alternativa alle ideologie: è a sua volta un’ideologia. Presuppone infatti che l’universale umano non sia altro che il solipsismo mercantile. L’uomo sarebbe, a ogni latitudine, un animale aziendale, naturalmente disposto alla competizione e allo scambio monetario, alla lotta darwiniana e hobbesiana di tutti contro tutti. Inutile proporre degli innaturali vincoli solidali, come ha tentato di fare il socialismo novecentesco: si arriverebbe sempre e comunque al Gulag.

La letteratura, caparbiamente ambigua, ha tuttavia una sua specificità: trattata dai postcolonial studies come uno degli agenti simbolici del dominio, è invece uno dei pochi “discorsi” capaci di svelare il volto tendenzioso dell’odierno “pensiero unico”. Credo occorra insomma evitare sia la tentazione di leggere tutta la letteratura occidentale come “fiancheggiatrice” dell’ideologia bianca e maschile, che quella di far uscire la letteratura dal ghetto in cui si trova spacciandola didatticamente per una forma di pacificazione dell’immaginario col mondo, di allenamento al gioco della complessità multiculturale, estirpandone la radice indocile, tragica, aporetica, irriducibile. È proprio il riconoscimento della sua paradossale specificità e della sua indocile irriducibilità a tutte le ideologie, che può oggi riattivare una funzione minima ma vitale dell’esperienza letteraria e del lavoro umanistico.

Ad esempio, un intellettuale critico come Bourdieu, attento alle contraddizioni del dominio maschile, ha opposto al culturalismo delle differenze un paradossale corporativismo dell’universale (in Le regole dell’arte, 1989, pp. 425-437) propugnando, con una critica etica e simbolica, l’ambizione all’universale. L’intellettuale capace di smascherare la natura ideologica dell’attuale pensiero unico non coincide con il tuttologo culturalista ma con uno “specialista paradossale”, in grado di salvaguardare criticamente – nel frullatore del marketing – la specificità dei propri saperi.

Ipotizziamo ora, a fini esemplificativi, la costruzione di un percorso didattico, adatto al penultimo o all’ultimo anno dei licei, sul tema dell’Altro. Occorre partire dalla necessità di evitare le banalizzazioni: il discorso dell’alterità spesso ipostatizza la situazione dello straniero, dell’esule, del migrante. Questa tentazione per i docenti democratici è ancora più forte negli anni più recenti, come reazione alle politiche infami dei respingimenti e al sorgere di nuovi razzismi e sessismi di Stato. L’imperativo “alternativo” o democratico dell’educazione interculturale e delle differenze spesso porta purtroppo a eguagliare situazioni contestuali lontanissime. Occorre invece innanzitutto storicizzare. L’individuazione di cesure è un momento-chiave nell’opera dell’interprete-storiografo e anche del docente: una storia che dia conto dell’Alterità potrà partire a esempio dal cinque-seicento come esordio della modernità, davanti al problema di assimilare altri popoli e altri spazi entro la filosofia della storia occidentale. “Così come la Grecia antica prese coscienza di sé e della propria relatività nello scontro coi persiani, l’Europa moderna prese coscienza di sé e insieme della relatività, con la scoperta dell’America e con l’avvio imperialistico dell’unificazione planetaria”. (F. Orlando, L’Altro che è in noi, Bollati Boringhieri, 1996). Esiste insomma una terza via e  un diverso modo di guardare a come l’immaginario letterario ha   rappresentato  la condizione imperialista: diversa da quella egemone degli  studi culturali e postcoloniali, incapaci di distinguere la specificità della letteratura rispetto agli altri discorsi codificati dalle ideologie.

Prendiamo brevissimamente in esame tre testi letterari, lontani tra loro, dislocati fra Cinque e Novecento, appartenenti dunque a diversi momenti della storia della colonizzazione del mondo. Tutti e tre tematizzano la scoperta dell’America come momento chiave dell’incontro con l’altro non occidentale.

