Differenza, città, latte e cereali

You can crush us

You can bruise us

But you’ll have to answer to

Oh, the guns of Brixton

Il celebre pezzo dei Clash esce in London Calling, 1979. Ha il suono di una profezia: due anni dopo, scoppia la prima delle rivolte di Brixton, quartiere di storica composizione afrocaraibica, Londra Sud. La vicenda affonda le radici nella storia di un quartiere dall’elevata tensione tra stato – la nazione simbolo della muscolarità politica anni Ottanta, l’Inghilterra thatcheriana – e la propria composizione etnica. L’esplosione si ha con la morte di un ragazzo nero, Michael Bailey, dissanguato per una coltellata e trattenuto senza soccorso dai poliziotti, ma il carburante è accumulato da tempo: solo un mese prima un corteo di quasi 25mila persone nere si era mosso dalle periferie verso il sensibilissimo centro londinese in risposta ad un rogo casalingo durante una festa della comunità nera. Alla mobilitazione seguono scandalo e arresti per disordini. È utile notare che per ciascuno di questi fatti si riscontra sistematicamente una doppia versione: quella dei neri e quella della polizia e dei giornali. Arriviamo ai primi giorni di aprile, in un clima reso insopportabile dall’Operation Swamp 81, un’operazione poliziesca in borghese nel quartiere di Brixton, effetto della riesumazione thatcheriana dell’odiatissima e ottocentesca sus law, che permetteva la perquisizione e l’arresto anche in assenza di crimine, basta il solo sospetto. In cinque giorni di Swamp 81 viene perquisito circa un migliaio di persone, di cui 82 vengono arrestate. Monta la rabbia, il 10 aprile la morte di Bailey rovescia il piano della tensione. Seguono una notte e un giorno di sassaiole, petrol-bombs, saccheggi; non si aggiungono morti, ma il quartiere è devastato e i feriti sono centinaia. A distanza di qualche settimana seguono disordini dello stesso tipo anche a Birmingham, Liverpool, Manchester, ancora Londra e in altre città inglesi. La composizione dei fronti è sempre la medesima, da una parte la polizia, dall’altra i neri.

L’episodio può essere indicativo per tutta una serie di considerazioni storiche e sociali. Non sarebbe peraltro l’unico: Brixton è un quartiere conosciuto per le rivolte nere non solo del 1981, ma anche del 1985, del 1995 e del 2011. Non è inoltre l’unico quartiere inglese che ha dimostrato questo livello di esacerbazione; sono poi certamente più note le cronache americane, più vicine a noi anche in termini cronologici e mediatici grazie al movimento Black Lives Matter, o quelle francesi delle banlieu parigine. È tuttavia un caso esemplare per la sua polarizzazione etnica in una nazione apripista del liberalismo tollerante, nota per la sua politica di decolonizzazione morbida e che non presenta una storia razziale come quella americana, almeno nel proprio territorio. È un caso che sembra esibire un nodo irrisolto all’interno di un rapporto di contrattazione e conflitto: quello tra differenza e spazio. I due termini non stanno ai poli: il secondo accoglie e media il primo al suo interno, uscendone cambiato. È un caso, infine, che parla della città come mediatrice delle differenze che contiene e delle sue strategie per farlo.

