Intervista a NonUnaDiMeno

Potete descrivere in poche parole il movimento di Non una di meno, ripercorrendo le tappe principali della sua storia e spiegare quali sono gli obiettivi generali che si pone?

NUDM fa parte di un movimento definito quarta ondata del femminismo. Ha due momenti fondativi: l’omicidio di Lucia Perez e la lotta delle donne polacche contro la proposta di bando totale dell’aborto. La Polonia è un paese ipercattolico e conservatore, e aveva già una legge molto proibitiva sull’aborto; quando è stata fatta una proposta di bando totale le donne sono scese in piazza una serie di lunedì, nominando questa mobilitazione black monday. La forma che hanno scelto per protestare contro questa proposta era quella dello sciopero, seguendo un ragionamento che è poi diventato fondamentale per tutto il movimento globale femminista. E cioè: se le nostre vite non valgono, allora noi scioperiamo, così vi rendete conto di quanto il nostro lavoro produttivo e riproduttivo valga. Questi scioperi hanno bloccato effettivamente il Paese per settimane. Poi argentine e polacche hanno chiamato una mobilitazione internazionale per il 25 novembre 2016 (la giornata dell’Onu contro la violenza sulle donne). Questo appello ha avuto un enorme successo, molte capitali sono state travolte da una vera e propria ondata di corpi di donne, transdonne, persone lgbt che protestavano.

Nell’assemblaggio tra violenza di genere, femminicidio e attacco all’aborto tutti hanno individuato una violenta rappresaglia del patriarcato contro le conquiste del femminismo e dei movimenti lgbt degli ultimi anni e soprattutto contro le nuove richieste di diritti che venivano portate avanti in tutti i paesi. Perché quello femminista non è un movimento conservatore, ma un movimento rivoluzionario che non si accontenta di ciò che c’è già. Il 25 novembre c’è stata la mobilitazione in tutto il mondo e dopo è stato lanciato lo sciopero per 8 marzo 2017: e infatti l’8 marzo è stata la giornata mondiale dello sciopero transfemminista che ha avuto un enorme successo. In Italia noi siamo NUDM e riprendiamo Ni una menos che è il movimento argentino. In Italia quindi noi nasciamo rispondendo a questo appello. Molte città si sono mobilitate e sono state lanciate assemblee cittadine che rappresentano tutt’ora una forma nuova dei movimenti sociali. Sono vere assemblee cittadine – non solo di gruppi e collettivi – a cui partecipano tutte le donne, ma anche soggettività lgbt e uomini, appartenenti a gruppi ma anche no, con l’unica discriminante che sono assemblee orientate a discutere di tematiche, pratiche, obiettivi transfemministi.

All’inizio questo movimento si è dato come strumenti organizzativi dei tavoli di lavoro tematici, questo perché le assemblee nazionali avevano individuato dei temi centrali per le mobilitazioni. Questi tavoli si sono trovati in occasione di ogni assemblea nazionale, prima si faceva la riunione per tavoli e poi la sessione plenaria. I tavoli dovevano fare un’analisi di fase in base all’ambito tematico e poi fare delle proposte politiche ed operative. È un movimento quindi che si occupa sia di fare una critica dell’esistente sia di costruire a partire dal sé pratiche reali sia di normatività sia di mutualismo, solidarietà. Da questo percorso è nato un documento straordinario che è il “Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere”: il titolo è lungo perché esprime già una serie di significati che va a toccare, sia la violenza maschile sulle donne, sia la violenza di genere, perché la violenza è fondata anche sul genere come dispositivo di classificazione e normalizzazione dei soggetti. È interessante che questo movimento globale venga definito #feminism da Mook Monroe: cioè un gruppo che lavora molto sui social. I social producono reti internazionali, ma anche soggettivazione politica perché permettono a tutte di conoscersi e essere informate. Questo aspetto è uno degli elementi fondamentali perché attraverso la mappatura degli ospedali che fanno obiezione di coscienza si dà uno strumento a tutte le donne per sapere dove andare e non andare nel caso del momento del bisogno. Quindi anche la costruzione autonoma di strumenti utili a tutte per dribblare le pecche del sistema.

