I
Al fine di realizzare, nel rispetto degli ordinamenti della scuola, dello Stato e delle competenze e delle responsabilità proprie del personale ispettivo, direttivo e docente, la partecipazione nella gestione della scuola dando ad essa il carattere di una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica, sono istituiti, a livello di circolo, di istituto, distrettuale, provinciale e nazionale, gli organi collegiali di cui agli articoli successivi.
Decreti delegati (1973-4)
Il sistema educativo di istruzione e di formazione è finalizzato alla crescita e alla valorizzazione della persona umana, nel rispetto dei ritmi dell’età evolutiva, delle differenze e dell’identità di ciascuno, nel quadro della cooperazione tra scuola e genitori, in coerenza con le disposizioni in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche e secondo i principi sanciti dalla Costituzione e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Legge Berlinguer (2000)
Iniziamo dalle parole. I primi paragrafi delle leggi, quando sono ben fatte, contengono un sunto del sistema concettuale che orienta l’intero testo. I decreti delegati, che hanno istituito gli organi collegiali nei quali ancora si svolge parte consistente della vita scolastica, nascono dall’onda lunga del ’68, risultato del fermento e del conflitto che attraversa la scuola italiana all’inizio degli anni Settanta; un quarto di secolo li separa dalla riforma Berlinguer, legge che non entrerà mai in vigore ma la cui premessa sarà traslata, pari pari, nella riforma Moratti del 2003. Al centro di ciascuna dichiarazione d’intenti, due concetti: da una parte la comunità, dall’altra la persona umana. Attorno a collettività e singolo altre parole collaborano, fino a formare quella figura che, nei giochi dei bimbi, emerge dalla congiunzione dei puntini numerati: da una parte responsabilità, partecipazione alla gestione, comunità sociale e civica, dall’altra crescita e valorizzazione, differenze e identità di ciascuno. Più che le parti politiche che hanno collaborato alla redazione dei testi, conta il senso comune che in essi trova espressione: la scuola è uno specchio della società, e queste poche linee definiscono due modelli teorici diversi.
Diversi però non significa contrapposti. Negli stessi anni che vedono la nascita degli organi collegiali nella scuola italiana c’è una piccola rivoluzione: scompaiono le classi differenziali per alunni con handicap, che vengono integrati all’interno delle classi cosiddette normali. La comunità scolastica cui si fa riferimento è complessa, esattamente come è complessa e diversificata la società; al suo interno si impara a stabilire i rapporti con l’alterità, anche a partire da quella cognitiva, perché la scuola ha la funzione fondamentale di fornire una prima esperienza formalizzata di quelle relazioni extra-familiari che caratterizzeranno tutta l’esistenza dell’individuo adulto. Da quasi mezzo secolo la scomparsa delle classi differenziali costituisce un vanto per la scuola italiana, che non trova corrispettivi in molti paesi europei, dove le separazioni continuano a permanere già a partire dalle classi elementari.
Non è possibile inserire un alunno con disabilità all’interno di una classe senza prevedere strumenti e mezzi grazie ai quali egli potrà affrontare al meglio il proprio percorso scolastico. A partire dagli anni Novanta, una lunga serie di leggi, raccomandazioni e note ministeriali ha via via precisato quali strumenti compensativi e dispensativi possono agevolare l’integrazione delle differenze, spingendo contemporaneamente sulla particolarità di ogni studente e sulla non riducibilità del singolo. È la ratio che orienta la non applicata riforma Berlinguer, ma anche quella dell’on. Moratti e tutte le altre che le hanno seguite. «La crescita e la valorizzazione della persona umana, nel rispetto dei ritmi dell’età evolutiva, delle differenze e dell’identità di ciascuno»: non esistono norma e normalità, tutti gli studenti hanno la loro individualità spiccata, con punti di forza e debolezza, che devono essere valorizzati o colmati attraverso una progressiva individualizzazione e personalizzazione dell’istruzione.
In parziale contrasto con le dichiarazioni programmatiche, la normativa si trova però davanti a un problema pratico: come far sì che tutti abbiano secondo le proprie necessità, i propri bisogni? La soluzione trovata è quella di definire alcune categorie: la disabilità più o meno grave (legge 104 art. 3 comma 1 e art. 3 comma 3), i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (legge 270), i Bisogni Educativi Speciali. Quest’ultima non è che una macrocategoria, all’interno della quale si inseriscono tutti gli alunni che per diversi motivi hanno bisogno di un piano educativo personalizzato, di una didattica individualizzata quindi: alunni con difficoltà linguistiche, socioeconomiche, con problematiche relazionali, ma anche gifted boy, plusdotati o superdotati.