Possiamo mantenere Londra come baricentro. Si tratta di una città che è stata un modello immaginativo per molte altre a livello mondiale, che ha fatto della propria negazione il segno della propria evoluzione, trasportandosi sempre altrove rispetto alla propria “londinesità”. Londra è quel modello di spazio urbano che, nonostante appartenga al vecchio mondo, sa essere pienamente presente e pienamente universale. È l’esempio perfetto di quelle che Saskia Sassen chiama le “città globali”. Sono città densamente popolate e multiculturali, che ospitano centri della finanza mondiale e che tra loro vanno a costituire una rete di scambio (culturale, economico, umano) ridefinendo o scavalcando la dimensione nel nazionale in cui sono inserite. È specificamente da questa loro tensione al globale che esse traggono la loro ricchezza e la loro capacità di attirare investimenti di capitale, nonché la loro disponibilità di forza lavoro, essendo città cosmopolite e a forte immigrazione. È nelle città globali che abbiamo la punta convergente di un lungo processo di liberalizzazione dei mercati e di sviluppo finanziario che ha inizio negli anni ’70 con la fine degli accordi di Bretton-Woods. Nel momento in cui il dollaro perde la propria convertibilità in oro, il suo valore si astrae e acquista una mobilità prima imprevedibile. Il capitalismo si extraterritorializza e si apre al globale. Ne ottiene un costo minore del lavoro prima, una partecipazione mondiale alla finanza poi. Le città globali costituiscono la manifestazione geografica culmine di questo processo di evaporazione del denaro, ridefinendo l’idea di spazio urbano e sganciandolo dalla sua funzione economica classica, luogo di produzione di beni e di messa a disposizione di forza lavoro. Viene naturale porsi una domanda: per quale motivo lo sviluppo della finanza, nella sua curva di smaterializzazione, si è legato allo sviluppo urbano delle città, e non è proseguito oltre, liberandosi delle città stesse?

LE CITTÀ GLOBALI COSTITUISCONO LA MANIFESTAZIONE GEOGRAFICA CULMINE DI QUESTO PROCESSO DI EVAPORAZIONE DEL DENARO, RIDEFINENDO L’IDEA DI SPAZIO URBANO E SGANCIANDOLO DALLA SUA FUNZIONE ECONOMICA CLASSICA, LUOGO DI PRODUZIONE DI BENI E DI MESSA A DISPOSIZIONE DI FORZA LAVORO

La questione non è scontata. Più volte si è infatti teorizzato l’abbandono della città in quanto modello superato per l’attuale sistema economico: la tecnologia rende possibile il lavoro a distanza, da casa se vogliamo, e la natura della finanza internazionale è obiettivamente questione di bits. Proprio la sua immaterialità ne determina dopotutto forza e dimensioni spropositate. Una sede fisica appare superflua e la funzione delle città sembra più un residuo storico che un’obiettiva necessità. Questo in parte è vero. L’altra parte è invece legata ad una falsa rappresentazione delle capitali finanziarie. Prima di tutto, non si scappa dalla legge: pur essendo espressione del globale, queste città si collocano nel territorio nazionale e pertanto sono soggette ad un regime fiscale e legale che ne articola le possibilità d’azione. Secondo, le città sono in grado di offrire un livello di vita alto ed economicamente allineato ai guadagni che il lavoro finanziario d’élite garantisce. Guadagnare molto e non sapere poi come spendere quei soldi costituirebbe una contraddizione. Il tono non vuole essere ironico: è un aspetto sottinteso in vari articoli (Financial Times, New York Times, Quartz) che si sono domandati quale altra grande città europea potrebbe ospitare il ruolo primaziale della Londra finanziaria nello scenario post Brexit. Le grandi città hanno in effetti un’offerta culturale estesa, un mercato immobiliare ampio e un sistema di servizi di alto livello. Tutti fattori che non solo le rendono appetibili economicamente per i ricchi, ma che contribuiscono a modellare il loro immaginario in termini di creatività e innovazione. Un immaginario che non è scontato quando parliamo di aree economiche che su queste competenze si fondano, quali i settori delle start-up e della fintech (lo sviluppo tecnologico-informatico dei sistemi finanziari). In città, semplicemente, la finanza guadagna salute per la diversità dei piani economici d’investimento e di spesa che la attraversano. Terzo, le infrastrutture che permettono l’attività finanziaria, l’incontro fisico e la vita dei suoi dipendenti hanno un costo. Esiste tutto un continente sommerso del settore finanziario che non riguarda manager, banchieri e CEO e che non appartiene all’immaginario dei palazzi di vetro e delle sale riunioni. Si parte dalla vasta zona grigia dei lavori impiegatizi a medio reddito, terziari e burocratici, fino ad arrivare a tutti quei lavori manuali a reddito assai inferiore che permettono il lavoro finanziario, cioè addetti alle pulizie, camerieri, tecnici, operai edili, addetti alla manutenzione e così via. Per quanto riguarda questa fascia alla base della piramide, si tratta di lavori svolti in prevalenza da immigrati e donne. Illuminare questa dimensione significa ripensare l’idea di finanza, che non appare più quindi come semplice lavoro di consulenza ma anche, e considerevolmente, come lavoro di produzione. Possiamo andare anche oltre: si tratta di vero e proprio lavoro di cura, non più nei confronti di bambini e anziani, ma nei confronti delle élite dirigenziali e dei loro luoghi. Queste elencate qui sopra sono inoltre mansioni che continuano a essere percepite come appartenenti a dinamiche di immigrazione classica, secondo cui abbiamo uno spostamento di forza lavoro dal paese povero al paese ricco, e non come espressione di un’attività globale, che invece viene attribuita solamente all’attività dei piani alti. I due livelli sono in realtà interdipendenti. Sassen nota come il crollo finanziario del 2008 abbia generato una crisi occupazionale nella comunità dominicana a Manhattan. Perché? Cosa c’entra la Repubblica Dominicana con le immagini dei banchieri che escono cupi dai loro uffici con gli scatoloni tra le braccia?  C’entra, perché moltissimi dominicani lavoravano come uscieri a Wall Street. È essenziale riconnettere la base del settore finanziario, cioè la sua dimensione manuale e scarsamente retribuita, al suo vertice: finanza globale non è solo scambio di capitali immaginifici ma anche produzione di servizi e beni a basso costo.