Voi cercate anche di aprire case delle donne, giusto? Soprattutto per chi non può entrare in contatto con voi via social…

Certo. Nasceranno case delle donne in ogni città. Ma anche le assemblee sono già luoghi fisici in cui trovarsi, sono aperte, sono attraversate da un sacco di persone.

Il concetto di transfemminismo identifica una certa evoluzione del movimento femminista e una scelta di campo da parte di NUDM: cosa significa e in che modo caratterizza le vostre rivendicazioni?

Transfemminismo è attualmente inteso come l’apertura del femminismo a tutti i generi che sono oppressi dall’etero-patriarcato. Dal punto di vista teorico il transfemminismo nasce come critica feroce al femminismo essenzialista, transfobico, tendenzialmente bianco, borghese e cittadino. Negli anni ’80 è nato un dibattito negli U.S.A in cui da un lato Crenshaw butta fuori il tema dell’intersezionalità, evidenziando i limiti che avevano le politiche dei movimenti che lasciavano alcuni soggetti completamente esclusi da ogni tipo di lotta politica, ad es. la donna nera. La donna nera è una soggettività invisibile perché i movimenti antirazzisti non si occupano di genere, sono fondamentalmente uomini neri contro la bianchitudine; e il femminismo si occupa solo di donne bianche. La donna nera resta esclusa da entrambi. Crenshaw dice che la donna nera è l’elemento che può tenere insieme entrambi i movimenti, perché la donna nera negli Stati Uniti contiene sia un elemento di classe perché povera, vive nei ghetti etc, è nera quindi è discriminata per il colore della pelle, in più è pure donna e ha tutti gli elementi di discriminazione delle donne. In più sempre negli stessi anni si sviluppa anche in ambito di movimenti e parzialmente all’università la necessità di spingere oltre questa cose e dire non è solo la donna nera, ma sono anche le donne trans-nere che sono ancora più represse dal sistema. Tanto che nelle carceri USA le donne trans-nere sono in proporzione tantissime, perché sono nere, povere, non possono accedere alla difesa e sono perseguitate in senso stretto. Il transfemminismo nasce così.

In Italia, dentro NUDM, componenti del femminismo della differenze e del transfemminismo si sono assemblate in una maniera inedita. NUDM non è solo transfemminista, ma anche intergenerazionale! Dentro ci sono dalle signore settantenni che vengono dal movimento degli anni ’70 e nuove soggettività queer. Queste due genealogie si sono incontrate e non scontrate. Cioè hanno assunto l’elemento del riconoscimento come pratica femminista.

NonUnaDiMeno si dichiara anticapitalista, in che termini lo è? Quali pratiche mette in atto verso la configurazione di una società strutturata in maniera differente?

Il femminismo è anticapitalista perché è una pratica che non può scorporare il capitalismo dal sessismo, dall’etero-patriarcato e dal razzismo. Il nesso tra gli elementi di classe, razza e genere è strutturale, non è che uno venga prima degli altri. Oggi il capitalismo assembla forme di governo conservatore, neofondamentalista e neoliberista: oggi quello che succede nei governi occidentali, pensiamo Polonia, USA, Italia, è un assemblaggio mortifero tra forme di attacco ai diritti delle donne e delle persone lgbt per l’affermazione di una cittadinanza bianca, maschile, proprietaria, cristiana ecc. da un lato; ma anche di forme di ipersfruttamento, precarietà, neocolonialismo, nuove guerre. Tutte queste forme compongono il nuovo governo che alcuni chiamano populista, reazionario, ma che è anche, appunto, neoliberista. L’attacco all’aborto allora non è un’eventualità, ma è perfettamente coerente anche con le forme di governo neoliberali. Negare e controllare le forme di produzione e riproduzione è necessario in una fase di riaccumulazione che è diventata accumulazione permanente, in cui continuamente va ristabilito che cosa deve essere riespropriato dalle forme di vita.

