Come prima cosa, ci dici in breve cos’è Global Project, come è nata la piattaforma e perché?
Global Project nasce dal movimento post-Genova del 2002 come luogo di aggregazione di un progetto di comunicazione globale (da cui il nome) e diviene poi, nel tempo, un luogo in rete che porta dei contributi nati dall’interno delle mobilitazioni sociali. Si rivolge a chi è interessato ad avere informazioni, notizie e spunti su mobilitazioni e movimentazione sociale. Si tratta di un portale che ospita e vive grazie ai contributi che arrivano da una determinata area politico-geografica (i centri sociali del Nordest, quelli delle Marche e altri in giro per l’Italia e non solo in Italia), ma non è semplicemente il megafono di qualche struttura più o meno organizzata o più o meno strutturata, perché conserva quest’impronta di voce plurale: è costruito attraverso un lavoro collettivo di un centinaio di persone che sono sparse per i quattro angoli del globo, per cui i contributi che ci sono dentro sono differenti perché sono il punto di vista di chi sta dentro una discussione costante.
Global Project appartiene a una grande famiglia di cui fa parte soprattutto Melting Pot, che è un sito tematico, un altro collettore dove il meccanismo dei contributi esplode all’ennesima potenza. C’è inoltre Sport alla rovescia, che è l’ambito di approfondimento specifico sullo sport come dispositivo sociale e sul suo modo di influire sulla trasformazione della realtà. E c’è il portale Sherwood.it, un collettore di produzioni musicali che conserva il portato della storica Radio Sherwood che ancora esiste in forma di web radio. In sintesi, il progetto di Global Project è sempre una sperimentazione, un cambiamento continuo perché non esiste, non esiste come tutto il resto. Global Project diviene, si trasforma, altrimenti chi non si trasforma non è movimento.
Farei un’altra domanda aperta: se noi diciamo differenza, tu a cosa pensi?
Io sono presidente di un’associazione antirazzista, quindi potrei iniziare a parlare di questa serie di differenze. Potrei parlare di differenze intese come diversità, difformità. Differenza fa pensare al concetto di molteplicità. Poi bisogna in qualche maniera le differenze bisogna unificarle, facciamo gli identitari che sulla linea della differenza riconoscono solo essa, ma se tentiamo di ricucire complessivamente un discorso allora dobbiamo imparare il linguaggio della molteplicità. Differenza mi fa pensare a come tenere insieme i differenti, le differenze, mi fa pensare da una parte ai conflitti che esistono tra differenze, e mi fa pensare all’unica proposta politica attuale che almeno ambisce ad andare da quella parte, che è quella del confederalismo democratico, quella che si chiama rivoluzione del Rojava. Differenza vuol dire infine ricchezza, perché laddove c’è solo omologazione non c’è un apporto creativo. La differenza rompe l’omologia di ciò che c’è e genera diversità, la differenza, genera molteplicità.
Come interpretate voi il termine “politiche della differenza”? Se intendiamo con politiche della differenza le politiche basate sull’individuazione di una differenza, come quella di genere o la razza, voi pensate a pratiche e lotte puntuali o allargate al di là della differenza singola a partire dalla quale ci si muove?
Se la metti su questo piano ti rispondo eguaglianza, non differenza. Perché i diritti sono per tutti o per nessuno, no? I cortei che abbiamo visto per le strade più e più volte nel mese passato proprio qui a Padova questo ci dicevano, nei contesti più disparati: dal corteo di Libera al corteo contro Forza Nuova; passando anche per il corteo dei metalmeccanici e confederali, insieme contro le morti sul lavoro. Quindi nelle differenze c’è l’elemento dell’eguaglianza, perché se non la pensiamo così vuol dire che a qualcuno stiamo negando qualcosa, perché stiamo riconoscendo che a qualcun altro va dato quel qualcosa che viene tolto a quell’altro.
Allora o si fa il gioco tanto caro ai liberisti per cui c’è una partita 1-0, quindi qualcuno fa +1 e qualcuno fa -1, o al contrario ci si pone nell’ottica che c’è una sfera da estendere che è la sfera che noi chiamiamo dei “diritti” e che non necessariamente è quella che viene canonizzata nel diritto e poi dalle leggi, con qualcuno che se ne deve far garante: contratto sociale, lo Stato e quant’altro… ma è un equilibrio e soprattutto una movimentazione sociale che devono garantire l’eguaglianza nelle diversità, il riconoscimento delle diversità affinché tutti quanti abbiano un trattamento eguale.