E’ ESSENZIALE RICONNETTERE LA BASE DEL SETTORE FINANZIARIO, CIOÈ LA SUA DIMENSIONE MANUALE E SCARSAMENTE RETRIBUITA, AL SUO VERTICE: FINANZA GLOBALE NON È SOLO SCAMBIO DI CAPITALI IMMAGINIFICI MA ANCHE PRODUZIONE DI BENI E SERVIZI A BASSO COSTO

Ritornando dunque al terzo punto: la città è fondamentale per l’attività finanziaria perché attira a sé una forza lavoro conveniente, di cui il settore ha bisogno per il proprio sostentamento strutturale. È proprio l’accentramento consentito dallo spazio urbano a permettere lo sviluppo dell’economia globale, che a livello locale è tuttavia e prima di tutto un insieme di economie differenziate. La svaporazione del denaro non ha potuto smaterializzare i lavoratori.

La campagna #LondonIsOpen è stata lanciata a luglio 2016 da Sadiq Khan, politico di origini pakistane e primo sindaco musulmano di Londra. È una risposta all’esito disgregante del referendum sulla Brexit, occorso il mese precendente, ed è volta a tranquillizzare tutti sul mantenimento di Londra quale città aperta e inclusiva, almeno per quanto riguarda il commercio: […] to spread the message that London is united, full of creativity and open for business. Il video di lancio presenta venti secondi di un rapidissimo avvicendarsi di porte, portoni, garage che vengono aperti, invitando lo spettatore ad entrare. Sono negozi, abitazioni, ristoranti, esercizi commerciali di vario tipo, dall’alta moda inglese al venditore di stoffe e tappeti. Il video si conclude ai piani alti: il sindaco stesso invita il cittadino ad entrare in sala riunioni. L’intento è nitido, rappresentare la diversità culturale londinese nella sua forma commerciale, dal piccolo privato immigrato alle sale d’investimento del capitale. È una visione orizzontale delle differenze multiculturali della città nel momento della loro messa a valore. Qui il rapporto tra spazio e differenza si stringe in un accordo apparentemente fruttuoso: più diversificati sono gli attori che abitano la città, più è varia l’offerta che è possibile produrre, più la società si armonizza. Niente di nuovo dopotutto, ma l’arco d’azione di questo ragionamento ha un grande implicito, che sta nel nodo tra differenza e mercato. Regge il nodo se tiriamo la corda?