Scendendo al concreto, quali sono le pratiche anticapitaliste? Anche nel locale o se ce ne sono di comuni a tutto il movimento di NUDM.

Da un lato c’è lo sciopero. Nella pratica siamo in corso di definizione permanente perché non abbiamo ancora una formula definitiva di sciopero. Ne abbiamo provati tanti, nel 2019 ne abbiamo fatti tre grossi, ma in realtà non è inteso solo come giornata di blocco della produzione e della riproduzione, è inteso come azione di tradimento dell’imperativo produttivo e riproduttivo del capitale eteropatriarcale. La domanda che ci stiamo facendo è: come facciamo singolarmente e collettivamente a tradire e sottrarci a tutte le forme di valorizzazione, sfruttamento ed estrazione che il capitale applica sui nostri corpi. Come si fa? Facendo alcune cose, ma anche non facendone altre: la cooperazione è una di queste, il mutualismo anche. Il fatto di non accettare una serie di obblighi lavorativi è un’altra possibilità. Anche il sindacato sociale femminista, che non è un sindacato solo vertenziale, opera in questo senso. Lo sciopero sociale femminista è una forma quanto meno di resistenza alla messa a valore dei nostri corpi e al genere. Le reti queer e transfemministe hanno infatti elaborato forme di sciopero dai generi: da un lato sottrarsi al genere in tutte le sue forme, tradirlo, mancare alle aspettative di genere che ci sono nella società; ma anche dall’altro lato tradurre questo nel fatto che se le mie doti supposte femminili, come relazionalità, capacità comunicative, cura e via dicendo, fanno parte del pacchetto che mi viene cucito addosso per accedere a un posto di lavoro io allora non le faccio più. Perché in quel modo non solo mi stai appiccicando addosso un’identità, ma mi stai sfruttando senza pagare tutto un lavoro gratuito che è quello della relazione, della comunicazione, etc. Lo sciopero dai generi consisteva nel non essere disponibili 24h su 24, non rispondere sempre, non vestirsi in un certo modo perché veniva richiesto in un certo ambiente lavorativo… Fra le altre pratiche ricordo quella sulle molestie sul lavoro, che è stato uno dei temi centrali per NUDM, che vede la necessità di comunicare collettivamente, perché si sa che una molestia è una violenza sessuale, e si fa fatica a denunciarla. Chiunque subisca una molestia ha paura di parlarne, si sente sotto ricatto continuo, quindi solo la forma di condivisione collettiva può aiutare.

Se questo riassunto può andare mi sembra che l’anticapitalismo sia innanzitutto una presa di coscienza del ruolo che è stato attribuito alla donna e che la donna va a compire anche involontariamente all’interno del sistema. Quindi primo passo far notare queste cose, e poi mutualismo e socializzazione.

Direi così: da un lato forme di soggettivazione che sono le condizioni necessarie e non sufficienti, cioè prendere coscienza; poi c’è la fase di organizzazione: cioè partire da sé per trovare elementi comuni e organizzarsi. Infine c’è la fase del danno al capitale, con lo sciopero e con le forme di organizzazione collettiva e sindacale femminista.

Parliamo di intersezionalità, dato che su questo concetto noi abbiamo avuto alcuni dubbi. Come idea teorica è interessante per la sua tensione a una ricomposizione delle lotte. Le perplessità però sono due. La prima è di carattere pratico: ci chiediamo come si faccia nella prassi a coniugare le lotte, se una tale capacità sia affidata all’empatia e alla coscienza individuale del singolo, oppure no.

Innanzitutto l’intersezionalità non è una sommatoria delle sfighe, ma è un’interazione. Faccio un esempio: la donna trans nera di cui parlavamo prima non ha la stessa forma di oppressione che in Italia – conta sempre molto anche il contesto di cui parliamo – ho io donna bianca, cis e tendenzialmente etero. Però faccio un altro esempio: la donna bianca, trans e ricca che lavora nel mondo della moda e ha una casa di produzione di vestiti, sta molto meglio di me probabilmente.