Eguale in termini di capacità, di riconoscimento delle capacità, eguale in termine di redistribuzione della ricchezza, di possibilità. Invece la diversità intesa come disuguaglianza mi fa pensare alla disuguaglianza di reddito (che non verrà per nulla appianata da questa porcata dei 5 Stelle), mi fa pensare alle diseguaglianze globali che fanno emigrare 60-70 milioni di persone.
Ma quindi nella tua idea la lotta per una differenza, ad esempio, non ci si deve mai barricare all’interno di questa differenza…
Quello è identitarismo! Se io mi rivendico differente in quanto differente costruisco la mia identità e la mia pratica sociale unicamente nella difesa della mia identità: può essere etnica, può essere altro. Non è mio diritto, perché il diritto è il frutto del campo di tensione che si dà tra i componenti attivi del mondo, tra il piano sociale e il piano politico, tra il basso e l’alto. Se io penso che esista una situazione data entro la quale mi devo collocare, io ne sono vittima, anche se poi magari mi piazzo in un angolo e sto bene là; questo poteva accadere quando il cosiddetto ascensore sociale funzionava o col boom economico, fino a quasi gli anni ’70.
Adesso siamo in condizioni ampiamente critiche, ed è evidente che uno non può più migliorare la sua condizione semplicemente rimanendo là dov’è, quindi o cerchi o ti muovi per cercare di stare meglio, per fare quello che vuoi tu, oppure vieni trascinato perché semplicemente sei spazzato via dalla trasformazione delle condizioni materiali attorno a te: questioni di impoverimento generale… siamo tutti precarizzati, non esistono più garanzie, perché quelle garanzie non è che stanno scritte sopra un pezzo di carta e quindi in virtù di quello vanno poi attuate.
Anni fa si parlava del 99% contro l’1%: il 99% che non ha, contro l’1% che ha tutto. Questa situazione si è data nel corso del tempo e sono le tabelle della Banca Mondiale a dirlo. Allora quel tipo di differenza che genera disuguaglianza sociale e che polarizza tutto quanto, diventa un elemento di identità in cui l’élite si chiude su stessa e produce Mario Draghi o Macron, forse anche Michelle Obama, non lo so. Però dall’altra parte, la differenza dove ce l’hai? Ce l’hai col sovranismo. Che cos’è? Su cosa è basato? D’altra parte chiamiamo sovranismo ciò che si dovrebbe chiamare nazionalismo di base: Marine Le Pen sviluppa il concetto del padre e da minoritario lo porta ad essere una proposta, purtroppo, maggioritaria; costruisci un’identità comune e la perimetri, tiri su un filo spinato, dopodiché la battaglia si dà su tutti i piani. Come si fa ad assumere davvero la differenza e non limitarsi a ribadirla in un nuovo identitarismo?
Questo numero parte anche dall’idea che fino ad un certo punto l’elemento che veniva messo al centro del conflitto era quello della classe. In generale l’idea di classe come elemento centrale, conflitto capitale-lavoro, tende sempre più a sgretolarsi e diventa uno degli elementi che si affianca all’idea di conflitti di genere, antirazzisti e via dicendo. Non si corre il rischio di vedere oggi una frammentazione delle lotte? E non si rischia di essere un po’ troppo vicini proprio alla sinistra liberale che da un lato ti parla di diritti civili ma dall’altro mantiene inalterate le disuguaglianze?
È la prima volta che succede nella storia? No! Su questo non c’è differenza credo. Siamo nel 1830 e qualcuno che ragiona, due in particolare, ci mettono un attimo (quei 18 anni!!), a capire che il problema sono le condizioni materiali della classe che produce. Le quali si determinano astraendo una condizione di equivalenza: quindi in termini matematici si dà una classe di equivalenza di milioni di persone che sono coloro che sono i veri produttori di ciò che sta trasformando il mondo.
Quindi la classe è un concetto preso dal capitale (classe di equivalenza) rispetto a una data condizione materiale e all’impossibilità di attuare qualunque cosa da solo, ma di doverlo necessariamente fare cooperando socialmente, per cui ogni cosa è prodotta attraverso lo sforzo collettivo e sociale di tutti.