Per vederlo spostiamoci brevemente oltreoceano. Vox è un canale YouTube e blog americano. Produce contenuti a scopo divulgativo e in toni pop, parlando di una varietà di temi che va dalla cultura di massa all’aneddoto alla breve analisi sociologica. A febbraio 2019 ha pubblicato un articolo: “American segragation, mapped at day and night”, con dati tratti da studi della Cornell University e dalla Pennsylvania State University. Sono state mappate centinaia di città statunitensi, osservando i dati riguardanti la composizione etnica della popolazione nel luogo di residenza e nel luogo di lavoro. Le mappe ottenute sono le seguenti, in tre esempi, New York (1), Chicago (2) e Los Angeles (3). Sono le tre città statunitensi che primeggiano nello “sviluppo armonioso”, secondo la valutazione del Globalization and World Cities Research Network (GaWC). Più il fucsia è intenso maggiore è la presenza di neri; più alte sono le colonne che si innalzano dai quartieri, maggiore è la popolazione. A sinistra viene registrata la popolazione nel luogo di lavoro, in orario diurno; a destra vediamo invece la popolazione una volta rincasata. Se dunque a sinistra vediamo le città riempirsi di persone che vanno al lavoro, e abbiamo un fucsia abbastanza diffuso e sbiadito con colonne spiccate, data l’affluenza, a destra abbiamo zone di fucsia intenso, ben limitate, blocchi ben accesi sullo sfondo opaco. Detto in altre parole, a sinistra vediamo come le differenze razziali tra bianchi e neri trovino una condizione di mescolamento e diffusione, con bianchi e neri che vivono e lavorano durante il giorno negli stessi quartieri; a destra vediamo invece la ghettizzazione di certi quartieri dove vivono in quasi totale maggioranza solamente i neri, mentre i bianchi escono dalla zona metropolitana e una parte di loro torna in case fuori città. Trascurando le specificità che distinguono città americane e città europee, balza comunque all’attenzione una questione: lo spazio urbano delle grandi città riesce ad essere pienamente multiculturale e a livellare le differenze etniche tra gli individui solo nel momento in cui osserviamo la sua composizione diurna, durante l’attività della città e delle persone che la vivono e che ci lavorano. I quartieri perdono il carattere di ghetto che avevano durante la notte, le persone si mescolano, le diverse attività si affiancano; possiamo immaginare con quali differenze di mansione e salario.

Le mappe a sinistra mostrano lo stesso scenario dello spot #LondonIsOpen: una forte diversificazione sociale colta sullo stesso piano orizzontale, messa a valore nella propria specificità e senza possibilità di conflitto. È una delle sfide della globalizzazione: le città come dispositivi di gestione della differenza. Ecco che il rapporto implicito tra differenza e mercato di cui si parlava mostra i suoi contorni: dov’è l’orizzonte di sopravvivenza della differenza? Sta nella sua messa a valore nel mercato. Non a caso una parola chiave dello spot è business, cioè il meccanismo regolatore dell’inclusività che viene proposto per una città come Londra, e ad essere esibiti sono perlopiù esercizi commerciali.

I fatti di Brixton sono a tutti gli effetti una dimostrazione dello scollamento che questo implicito comporta rispetto alla vita delle comunità, che sì vivono nella realtà cosmopolita delle mappe a sinistra, ma probabilmente si riconoscono esistenzialmente in quelle della colonna a destra; Brixton e #LondonIsOpen non raccontano la stessa storia. Ecco allora che la gestione della differenza proposta dal mercato risulta insufficiente. Una delle ragioni di questo malfunzionamento è di carattere storico: semplicemente non è possibile risolvere in un colpo di spugna disuguaglianze sociali sedimentate nei decenni e nei secoli. L’altro motivo sta nelle politiche multiculturali che le grandi città hanno adottato nel corso del loro sviluppo: il multiculturalismo, riconoscendo l’autonomia delle singole culture come espressione della comunità che le pratica, tende a separarle da ciò che è a loro estraneo e circostante, portando nella pratica alla formazione di comunità parallele con una crescente tendenza alla radicalizzazione. Sulla mancata riuscita del progetto multiculturale si è così cercato di costruire un modello migliore, in grado di proporre una fluidificazione maggiore del sistema culturale urbano, che renda possibile la convivenza reale e integrata delle diverse etnie. L’interculturalismo tende i suoi sforzi alla facilitazione della comunicazione e dello scambio tra le differenze di cui la città si compone. Ma a rimanere inalterata, qualsiasi sia il modello scelto, è la centralità dell’aspetto economico che viene proposto alle città: il programma del Consiglio Europeo sulle Intercultural Cities si apre così: “Cities can gain enormously from the entrepreneurship, variety of skills and creativity associated with cultural diversity, provided they adopt policies and practices that facilitate intercultural interaction and inclusion.” (“Le città possono trarre grande vantaggio dall’imprenditoria, dalla varietà di competenze e creatività legate alla diversità culturale, qualora esse adottino politiche e pratiche che facilitino il rapporto interculturale e l’inclusione”) L’imprenditoria costituisce la base solida dell’approccio e tutto il programma si rivolge alla valorizzazione delle differenze come elementi portatori di una positività intrinseca, arricchente per lo scambio di idee e per lo sviluppo economico. Certamente il mercato delle città globali ne giova, come dimostra la loro crescita urbana, economica e simbolica. A non essere considerata è la composizione sociale che costituisce lo sviluppo di mercato, che abbiamo visto essere assai differenziata tra base e vertice: ai lavori finanziari si accompagnano altri lavori, manuali e a basso reddito. È fuorviante concepire la globalizzazione come incontro sereno delle differenze mondiali se ignoriamo quali altre differenze informano i rapporti di potere su cui si regge quell’incontro: differenza di classe e di reddito, ma anche differenza tra centro e periferia/provincia, che sembra avere scavalcato quella novecentesca tra Nord e Sud del mondo. La Brexit stessa ha costituito uno svelamento di queste differenze nascoste, lacerando la nazione in un due tensioni opposte.