II
Il superdotato vive una vita difficile: il suo alto potenziale cognitivo, dicono citando gli studi (ma quali?), lo porta spesso a sviluppare difficoltà di socializzazione e, in prospettiva, a rischiare l’abbandono scolastico più di altri studenti. Le sue capacità, dovute a una combinazione di fattori naturali e antropici – ha una buona testa ed è stato tirato su bene – paradossalmente gli creano delle difficoltà, quando si trova fianco a fianco con i compagni. «Essi non riescono ad adattarsi ad una metodologia di insegnamento-apprendimento che schiaccia la loro creatività, blocca la curiosità intellettuale, non diversifica le metodologie e le prassi, preferendo modalità rigide, incapaci di flessibilizzare la didattica a seconda dei bisogni e delle inclinazioni personali. In una parola: non coltivano il talento di ciascuno». La didattica dovrà quindi modellarsi secondo le loro esigenze, esattamente come fa per gli alunni in difficoltà in altri versanti, e più in generale come dovrebbe essere per tutti gli studenti. Che fare?
Giacomino, il nostro genietto, durante le lezioni spesso si annoia. Capisce al volo i contenuti, sembra non abbia bisogno di studiare, esegue gli esercizi assegnati nella metà del tempo che impiega la classe, chiede costantemente di poter approfondire alcuni argomenti. Inoltre, rompe un po’ le scatole: rivolge delle domande complesse al docente, che non sempre le accoglie con la giusta apertura. La didattica è pensata per l’intera classe, non si possono variare troppo i ritmi; inoltre il professore coglie nelle parole di Giacomino un tono che, a tratti, potrebbe sembrare di sfida. I compagni guardano il secchione e un po’ lo ammirano, un po’ lo invidiano, e comunque lo sfottono. La scuola, in ottemperanza alla normativa italiana ed europea, decide di prendere provvedimenti.
Il consiglio di classe (CdC), in conformità alla legislazione e alle circolari ministeriali, affronta il caso di Giacomino all’interno della più generale categoria dei BES: in effetti il suo è un bisogno educativo speciale, al pari di quello – pur diverso – di un madrelingua inglese o nigeriano che si trovi in Italia, o di un ragazzo in affidamento, o di mille altri casi. In quanto tale, deve essere predisposto per lui un piano educativo personalizzato, o PDP, grazie al quale si definiscono le caratteristiche del soggetto e gli obiettivi di apprendimento, a partire dalle zone di sviluppo prossimale e dalla considerazione della plusdotazione come risorsa da condividere in classe. Fatto questo, tutto il CdC declinerà il PDP del ragazzo con BES, ad esempio proponendo ulteriori sviluppi delle UDA affrontate in classe, o facendogli organizzare esposizioni, anche CLIL, e comunque affiancandolo al 104 e ai due DSA, non prima di essersi sincerati che nel PEI e nel PDP del 104 e nei PDP dei DSA sia presente la spunta sull’opzione ‘incoraggiare l’apprendimento collaborativo’. Il gifted boy non solo migliorerà secondo i propri ritmi, ma contribuirà alla collettività mettendo a disposizione di tutti il proprio dono.
Le lezioni prendono così un altro ritmo: non solo Giacomino vede valorizzato il proprio valore, ma anche gli altri compagni comprendono le proprie possibilità ed escono dall’anonimato sonnacchioso in cui erano rinchiusi. Da elemento della classe (singolare collettivo, di per sé veicolo di anonimato) ciascuno studente diviene persona, e i professori scoprono – ma d’altra parte la legge e gli studi già glielo dicevano – che ciascuno è diverso, che non esiste un parametro oggettivo e univoco di misurazione delle capacità ma che le intelligenze sono multiple e differenziate, che vanno insomma prese per il verso giusto. La didattica individualizzata non sarà solo per Giacomino, superdotato, per Giulia, disabile, per Clelia e Mirco, dislessico e discalculico, per Destiny, nigeriana, Iosiph, moldavo, e Maicol, che ha la mamma sola che non si sa bene cosa faccia per vivere e un po’ risente della situazione, ma anche per Carlo, che non ama la matematica ma ha una spiccata intelligenza cinestetica (il prof di ginnastica discetta sul fatto che «almanco ‘l zuga bén a balón» e pronostica future convocazioni), Maria dalla spiccata intelligenza musicale (suona il flauto dolce come una dea) e Luca che, dotato di straordinaria intelligenza etica, non si piega mai ai soprusi, e gli è pure toccato fare un occhio nero a un bullo – di un’altra classe, ma anche lui col PDP. I compiti in classe e a casa saranno diversi per ogni studente, tarati secondo le valutazioni fatte dal consiglio di classe, se necessario assieme a tutti gli attori interessati. Le differenze di ognuno saranno messe a valore, liberate dalla norma omologante della classe e messe in risalto sotto l’egida della persona. Ciascuno di questi ragazzi sarà libero di sviluppare la propria intelligenza, di modo da mettere a frutto al meglio le specifiche capacità, garantendosi un destino di realizzazione e felicità, al contempo contribuendo «allo sviluppo del capitale umano e dei giovani che rappresenta, in una società complessa come quella attuale, uno dei più importanti fattori competitivi per raggiungere gli obiettivi di una crescita intelligente, inclusiva e sostenibile che anche l’Europa si pone per il 2020».