Quella era l’epoca in cui la rivoluzione industriale stava trasformando realmente il mondo; adesso usiamo e abusiamo il termine rivoluzione, però in quel momento la trasformazione dei mezzi di produzione era una cosa potente, visibile, palpabile: avevi la macchina a vapore che arrivava di qua e di là e faceva andare fior di telai che prima funzionavano a mano. Dopo di che, dopo la lana, dopo l’automobile (credo siano i due segmenti della produzione che sono stati appieno fordisti, fondati sui principi tayloristi), arrivi già negli anni ’30: la grande depressione del ’29 – che poi è l’aperitivo a tutto quel tetro periodo di vent’anni che seguirà – là già si dà un elemento, anche in termini di organizzazione del lavoro, che prova anche a superare il modello fordista; paradossalmente, appena si afferma il taylorismo nelle officine Ford, già si pone il problema di andare oltre, di spremere di più, cioè il capitale si pone il problema di migliorare la sua efficienza e la sua efficacia nel prodursi attraverso il lavoro.
Ora c’è una fabbrica che non produce oggetti che poi gli altri usano al di fuori della fabbrica (magari per andare in fabbrica e riprodurre gli stessi), ma c’è la fabbrica sociale, forse cominciamo a intravederlo adesso, con Facebook e compagnia. Per cui io parcellizzo, organizzo e costringo in forme predeterminate le relazioni sociali, senza avere come finalità la produzione perché quello l’ho già fatto e continuo a farlo nel mondo occidentale come altrove. Quindi metto a valore le relazioni sociali, a quel punto la classe di equivalenza delle relazioni sociali oggettive, date, imposte dal vampiro che succhia, si devono ridefinire e io credo che stiamo vivendo e attraversando questa fase. Per cui è ovvio che la fabbrica, il metalmeccanico – lo dice anche Landini – ha finito di essere l’unico soggetto centrale della contraddizione tra il capitale e ciò da cui il capitale succhia sangue per riprodursi. Cioè la contraddizione centrale vede sempre il capitale da una parte che si vuole riprodurre, dall’altra parte non lo fa più solo attraverso il lavoro, ergo attraverso il tempo di vita dedicato al lavoro, lo fa sul tempo di vita, punto!
Per rispondere alla seconda domanda: tu dici “puoi essere femminista senza essere anticapitalista? Puoi essere per l’eguaglianza di genere, transgender ecc. senza essere anticapitalista?”. Sì, certo, il mondo ne è pieno, però tu puoi essere anticapitalista senza sposare e far tue queste battaglie? Manco per sogno. Il punto è sempre mettere in fila le cose, come si fa non lo so, provandoci.
E come si mettono insieme queste battaglie? Cosa ne pensate del concetto di intersezionalità?
L’intersezionalità è una proposta analitico-teorica interessante, perché mette chiunque dentro un prisma, un caleidoscopio, ne scompone le qualità che lo configurano che poi vanno ricomposte in altro modo. Una nuova ricomposizione di classe? Chissà. In sintesi, è una battaglia di libertà rispetto alla coercizione, all’essere sfruttato nelle più disparate forme. È chiaro che questa roba cerca di fare un pacchetto, però non identifica come invece faceva il Manifesto del partito, una figura che è quella centrale e che è anche quella maggioranza assoluta all’epoca, facendo quindi una proposta immediatamente maggioritaria. Questa è una fase di sperimentazione, “siamo nei tornanti della storia”, “stiamo vivendo tempi interessanti”: sono proverbi o modi di dire per girare in positivo il fatto che nessuno ci sta capendo niente di questa fase, l’unica cosa che si capisce è la necessità di una sperimentazione.
Per ora si sta scomponendo e poi si ricomporrà – prima o poi, chissà come e chissà quando, chissà chi farà la proposta – però questa fase si legge, si affronta e se ne fa tesoro se, e solo se, si rinuncia alla categoria dell’unicità e si assume la categoria della molteplicità. Quindi tu scomponi, ma come fai a ricomporre? Se c’è qualcuno che lo sa, per favore lo dica e anche in fretta! Si sbrighi a scrivere qualche libretto più o meno colorato, perché ne abbiamo un sacco bisogno, ma siccome questa cosa non accade, probabilmente va cambiato il paradigma a monte, no? Nel frattempo, analizziamo, capiamo, estraiamo quanto più sapere possibile e cerchiamo di ricomporre i saperi e di intrecciare le letture che facciamo a partire dall’osservazione della realtà, perché ciascuno la osserva dal proprio punto di vista situato soggettivamente, storicamente, determinato da una serie di cose. Anche il capitale lo fa, molto più di noi.
Io penso che non ci serva rimpiangere una figura, pur centrale, come la classe. Ci ritorneremo? Sì, forse, non lo so: forse non è più quello il tempo o forse verrà; abbiamo affrontato una fase in cui l’abbiamo decisamente messa da parte e se la metti da parte allora assumi la molteplicità e l’esistenza di differenze come “cazzo che bello, dai fammi capire cosa dice questo, là cosa succede”. Risolvere tutte le questioni adesso è difficile, siamo in mezzo al guado, non sappiamo quanto grande sia il fiume, però siamo in mezzo.