È FUORVIANTE CONCEPIRE LA GLOBALIZZAZIONE COME INCONTRO SERENO DELLE DIFFERENZE MONDIALI SE IGNORIAMO QUALI ALTRE DIFFERENZE INFORMANO I RAPPORTI SU CUI SI REGGE QUELL’INCONTRO: DIFFERENZA DI CLASSE E DI REDDITO, MA ANCHE DIFFERENZA TRA CENTRO E PERIFERIA

C’è un ultimo episodio che fa leva sulle contraddizioni degli scenari osservati finora. Una parola come gentrification è entrata nel lessico italiano da anni, prima con il letterale nobilitazione, poi con il calco gentrificazione. Non ci soffermiamo su un’analisi del concetto, ma lo presentiamo in un fatto di cronaca, tornando a Londra. Shoreditch è un quartiere a Est del centro, che è stato tradizionalmente abitato dalla classe operaia inglese. Da anni subisce un costante processo di gentrificazione, che l’ha portato ad essere conosciuto per negozi dell’usato, vintage, caffetterie, bar, luoghi di svago; quello che era il mercato coperto offre ora una ricca scelta di box dove sedersi e mangiare cucina etnica. Nel 2015 una rivolta scuote il quartiere, ma non ha nulla a che vedere con la differenza etnica di Brixton e con il razzismo poliziesco del governo Thatcher. Questa volta ad essere assaltata è un’attività commerciale. Si tratta del Cereal Killer Café, un locale arredato con gusto retró e musica anni lo-fi anni Novanta, fondato da due fratelli che offre latte e cereali. Solo latte e cereali, in diverse declinazioni, una tazza a poco più di 3 sterline, circa 5 euro. Una notte di settembre, circa duecento manifestanti a volto coperto e armati di mazze sconquassano le vetrine del negozio, terrorizzano gestori e clienti barricati all’interno, vandalizzano l’area circostante. Il Cereal Killer è colpevole di essere un negozio per hipster e dai prezzi esosi per una banale tazza di latte e cereali. La rappresaglia coglie benissimo il senso di frustrazione e svuotamento di senso che ha regolato lo sviluppo del quartiere, ormai quasi attrazione turistica: una passeggiata a Brick Lane rende clamorosamente l’idea del senso di artificialità. Proteste simili hanno avuto luogo anche a Berlino nel 2016, nel quartiere di Friedrichshain.