Quindi vedi che la sommatoria degli elementi non funziona. Innanzitutto bisogna guardare alle forme di oppressione in termini intersezionali intesi non come sommatoria ma come modalità di interazione fra diverse forme di oppressione. Quindi questa è la prospettiva. Come si fa? Questo nelle pratiche del movimento NUDM è un tema, perché innanzitutto ci ritroviamo fin dall’inizio sul fatto che il nostro movimento è un movimento bianco, tendenzialmente. Noi sappiamo che una questione fondamentale di tutti i femminismi, in realtà, anche di quelli radicali, è che nessuno può parlare per nessuno e si parla sempre a partire da sé. Io so dove sono, e quando io nomino la mia oppressione, il mio posizionamento nessuno può dirmi “no, tu sei così o colà”. Quindi parlare al posto delle migranti è un’operazione in qualche modo di sovrascrizione e di appropriazione – di furto, in qualche modo – del posizionamento. Quindi la domanda è: come si fa a coinvolgere altre soggettività. Forse la domanda è sbagliata, è posta male, molto occidentale come prospettiva, perché è sempre inclusiva: cioè noi siamo al centro e andiamo ad attrarre qualcun altro al nostro interno. Invece se ci sono delle donne che stanno resistendo altrove forse stanno bene lì, non ci riconoscono e forse non vogliono neanche essere incluse in questa forma. L’unico modo per capire questo non è tanto l’empatia o la coscienza di sé. Il punto è riconoscere il posizionamento di ognuna. Riconoscerlo non nei termini di sapere dov’è, ma dargli valore. Il riconoscimento femminista è una forma di relazione: la relazione femminista è fatta di rispetto, anche di conflitto, però è un riconoscimento. Quindi una lotta intersezionale, secondo me – e qua ovviamente non parlo per tutte – deve partire dalla rivisitazione del nostro punto di partenza e la costruzione di relazioni con quelle che per ora sono altre da noi, che non sono per esempio dentro il movimento, che però sicuramente, continuamente lottano e resistono perché sono più povere, vivono in posti di merda, sono sfruttate ecc… Come si costruisca questa relazione è per ma la domanda fondamentale. Sicuramente si può lavorare di inchiesta, per esempio, ma anche l’inchiesta può portare a rischi di colonizzazione, quindi il rapporto fra chi ricerca e la ricercata deve essere stabilito in maniera molto chiara, e essere sempre messo a critica, altrimenti tu semplicemente vai a chiedere a qualcuno qualcosa e poi te lo riporti a casa. Invece anche lì deve costruirsi una relazione. L’intersezionalità, secondo me, si può costruire così: riconoscendo le lotte delle altre e provando a portare il nostro supporto, mettendo in gioco i nostri corpi e i nostri privilegi, come ha fatto Carola, per esempio.

L’intersezionalità si può intendere dal punto di vista delle lotte anche in termini di efficacia, nel senso che una lotta che scinde, che mette avanti delle cose lasciandone indietro altre, è una lotta più debole. Quindi solo se teniamo insieme tutti gli aspetti delle nostre oppressioni, poi possiamo avere la forza di distruggerle, di superarle. I vari assi di composizione dell’io si intrecciano talmente tanto nella vita delle persone che tu puoi farne valere l’uno o l’altro solo in termini strategici, ma non li puoi scindere, perché nella vita delle persone non viene prima uno, poi l’altro

L’intersezionalità mi sembra un ottimo concetto teorico per chi fa politica, permette di evitare alcuni errori, lasciando indietro una rivendicazione per perseguirne un’altra; però dal punto di vista della presa di coscienza di chi dovrebbe appunto attivarsi politicamente mi sembra difficile, perché è proprio teoricamente molto denso.