Quanto vi sta a cuore la capacità di comunicare? A chi vi rivolgete?
Ci sono due linee di discorso, una è quella rivolta – perdonate il termine – “alla gran massa degli ignavi”, a chi non è posizionato e schierato. La premessa sociale, socio-politica che abbiamo saltato è che i corpi intermedi della società non esistono più, sono tutti morti, buona fortuna a Landini e Zingaretti, sono loro i primi che ci dicono realmente come stanno le cose. Partiti, sindacati, associazioni, parrocchie, diocesi, preti, papi ecc… via! E questa roba qui apre, quindi si è distrutto l’incapsulamento, quindi tu parli potenzialmente a tutti. Il problema non è a chi parlo, è quanto mi faccio ascoltare, ma non perché ho una posizione di rendita, perché ho un messaggio che incide.
E un certo lessico…
Ahimè, “qui cominciano le dolenti note a farsi sentire”. Quale lessico usare per continuare a parlare coi 20 mila che erano qua in piazza il 15 di marzo, quelli del Friday, che lessico usare? Con della gente che ha forse 16 anni, quale lessico devo usare? Lessico di Instagram? Perché il termine di relazione è quello. Quale lessico devo usare se parlo e mi rivolgo ai mille comitati ambientalisti contro la grande opera di turno o la situazione specifica: grandi navi, TAV, TAP e quant’altro, che lessico devo usare per parlare a questi? Siccome non so qual è, ma sicuramente so che è diverso da quello di prima – a proposito di differenze: che lessico devo usare per interagire con le assemblee di NUDM? Cambiare tutte le desinenze in “u”? È sufficiente fare questo? No! Perché c’è un contenuto che va molto oltre la forma. Come articolare, quali contenuti mettere davanti e quali mettere dietro? Che linguaggio parla la gente, che linguaggio devo ascoltare io che devo raccontare un corteo? Chi scrive di fatti plurali, prima di tutto deve ascoltare, sono capace di ascoltare?
Abbiamo scritto un pezzo che prova ad entrare un po’ più dentro al corteo di Verona, ci ho messo mano anche io. Ho fatto un bel lavoro? Boh! Chi me lo sa dire? A chi chiedo? Chi è il mio termine di confronto e paragone? Qual è il mio ambito o luogo di discussione? Ecco perché è utile avere delle categorie che disfano, come dicevo prima, che scompongono; averle veramente sulla punta delle dita, perché poi dal punto di vista di chi si pone il problema di redigere un portale – pur tenendo conto della prospettiva soggettiva – è necessario avere anche delle griglie non preconcette, griglie da cambiare, da trasformare. Come fare questo? Sicuramente provandoci, provando a sbarazzarmi di ciò su cui io stesso mi sono formato.
Come attivista militante mi capita di avere il microfono o megafono in mano durante le manifestazioni, parlare in assemblee, ma anche solo alle riunioni interne. Che linguaggi, anche schematici, usiamo in assemblea? Apriamo l’assemblea, la facciamo pubblica? Plenaria, tuttologa? O scomponiamo su filoni tematici? Questo esperimento di “Rete cittadina” contro Salvini, per farla breve, si articola con un numero di tavoli che io non ho ancora capito quanti siano.
Funziona? Funziona perché la gente ci viene, la gente ci discute e ci scrive nelle mailing-list, dà luogo a una discussione. Dopo come si ricompone? Dirigerla contro Salvini, cercare di aggirare con i mezzi di cui siamo capaci, con tanta fantasia e tanta creatività e un po’ di spregiudicatezza, cercare di aggirare il disastro che ci si sta ponendo davanti. Allora tu scomponi, argomento per argomento, dopo però devi ricomporre una visione. Bel lavoro anche quello! Sabato abbiamo un’assemblea, ma non so come ricomporre un percorso che va avanti così sparso. Tu rischi veramente di sbriciolare, di fare tante briciole e poi quando vuoi fare i biscotti, l’impasto… la maionese impazzisce! Il tentativo organizzativo forse rimane là, non lo so, ma di sicuro rimane il fatto che c’è una sedimentazione di produzione che è stata fatta, di analisi, di critica settoriale, specifica, microscopica, puntuale… si però qualcuno ha proposto delle cose che altrimenti non avrebbe fatto in altro modo. Qua chi non ci prova non ci riesce e già lo sappiamo questo. Noi non sappiamo se ci riusciamo, però almeno ci proviamo.
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