Su Troppi Paradisi di Walter Siti
Una domenica ero colto da alcune inquietudini, nulla di eccezionale. Un po’ d’ansia, una certa angoscia esistenziale, la percezione di un vuoto; mi sembrava di essere tornato all’adolescenza. Entrato in un negozio ho comprato due camicie, credo per necessità, non amo fare acquisti; ho comprato inoltre una patacca di occhiali da sole, questi per sfizio, anche se non amo fare acquisti. Tornato a passeggiare discorrevo allegramente. Mi sono accorto che il vuoto era sparito, colmato. Possibile che sia stato colmato dalle merci? Me lo sono chiesto. Io però non amo fare acquisti, mi sento criticamente cosciente, capisco bene il mondo consumistico in cui sono inserito, tento di resistergli, mi pare di aver maturato una discreta indifferenza.
Il vuoto però era stato colmato. Mi è tornato in mente quel maledetto di Walter Siti e il suo Troppi paradisi. Il libro è l’ultimo di una trilogia, il protagonista si chiama Walter Siti come l’autore; chiamerò il primo Walter e il secondo Siti. L’opera è una finta autobiografia, un’autofiction, di quelle molto alla moda e che hanno spopolato tra la critica accademica. È un libro sapiente, ben scritto, provocatorio, soprattutto con i temi giusti: il trionfo dell’immagine pervasiva e spettacolarizzata e la derealizzazione della realtà; il sesso, le ossessioni; la merce e il narcisismo sociale. Troppi paradisi dieci anni fa mi era sembrato geniale, ne ho sempre parlato come di uno dei migliori romanzi (autofiction) italiani degli ultimi anni. L’ho riletto, il genio non l’ho ritrovato; oggi penso che il testo sia sopravvalutato, divorato dai discorsi che gli sono stati cuciti sopra. Innanzitutto il cinismo ostentato – che si spaccia per strumento di verità – con la sua lettura del mondo che si vuole lucida, perché ripulita del moralismo, mi paiono un po’ falsificanti, tipici del letterato che vuole scovare il pantano in cui siamo tutti immersi. Si tratta di una postura autoriale diffusa; scrittori come Siti, Pecoraro, Mazzoni, Houellebecq – forse schiacciati della loro stessa ideologia – vogliono offrire una raffigurazione della realtà senza il filtro delle illusioni, come a suggerire l’impossibilità di sfuggire alle brutture di questo mondo e, ancor di più, sembrano affermare che chi ancora immagina una vita diversa è vittima di una speranza allucinatoria. Inoltre il saggismo di Troppi paradisi scava la realtà, certo, ma alcune analisi sono invecchiate in fretta, ormai dire che la televisione ha l’effetto di sostituire l’immagine alla realtà è scontato; possibile che gli intellettuali italiani abbiano dovuto aspettare il 2006 per capirlo?
In ogni caso Troppi paradisi resta un buon libro, capace di toccare nervi scoperti. Il protagonista si dichiara un mediocre, è un professore universitario omosessuale che entra di traverso nel mondo televisivo, ossessionato dai culturisti. Si innamora infatti di Marcello, un bestione tutto muscoli che gli fa da amante a pagamento, un minorato mentale (così ne parla Walter) che ha trasformato il suo corpo e la sua stessa vita in una merce. Il protagonista dovrà operarsi al pene per poter penetrare Marcello, davanti a questo angelo l’erezione risultava bloccata. Così Walter analizza il suo mondo interiore:
Voglio possedere una forma, non una persona […]; quello a cui ambisco è un possesso trascendentale, il possesso di mia madre, di mio padre e dell’universo. Mi sono allontanato dalla Natura, internandomi nel mondo dei desideri abnormi e onnipotenti; laggiù non c’è più alcun bisogno di generare, e quindi di penetrare; c’è solo bisogno di spalancare gli occhi e deglutire; è il mondo delle foto e non ha senso soddisfarle col cazzo
W. Siti, Troppi paradisi, BUR, Milano, 2015, p. 292.
Il libro è tutto costruito sul montaggio di riflessioni saggistiche e narrazioni. Si racconta di un’ossessione legata a un rapporto fallito con i genitori, fatto non solo di incomprensioni, ma anche di vergona e sensi di colpa. A livello narrativo è la morte del padre a spingere il protagonista verso i bodybuilder. Questo è uno degli eventi più significativi sia sul piano individuale, sia – non solo metaforicamente – per la psicologia collettiva; tale morte è affrontata come fosse nulla: «Sta famosa esperienza archetipica, nel complesso, si è rivelata fiacca, niente de che» (p.197).