Mi sono dimenticata di dire una cosa fondamentale. Ovvero che oggi il concetto di intersezionalità è messo a critica in maniera molto dura da alcune attiviste nere, per esempio, che vivono in occidente e che dicono “l’intersezionalità è stata per molte donne bianche una specie di black washing delle proprie politiche, per cui, un po’ come con i postcolonial, basta che tu dica: “io sono bianca, quindi riconosco il mio privilegio e quindi sono a posto, non serve che faccia altro per mettere in discussione questo mio posizionamento”. Quindi l’intersezionalità è diventata un po’ un’arma a doppio taglio. Però resta il fatto che chi l’ha nominata per la prima volta era una donna nera, Crenshaw.

Conta sempre nel femminismo chi parla e da dove. Se ne parlo io, che sono donna bianca, media, può essere una cosa che non parla direttamente della mia esperienza, intesa in termini femministi, quindi l’agglomerato di privilegi e forme di oppressione che mi porto dietro nella mia vita. Se lo dice una donna nera, lo dice negli anni ’80, nell’America della prison industrial complex, in cui le donne nere e le donne trans finivano in galera molto di più, ha un altro significato, perché lo dice lei: “c’è bisogno di intersezionalità”. Se lo dico io, rischia di diventare una forma di ripulimento del mio discorso e allo stesso tempo di colonizzazione di quello dell’altra. Oggi questo termine è appunto messo in discussione perché è diventato quasi neutro: siamo tutti intersezionali, un po’ come una volta tutti erano queer, e quindi alla fine non si capiva bene quale fosse l’elemento critico e conflittuale dell’esserlo, e quindi effettivamente l’intersezionalità è un concetto trick. Non è assunto criticamente. Non per niente io prima vi dicevo che il punto per me è sentire la parola dell’altra. Cioè l’unico modo di fare intersezionalità, se esiste ancora, è quello di mettermi in relazione con le altre donne. Altrimenti diventa solo un’evocazione astratta, molto utile come dici tu per fare discorsi politicamente corretti, ma non efficace dal punto di vista della soggettivazione reale. 

L’intersezionalità mi sembra un ottimo concetto teorico per chi fa politica, permette di evitare alcuni errori, lasciando indietro una rivendicazione per perseguirne un’altra; però dal punto di vista della presa di coscienza di chi dovrebbe appunto attivarsi politicamente mi sembra difficile, perché è proprio teoricamente molto denso.

Allora, qui proviamo un po’ a rispondere teoricamente. Fatalità ho appena comprato l’ultimo libro che ha scritto Federico Zappino, Comunismo queer. E proprio il primo capitolo si intitola L’eterosessualità come forma di produzione. Lui dice: il punto non è tanto fare un’analisi che è comunque corretta, un po’ foucaultiana diciamo, del fatto che il neoliberalismo è un sistema di estrazione e di produzione tipicamente inclusivo e includente, da cui le politiche di diversity managment, come dicevate voi, pink washing, ecc… Il neoliberismo funziona così: come un grande sistema di inclusione e di valorizzazione, ma noi ci dimentichiamo che in questa forma di inclusione, valorizzazione e estrazione, esistono sempre delle gerarchie: non esisterà mai il gay bianco anche D&G che sarà considerato uguale al maschio bianco etero, dentro il capitalismo. Perché il capitalismo è fondato sull’eterosessualità, non tanto sul maschilismo, ma sull’eterosessualità come forma della produzione delle soggettività, che viene ben prima della classe intesa in termini marxiani.

Da qui poi mi viene la domanda: cosa intendiamo per classe? Io non è che penso che la classe non sia un elemento fondamentale di soggettivazione e di organizzazione, dipende da come definiamo la classe. Oggi potremmo immaginarci che chi non fa parte dei vertici della gerarchia eterosessuale, con la dovuta coscienza di classe, possa diventare classe in sé, perché produce. Perché diventa classe dal momento in cui produce, il capitale la fa produrre, a seconda delle sue caratteristiche. Era il proletariato, adesso per esempio possiamo dire che le donne sono messe a produzione in un certo modo, come dicevamo prima. E questo è il nesso inscindibile fra capitalismo e regime eterosessuale, intendendo l’eterosessualità come la matrice fondativa della nostra società; non come un orientamento possibile, ma come l’orientamento unico possibile nel nostro mondo, che produce soggettività, valore, che permette continua estrazione dalle forme di riproduzione – e qua entra la critica femminista al marxismo.