Tasso, nella Gerusalemme liberata, bolla come empia e mostruosa l’alterità amerinda, proseguendo una tradizione che da Plinio e dal Romanzo d’Alessandro arriva fino ad Ariosto. È la tradizione del selvaggio come “cannibale” , che troverà larga eco nel Caliban shakespeariano (ne La Tempesta), e che è all’origine della stessa imposizione del nome alle Nuove Terre: Caraibi . A un livello secondo, tuttavia, Tasso dà voce suo malgrado – in negativo – all’intero rimosso “corporeo” occidentale (Gerusalemme Liberata, canto XV).

Giuseppe Parini nel Mattino, mediante l’ironia illuminista, al contrario di Tasso denuncia, come avevano fatto Las Casas e Montaigne, lo sterminio degli indios e polemizza contro l’ozio e i privilegi dell’aristocrazia. A un livello secondo, più segreto, però, forse ammira l’epopea della conquista (secondo Chateaubriand, l’unica a stare alla pari con quella antica) così come non sa del tutto reprimere l’appetibilità edonistica dei lussi dell’Antico regime (i piatti coloniali, il caffè, la cioccolata).

 La poesia di Primo Levi Huayna Hapac (in Ad ora incerta, 1983) infine, apparentemente denunzia lo sterminio degli indios (visto come una sorta di preannuncio dei campi di annientamento nazisti), dando voce a un imperatore Inca sconfitto, mediante una maledizione biblica e una profezia di distruzione. L’avidità dell’oro inoculerà un veleno nel seno stesso dell’occidente, là dove l’uomo bianco “tiene in culla i suoi mostri”. Ma le metafore biologiche del mostro in culla e della contaminazione inoculata, rinviano al fondo notturno del pur controllatissimo e razionale Levi (le pulsioni animali, la cecità biologica della materia). La maledizione leviana riguarda insomma non solo la parte occidentale del mondo ma, leopardianamente, l’universalità dell’intero genere umano e i suoi limiti oscuri (l’ombra, insomma, che gli intellettuali illuministi hanno spesso ignorato).

 Oltre che storicizzare sempre, nelle situazioni didattiche occorre anche costantemente valorizzare la specificità della letteratura: il discorso letterario, grazie alla sua polisemia, in un’epoca unidimensionale, resta il solo a dare voce al represso, anche contro e oltre le intenzioni esplicite dell’ideologia – razzista, sessista o viceversa ‘democratica’ – dell’autore.

Si sentono spesso docenti obiettare desolati che a scuola “non c’è più tempo”. E a ragione. Ma nelle pieghe stesse dell’attuale terribile strettoia didattica, non bisogna rinunciare a condurre i lettori in formazione a cogliere nell’uno il molteplice, a scoprire che “c’è un’intesa segreta tra le generazioni passate e la nostra” (W. Benjamin). Per restituire al lettore la sua “forza critica verso il passato, il docente può di continuo, coi suoi studenti, rivitalizzare la ricchezza della scrittura letteraria. Riscoprire nei testi la coesistenza dialettica di contrari vuol dire in sostanza evitare di ridurre la letteratura (e la concreta esperienza umana, a cui sempre la letteratura allude), in nome della differenza, a mera vicenda di fiancheggiamento e di occultamento del dominio. Nel contesto delle nuove spaventose contraddizioni planetarie si può riaffermare che la complessità antropologica di homo sapiens, irriducibile alla merce, non è in fondo diversa dalla complessità dei testi letterari, la cui forma non è mai riducibile a una sola ideologia.

EMANUELE ZINATO

E’ critico letterario, ha scritto su gran parte degli autori del secondo Novecento italiano, prestando particolare attenzione al rapporto fra storia e letteratura, da un punto di vista sia tematico che formale. Insegna letteratura contemporanea all’università di Padova. Lo ringraziamo per la sua disponibilità e rapidità nel rispondere alle nostre questioni su Potere al popolo.

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