In questa affermazione risiede la rottura centrale del libro, non solo perché riguarda il protagonista, ma anche perché vi è rappresentato un fatto culturale significativo per la civiltà occidentale: la rimozione della morte. Significativamente non solo Walter sarà rispinto verso i culturisti, ma ne incontrerà il campione. Marcello è l’estrema conseguenza di un modello umano, è un informe, una massa desiderante senza confini.
Credo che non abbia mai detto no una volta nella vita, è puro come l’acqua che prende la forma del recipiente dove si versa. È inconsistenza, labilità, forse anche ormai (grazie alla coca) deficit mentale. L’acqua può inquinarsi con i peggiori batteri – ma non è il sesso, non è certo il sesso a sporcarlo: una collina può essere percorsa da tutti senza che si intacchi la perfezione della sua curvatura. Non può permettersi la volontà, tanto grande è il suo bisogno d’affetto. A forza di presentarsi come ciascuno lo modella, non è più niente per sé, se non un grumo di narcisismo e di spavento. […] L’icona divina, scesa dal mondo pneumatico, è un disgraziato, un figlio storto, un compagno di pena.
W. Siti, Troppi paradisi, BUR, Milano, 2015, p. 277.
Un mentecatto vicino al vero, in quanto essere formato interamente da sogni confezionati dal mercato, e totalmente incapace di costruirsi un’identità che non sia proprio quella di soddisfare i desideri degli altri, forma infantile di relazione con l’altro che è figlia proprio di un processo mancato: il divenire adulto attraverso la costruzione di una propria identità: «Lui ha davvero quattro anni: non fa figli, non lavora, è un perverso polimorfo, ha paura degli adulti» (p.361).
Anche Marcello è un nevrotico, accomunato – in modo speculare – al protagonista per l’incapacità di rielaborare il trauma della morte: nel suo caso della moglie. La morte del padre sembra togliere a Walter un tabù fondamentale: libera il desiderio dell’incesto; sgrava quindi il protagonista dal peso di uno degli imperativi sociali più elementari. Il dispiegarsi totalmente libero del desiderio è una pista tematica fondamentale all’interno del romanzo, al di sotto vi è il presupposto che tale libertà desiderante permetta di raggiungere una verità (assoluta): la comprensione profonda dell’uomo, lo svelamento del suo sottofondo biologico, la possibilità di osservare le sue pulsioni pure in quanto svincolate dalle norme sociali e dalla moralità di ogni tempo. In altre parole è il rifiuto dell’idea che il desiderio possa e debba essere castrato e indirizzato, è il rifiuto della dimensione dialettica, per cui tale indirizzamento non comporta solo vincoli di falsità e dolore per l’individuo, ma anche una possibilità di convivenza e serenità. Il sottofondo biologico è ambiguo, fatto di pulsioni aggressive e individuali, ma anche di spinte alla cooperazione e alla convivenza.
IL DISPIEGARSI TOTALMENTE LIBERO DEL DESIDERIO È UNA PISTA TEMATICA FONDAMENTALE ALL’INTERNO DEL ROMANZO, AL DI SOTTO VI È IL PRESUPPOSTO CHE TALE VERITÀ DESIDERANTE PERMETTA DI RAGGIUNGERE UNA VERITÀ ASSOLUTA
Il protagonista non riesce a penetrare il suo angelo salvatore, colui che deve dargli l’accesso al paradiso. La madre e Marcello iniziano a sovrapporsi e il protagonista risulta incapace di penetrare-possedere la madre-Marcello «[Marcello] è stato in quel momento che si è incarnato in mia madre. Lasciando quella vera completamente informe […]. Se mi sono inflitto l’amore per Marcello è stato per scontare l’amore infame tributato a lei» (p.316). Per riuscire a possedere il suo angelo, Walter dovrà operarsi al pene, inserire una protesi. Questo passaggio narrativo rimanda, rimbalzando da un inserto saggistico all’altro, a una modificazione antropologica: a un divenire diversi, al cambiamento dei tratti culturali, valoriali, estetici dell’individuo. Tale modificazione permetterà anche «la riconciliazione familiare» durante una visita al cimitero:
Mia madre estrae dal borsone un paio di forbici per tagliare i tralci secchi del gelsomino, si china a fatica. Mia madre potrei scoparla anche adesso, grassa com’è: la protesi mi ha fornito quell’indifferenza che non ero riuscito a mettere insieme in sessantasei anni. Nonostante tutto non ce l’ha fatta a castrarmi […]. Caro papà, abbiamo avuto tutti e due le nostre soddisfazioni, molto diverse tra loro ma paragonabili: ognuno per la sua strada, senza invidie e senza rancori. Non sono meno maschio di te.