Federico dice: rivediamo la cumulazione originaria di Marx, cosa dice? A un certo punto, c’è una nuova forma di produzione, deve nascere il proletariato, ma come facevano a costruire una classe di proletari laddove esistevano comunità che producevano e riproducevano relazioni di valore al loro interno con forme di cooperazione differenti, in cui la riproduzione della specie era affidata alle donne…Fanno le enclosures, le recinzioni dei campi. Non era tanto togliere la terra alle comunità e ai villaggi, ma il punto era rendere queste persone che vivevano la vita, il bios intendo, quindi la vita relazionale riproduttiva di queste comunità, completamente vuota e atomizzata. Contestualmente il capitale cosa fa in quella fase? La cumulazione originaria non è soltanto l’espropriazione di quelle terre e la costruzione delle fabbriche prigioni in cui poi i lavoratori venivano messi per essere risocializzati alla nuova forma di riproduzione. Insieme a tutto questo cosa avviene? Nasce la scienza naturale, occidentale moderna. Nasce la modernità e il razionalismo. La caccia alle streghe non è un passaggio eventuale nella nascita del capitalismo, la caccia alle streghe è necessaria al capitalismo per costruire una nuova razionalità. Infatti nelle comunità le donne vengono bruciate. Il capitalismo nasce sulle ceneri delle streghe che ha bruciato perché doveva costruire una nuova scienza, che fatalità è una scienza che si presume oggettiva, maschile, istituzionale (tutto il resto è superstizione) e questi sono elementi che vanno tutti insieme. Il capitalismo non si sarebbe sviluppato senza questo elemento.

Oggi, a me viene da dire che questo è uno dei fondamentali, nel senso che senza l’adesione totale alla nuova ideologia naturalistica, non si sarebbe potuto produrre una “verità”. Cosa dice la scienza a un certo punto? Dice: tu sei donna e ti devi riprodurre, se non lo fai diventi isterica; lui è omosessuale, quindi è contro-natura. Cioè la scienza diventa la nuova forma di legittimazione delle differenze delle soggettività costruite per la riproduzione sociale capitalista. Serviva la famiglia, serviva la famiglia tradizionale, serviva la donna in un certo ruolo, chiusa in casa, e se non va l’uomo, fuori a produrre. Come si fa a non vedere il genere? La fondamentalità della costruzione del genere all’interno del capitalismo? Esso va avanti con la divisione di genere. Questa viene costruita alla nascita del capitalismo, in questi termini. Il patriarcato c’era già, ma viene costruita per rendere più produttiva possibile e riproducibile la nuova società.

Passo a un altro ordine di questioni, legato al desiderio. Di fronte a un sistema che ti invita costantemente a godere, in che modo si può dire che il desiderio possa essere una chiave antisistemica?

Uno degli hashtag del movimento NUDM è #cimuoveildesiderio. Il capitalismo sussume e valorizza, non è che produce. Il desiderio è nostro, lui l’ha tradotto in qualcosa che può essere valorizzabile e depotenziato della carica conflittuale che ha, ma il desiderio è nostro. Pensate a L’antiedipo, alle macchine desideranti di Deleuze e Guattari, che parlano dell’esplosione dei movimenti nel ’68 e individuano là dentro il vero desiderio: questo è stato il vero problema per il sistema, perché durante quelle contestazioni si è espressa la distruzione dell’architettura eterosessuale attraverso libero amore ecc… e la lotta. Questo ha scompaginato tutto a riprova del fatto che il desiderio è nostro. Il neoliberismo funziona per sussunzione, ma di tutto, per rendere tutto produttivo, valorizzabile e utile alla riproduzione del sistema stesso, per cui i tuoi desideri devono essere compatibili e aderenti al progetto. Ma nella psiche e nel corpo ciò crea un conflitto: tu pensi di seguire un desiderio, invece a un certo punto entri in contraddizione con te stessa perché stai riproducendo quello che ti viene presentato e imposto come desiderio (ad es.: essere imprenditori di sé stessi). Quindi il vero desiderio è liberarsi dal desiderio indotto dal capitale. E saper nominare il primo per quello che è. 