Le rivolte di Brixton (anch’esso quartiere iconicamente conosciuto e citato per la gentrificazione, la quale costituirà la ragione centrale dei disordini successivi al 1981 (elencati all’inizio di questo articolo) e quella di Shoreditch sono due storie diverse e parallele. Raccontano entrambe del nesso tra differenza e spazio nel momento in cui il rapporto tra i due termini salta. Raccontano anche di due diversi e analoghi modi in cui una violenza verticale e orientata verso il basso agisce a livello urbano, prima con misure poliziesche, poi con il bel volto del mercato.  Nel primo caso la differenza è razziale e viene messa sotto scacco; nel secondo è feticcio per turisti e benestanti e viene intromessa improvvisamente nel quartiere. La reazione in entrambi i casi vede una trasformazione: il compattamento attorno alla propria differenza innesca un riconoscimento d’identità; di razza, di quartiere, anche di classe. I piani si sovrappongono, la loro articolazione non sempre è mediata e il loro potenziale risulta trattenuto. Ma il meccanismo è tale da illuminare l’elasticità della differenza e la sua potenza come risorsa o strategia. A mostrare invece la propria carenza strutturale nella gestione di queste forze è la città, come spazio di mediazione e soprattutto come garanzia della sostenibilità economica e sociale del neoliberismo. Se la comunità interculturale delle città riesce a sopravvivere pacificamente è solo perché quel modello riesce a funzionare mettendo a frutto le differenze di cui dispone; ma nel momento in cui quelle risorse si sottraggono al profitto mostrando una ragione non conciliabile – è il caso di Brixton -, oppure quando proprio grazie al profitto agiscono come divisori, come a Shoreditch, ecco che il modello fallisce. Il mercato promette una conciliazione plastica e prolungata delle differenze, ma la sua durata è data dalla disponibilità economica a cui sono sottoposte. Tolta questa condizione, restano le differenze più profonde: etniche nel primo caso, materiali nel secondo. La loro sopravvivenza è messa alla prova con la forza.

SE LA COMUNITÀ INTERCULTURALE DELLE CITTÀ RIESCE A SOPRAVVIVERE PACIFICAMENTE È SOLO PERCHÉ QUEL MODELLO RIESCE A FUNZIONARE METTENDO A FRUTTO LE DIFFERENZE DI CUI DISPONE

Oggi la comunità afrocaraibica è pienamente riconosciuta a Londra ed è protagonista di varie attività nella città, la più celebre delle quali è il carnevale di Notting Hill a fine agosto. La differenza si è cristallizzata nel folklore, e forse rimane solo nella vita privata e di stretta comunità; la sua messa a valore è invece nel grande mercato etnico di Brixton. Il sociologo Stuart Hall racconta come fosse normale, per i giamaicani, riferirsi a Londra come la città in cui prima o poi ci si sarebbe trasferiti da grandi, per la vita vera. È la forza simbolica del centro, della capitale dell’impero. Costituendosi come desiderio ha assolto il suo ruolo immaginario, quello reale un po’ meno: la Swamp 81 non è che uno dei sigilli di questa mancanza.

Altri tipi di città – intanto – si sono sviluppate, su linee diverse da quelle londinesi: l’architetto Rem Koolhaas le ha chiamate città generiche, si sono sviluppate in paesi che fino a cinquant’anni fa non erano economicamente rilevanti a livello mondiale. La città modello è Singapore, città cresciuta improvvisamente, composta come per una caduta di spore sul terreno e che conferma lo schema economico finora osservato, anzi meglio, perché essendo città-stato non deve contrattare tra diverse legalità. In questo caso anche la differenza centro-periferia è obsoleta, perché nello spazio delle città generiche non sono categorie distinguibili. L’organizzazione urbana non segue più gerarchie canoniche, tutto è apparentemente neutro, privo di storia, di una grazia violenta e leggera. Siamo nel piano del futuribile.

Per quanto riguarda il Cereal Killer Cafè, nel frattempo si è dato da fare. Non intimorito dall’aggressione si è messo in moto, è stato al centro di numerose recensioni di youtuber entusiasti ed è diventato simbolo del successo imprenditoriale che bizzarria ed estroversione possono riscuotere se combinate con qualche buona idea. In questi anni ha aperto tre nuove sedi, la prima delle quali sempre a Londra, Camden Town. Con le ultime due, il salto di qualità a Dubai e a Kuwait City. La prossima sommossa dovrà inventarsi qualcosa di nuovo.

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