W. Siti, Troppi paradisi, BUR, Milano, 2015, p. 425.
Troppi paradisi si inserisce pienamente – e con sapienza – nella corrente postmoderna, con la sua paradossale grande narrazione di un mondo senza ideologie. Quel che conta è che il romanzo ci spinge a prendere atto di una dura verità: è un tentativo di fare i conti con il presente; è la resa davanti all’immanenza del mondo. La castrazione paterna, il veto del padre «non puoi possedere tua madre, vai altrove per esaudire il tuo desiderio» è psichicamente e culturalmente considerato uno dei fondamenti stessi della civiltà. Il divieto di possedere la madre è un modo per costringere l’individuo a fare un percorso per poter esaudire il proprio desiderio, è un modo per evitare che si desideri ciò che desidera il padre, è la strada quindi per costruire un proprio desiderio particolare, l’unica maniera per evitare che al nostro desiderio basti un oggetto qualsiasi su cui scaricare le proprie pulsioni. Simbolicamente ci viene detto «devi trovare un oggetto individualizzato, particolare, un nome proprio». Per farlo, però, devi costruire una tua identità, anche questa è un prodotto della relazione con l’altro. Se consumi l’amore con tua madre ti specchierai in lei e continuerai ad essere l’immagine che lei ha di te e riprodurrai lo stesso desiderio di tuo padre; devi invece farti carico dell’esigenza di un tuo desiderio, andare per il mondo, fare un percorso e incontrare degli altri. Solo la relazione con gli altri ti permetterà di dare forma alla tua identità, sari felice, soffrirai, troverai immagini inaspettate di te, dovrai farti spazio nel mondo, cambierai continuamente e ti costruirai una personalità. Senza desiderio niente percorso, niente incontro, niente identità e – circolarmente – niente desiderio. Il rifugio nella madre-Marcello, il ritorno al desiderio-possesso riduce all’abbraccio narcisistico di sé stessi: non per nulla Marcello avrebbe dovuto chiamarsi Walter come il protagonista. Ciò che viene rappresentato è un fallimento sociale:
Forse, a pensarci bene, l’interesse per gli oggetti gonfiati, per la merce tutto involucro e logo, presuppone una qualche forma di impotenza: impotenza a usare semplicemente le cose quando se ne ha bisogno. Il consumismo ci induce all’impotenza perché la merce non deve bastare mai, e quindi deve essere letteralmente impossedibile. (È anche un modello di amore non corrisposto: il consumismo insegna a desiderare, non a essere desiderati.)
L’altro ridotto a oggetto da consumare per rispondere alle proprie inquietudini rappresenta l’incapacità di andare oltre sé stessi e di elaborare un desiderio trascendentale. Qui c’è il trauma non detto della morte, la sua rimozione, come ostacolo inaffrontabile; la morte che non crea solo il dolore della perdita, ma anche la mancanza di senso perché richiama la finitezza della vita, prima di tutto della mia. Ogni società elabora le sue forme di trascendenza, i modi con cui l’individuo supera la propria miseria riconnettendosi a qualcosa che lo oltrepassa e ingloba. Può essere Dio, un ciclo di reincarnazioni, l’appartenenza del mio piccolo soffio al grande Tao; può essere l’amore con i suoi frutti, i figli che resteranno dopo di me; può essere l’appartenenza a una comunità; può essere l’impegno politico che mi unisce a una speranza collettiva e a lasciare qualcosa che leghi i vivi e i morti con chi ancora verrà.
Credo che si possa essere d’accordo, però, sul fatto che il grande progetto dell’Occidente, l’unicum che lo contraddistingue tra tutte le società umane, sia l’ambizione di costruire una convivenza senza Dio. Non mi vengono in mente altri esempi, forse la Cina confuciana, ma ho l’impressione che lì fosse un affare delle élite e che nelle povere campagne gli dèi locali andassero forte. Da noi il progetto, consapevole o no, è di massa. Inutile controdedurre ricordando il successo del Papa, anche tra i giovani, e la devozione a Padre Pio, o Comunione e Liberazione e oltre. Sono, per quanto paradossale sembri, fenomeni residuali o di reazione; la gente stima gli uomini di chiesa, i santi, magari prega e va a messa, ma nessuno crede più davvero nell’esistenza di un altro mondo, col Paradiso e la resurrezione delle anime.
W. Siti, Troppi paradisi, BUR, Milano, 2015, p. 425.
Esistono trascendenze atee e materiali, alcune pure immanenti. Ogni società elabora le proprie, con la sua dose di falsificazioni, di normalizzazioni, di violenza. La nostra società risponde al problema della morte, alle inquietudini, al problema della costruzione dell’identità con i suoi modi. Ignora il problema, o meglio: lo risolve dandoci dei palliativi, usa la merce come modo per governare, preme sui desideri dell’individualità di massa.