Il movimento femminista ha dichiarato recentemente (in occasione delle elezioni europee) di non fare riferimento ad alcun partito. Rifiutate la rappresentanza politica e la forma partito come mediatore di rivendicazioni che vengono dal basso? Pensate che un’azione politica a lunga durata (come il progetto di ristrutturazione sistemica che portate avanti) possa svilupparsi senza contatto con il piano istituzionale?

Questa è una grande questione, quella del “adesso che famo?”. Abbiamo fatto manifestazioni gigantesche in tutto il mondo, è il primo movimento – dico da anni -radicalissimo nei contenuti, nelle pratiche, negli obiettivi. Ad ogni botta facciamo centinaia di migliaia di persone in piazza; però intanto abbiamo Salvini e Di Maio. Non è che possiamo fare finta di vivere su una collina isolata dal mondo. Questo è un problema e però in questo caso posso parlare per me. Non abbiamo ancora fatto tanto dibattito ed è un argomento spinoso anche dentro a NUDM. Per ora in NUDM si è risolto con quel comunicato che tu hai citato, che è condiviso da tutte, e cioè che non esiste che partiti di qualunque tipo colonizzino o si approprino delle istanze del movimento, questa è una cosa inaccettabile. Però questa cosa è avvenuta nel momento in cui alcune compagne del movimento si sono candidate, in maniera singola, seppur chiaramente riconoscibili, perché erano punte di diamante del movimento in alcune città e son state da alcune criticate ferocemente, proprio perché, essendo così riconoscibili, rischiavano di contaminare l’autonomia di NUDM.

Di fronte a questo caso alcune domande ce le siamo fatte: che cosa vogliamo noi? Non vogliamo che i partiti, giustamente, si approprino dei nostri discorsi; non vogliamo neanche che le compagne entrino nei partiti e portino avanti le istanze di NUDM; non vogliamo questi governi: è un cul de sac, a un certo punto. Dal mio punto di vista, in qualche modo dobbiamo essere capaci di intervenire su quello che c’è adesso e contemporaneamente, come sempre – un occhio all’immediato e uno all’infinito – essere capaci di immaginarci altre forme, come già stiamo facendo. Possiamo costruire altre società, ma dobbiamo anche fare i conti con la società che c’è perché noi ci viviamo dentro e non c’è un fuori. Fare questo significa anche mettere le mani nella merda, avere il coraggio di farlo apertamente e proprio perché lo fai apertamente di mettere in atto tutti i dispositivi di controllo, di confronto in modo di evitare i rischi di derive strambe, mantenendo una discussione democratica su ciò che si fa. Perché finché si censura qualcosa, quel qualcosa verrà fatto di nascosto e male.

Ma di queste cose si discute nelle vostre assemblee? 

Come dicevo, non ancora a questo livello. Prima parlavamo di tre livelli di pratica politica: soggettivazione, organizzazione e attacco. Noi siamo nelle prime due fasi, stiamo lavorando tantissimo sul piano della costruzione di una soggettivazione forte, determinata e articolata e dell’organizzazione di questa soggettività. Anche le forme di mutualismo di cui parlavo prima sono in fieri, le stiamo inventando adesso, stiamo capendo quali sono le forme migliori, quelle che funzionano nell’immediato e che si possono espandere. Le elezioni europee sono arrivate come una bomba e hanno anticipato una domanda decisiva in un processo che era ancora in corso. Questo non è un tabù, non abbiamo avuto il tempo, considerate anche che siamo tante e costruire un’assemblea nazionale richiede mesi e ci sono sempre un sacco di robe di cui discutere e dare le priorità giuste è sempre complicato. Quindi, sicuramente se ne discuterà, però non è stato fino ad ora nell’agenda prioritaria.