Per resistere senza la speranza dell’aldilà, e nel Paradiso, bisogna poter sperare nel paradiso in terra […]. Dare l’illusione del paradiso in terra è l’obiettivo finale del consumismo; o, se si vuole, il consumismo è una protesta per l’inesistenza di Dio. Comprando si è onnipotenti, soprattutto se compri qualcosa che ti serve a poco […] La merce come surrogato della felicità, non è certo una scoperta nuova […] Ma più il tempo passava, più ci si rendeva conto che alcune cose non erano comprabili: le persone, gli oggetti troppo distanti da noi, i sogni, i rapporti umani. La falla rischiava di far abortire il progetto, o almeno di ritardarne l’avanzata trionfale; un modello di soluzione è stato fornito proprio dall’arte e dalla letteratura. Fin da quando Dio c’era ancora, e la realtà era puzzolente, bruta, refrattaria, l’arte garantiva una via di mezzo, un mondo alternativo informato a una ratio superiore. A ogni scatto in avanti dell’economia, man mano che i cittadini d’Occidente facevano una vita più meccanizzata e standard, l’arte li risarciva di quel che andavano perdendo, i fiori i sentimenti puri l’eccesso l’infanzia […] Se l’arte era capace di compiere questo non restava che ampliare il procedimento, soprassedendo sulla qualità e puntando a un’arte di massa. È quello che il Novecento ha lentamente ottenuto, col cinema, col design, con la pubblicità, coi video musicali; e alla fine col look, con l’estetizzazione dell’esistenza, col trasformare in spettacolo la stessa informazione e l’economia tutta. Ormai si comprano […] non i prodotti ma le immagini dei prodotti, la «life quality» che è garantita dal logo. Lo “stile di vita” Nike, Versace eccetera.
W. Siti, Troppi paradisi, BUR, Milano, 2015, pp. 145-6.
LA NOSTRA SOCIETÀ RISPONDE AL PROBLEMA DELLA MORTE, ALLE INQUIETUDINI, AL PROBLEMA DELLA COSTRUZIONE DELL’IDENTITÀ CON I SUOI MODI. IGNORA IL PROBLEMA, O MEGLIO: LO RISOLVE DANDOCI DEI PALLIATIVI, USA LA MERCE COME MODO PER GOVERNARE, PREME SUI DESIDERI DELL’INDIVIDUALITÀ DI MASSA
Il romanzo ci pone davanti ad alcuni dei modi con cui la nostra società accetta e maschera le proprie brutture. Walter inizia il suo racconto dichiarandosi un mediocre «Mi chiamo Walter Siti, come tutti. Campione di mediocrità. Le mie reazioni sono standard, la mia diversità è di massa» (p.11). Ha ragione Walter, la sua diversità è di massa.
HA RAGIONE WALTER, LA SUA DIVERSITÀ È DI MASSA
La questione non è morale: sono o no migliore di quel protagonista? Quasi sicuramente le nostre ossessioni non sono scandalose come le sue, ma la miseria è simile. La vita con i suoi vuoti, l’incapacità di fargli fronte, la difficoltà a riconoscerli. La risposta non è di massa né individuale, bensì collettiva. Quali strumenti elabora la nostra società per dar senso all’esistenza? A tratti ha ragione Siti, il problema della trascendenza è scartato, la morte rimossa, il paradiso è già in terra e risiede nella merce, nel suo godimento privo di soddisfazioni: il desiderio – motore stesso della vita – se spersonalizzato si incancrenisce nell’ossessione di possedere e così ci riconsegna a noi stessi. Sappiamo che ogni società è frutto di immagini del mondo, falsificazioni della realtà, interpretazioni della storia, modi di intendere i rapporti umani e la vita, scontri di potere, sogni, speranze, paure, pregiudizi… Si tratta, in sintesi, di un prodotto umano, di una costruzione; non è natura, ma l’esito di conflitti sotterranei. Sappiamo che le risposte alle grandi questioni della vita sono il risultato parziale e temporaneo di rappresentazioni. È lecito, quindi, voler osservare i limiti del progetto di mondo dell’Occidente; così come è lecito chiedersi se ci riconosciamo ancora in tale progetto. Potremmo volerne un altro, non è moralismo.
È LECITO VOLER OSSERVARE I LIMITI DEL PROGETTO DI MONDO DELL’OCCIDENTE; COSÌ COME È LECITO CHIEDERSI SE CI RICONOSCIAMO ANCORA IN TALE PROGETTO. POTREMMO VOLERNE UN ALTRO
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