C’è un ulteriore elemento che mi viene in mente adesso, a proposito del piano territoriale. Ci penso tantissimo in questo periodo: o noi abbiamo la prospettiva almeno europea, o rimarremo impiantate in dinamiche nazionali complicate e che non saranno mai sufficienti. Probabilmente una cosa che potrebbe aver senso sarebbe chiamare un’assemblea almeno europea, seria e operativa, in cui ci si interroga su questo.

Una domanda sul linguaggio e sulla funzione della provocazione durante le manifestazioni transfemministe. In primo luogo avete una riflessione condivisa sul linguaggio? Quali sono le strategie che mettete in pratica durante i momenti pubblici per essere comunicative al massimo e quanto invece pensate che sia necessaria la provocazione per destare l’attenzione della gente?

Parto dalla provocazione. Che coinvolge sia il modo in cui sei visibile nello spazio pubblico, sia il linguaggio che può essere anche quello provocatorio. Esso, in quelle situazioni pubbliche, va nella direzione di creare un immaginario. La questione è: allo stesso tempo trovare il modo di essere comprensibile e creare una rottura, un qualcosa che sia completamente inaspettato agli occhi di chi è abituato a una certa ritualità di piazza. Sulla comprensibilità, rispetto all’uso anche di certi termini, è una questione che ci poniamo noi stesse, a proposito di un linguaggio che sia non solo inclusivo, ma anche comprensibile. Comunque se anche non arriva subito il significato del termine transfemminismo, che cosa sia il transfemminismo un po’ lo vedi, con le pratiche di piazza, con i corpi che sono in piazza. Bisogna provare anche a determinare una rottura. Su questa esigenza magari a volte si sacrifica la comprensibilità, però uno ci stiamo lavorando, due ci si può arrivare anche in un secondo momento. 

Fa parte anche della critica radicale all’ideologia del decoro: cioè fa parte della costruzione del genere essere per bene, adeguate, composte, non andarsela a cercare; la violenza di genere come sappiamo si declina in tantissimi modi, anche nelle forme di colpevolizzazione, di vittimizzazione secondaria… Riappropriarsi della libertà del proprio corpo e anche della indecorosità (come diciamo spesso negli slogan) è reagire al fatto che il nostro corpo è stato sessuato in termini patriarcali, quindi messo a disposizione come corpo da usare, da scopare, da desiderare in termini sessuali in questo senso, riappropriarsene come corpo proprio e eccedente quella griglia di valorizzazione è una forma di lotta politica. Cioè, non me ne frega un cazzo se a te dà fastidio, se ti scandalizzo, anzi, il mio obiettivo è anche scandalizzarti, rompere la logica di normalizzazione del fatto che tu mi vuoi o suora o puttana, perché non è che non ti piacciano le tette o non guardi i culi, però ci sono i luoghi adatti, c’è il manifesto per strada, c’è la trasmissione… però poi se sono io che uso il mio corpo liberamente sono scandalosa.

Vi racconto una roba bella che abbiamo fatto al concorso di Miss maglietta bagnata che c’è stato l’anno scorso al Portello. Noi abbiamo avuto un piccolo dibattito interno e a un certo punto abbiamo detto: l’unica risposta che possiamo dare, che non diventi moralizzatrice, colpevolizzante nei confronti delle tipe che vanno lì e fanno sto concorso è quella di rivendicare “tette libere per tutte”. Il punto non è tanto l’esibizione delle nostre tette. Il punto è che viene fatto su quel palco ad uso e consumo di maschi che poi ci fanno i soldi – quelli che organizzano – e i maschi che si fanno le seghe quando guardano le tette messe a disposizione come corpi senza testa, senza personalità. Solo tette e basta. Invece noi rivendichiamo le nostre tette come strumenti di emancipazione e lotta politica e di liberazione. Quindi abbiamo fatto ‘sta foto con i passamontagna e le tette nude e facendo con le mani il segno femminista e abbiamo fatto il botto. Il rischio è sempre che qualcuno ci rimanga un po’ così, ma succedono tante cose nella vita per cui uno può sopravvivere.