III
Se le cose stanno così nello spirito della normativa, la realtà è un po’ diversa. Tuttavia, l’applicazione ideale del modello educativo che si è provata a tratteggiare è intanto utile per riflettere sui suoi risvolti pedagogici. L’interazione fra individuo-alunno (inteso nella sua differenza) e comunità-classe non è mai semplice e si definisce attraverso diversi passaggi.
In generale, il nostro modello di convivenza prevede che la libertà del soggetto sia limitata dall’esistenza degli altri entro lo spazio della comunità, così che la tendenza all’espansione infinita e narcisistica del sé da parte del bambino e dell’adolescente in formazione venga via via contenuta dallo scontro con la realtà, cioè dai divieti, dalle imposizioni, dalle strutture e istituzioni preesistenti con le quali si trova a fare i conti. Dalla puntualità al saluto fra conoscenti fino allo stigma sociale (prima che giuridico) su stupro e omicidio, la limitazione progressiva della libertà del soggetto è alla base della stessa esistenza di una comunità, e viene costruita in dialogo e scontro con la comunità stessa. La personalità si costruisce anche attraverso il limite che il bambino e l’adolescente incontra, importante almeno come l’atto creativo, se non di più.
La scuola creativa è il coronamento della scuola attiva: nella prima fase si tende a disciplinare, quindi anche a livellare, a ottenere una certa specie di «conformismo» che si può chiamare «dinamico»; nella fase creativa, sul fondamento raggiunto di «collettivizzazione» del tipo sociale, si tende a espandere la personalità, divenuta autonoma e responsabile, ma con una coscienza morale e sociale solida e omogenea.
La limitazione del sé e l’espressione del sé non sono contrastanti, sono consequenziali e legati fra loro, ci dice Gramsci. Non ci si può esprimere da un punto di vista sociale, lavorativo, artistico se prima non vi è stato uno scontro con un limite (gli altri, le istituzioni, l’organizzazione) in grado di dare una forma alla propria libertà e al proprio desiderio. La prospettiva neoliberale ritiene invece che questa funzione modellizzante possa essere assolta dal mercato, che fornisce il materiale merceologico e consumistico adatto alla più varia definizione e differenziazione del soggetto, costruendo un formidabile volano per mantenere in accelerazione il ciclo produzione-consumo-distruzione (ne parliamo nella sezione Mondi della merce). L’individuo deve presentarsi solo al bazar, e diventa persona consumando. In questa direzione, le linee pedagogiche à la page, che mirano alla personalizzazione della didattica, evitano sempre più la proposta della comunità come soggetto collettivo capace di svolgere un ruolo di formalizzazione.
Giacomino non deve scontrarsi contro le difficoltà e le insicurezze dei suoi compagni, con le conseguenti frustrazioni e con i dolori derivanti; deve sviluppare serenamente la propria genialità per contribuire al progresso collettivo. L’armonia dello sviluppo, l’assenza del trauma, la riduzione del grado di incidenza del mondo sul sé sono elementi fondamentali, finanche contraddittori, che vengono ostracizzati. In questo modo però la forma più alta di realizzazione, quella che ha come interlocutori e limiti l’altro, gli altri, la comunità, è intralciata dalla scuola, che spinge a considerare la realizzazione come realizzazione del sé punto. La scuola, comunità ristretta in cui è più facile mostrare le estreme conseguenze di una posizione teorica, ci palesa l’essenza dell’individualismo.
IV
La realtà, si diceva, è un po’ diversa. Le richieste di personalizzazione del programma non riescono in realtà ad essere soddisfatte, sia per la forza d’inerzia del sistema scuola (nel quale sono coinvolti milioni di persone, difficile quindi da cambiare radicalmente) sia per l’effettiva impossibilità di realizzare queste indicazioni.
Come si può pragmaticamente individualizzare il programma degli studenti, la valutazione, gli apprendimenti e le competenze continuando comunque ad avere una classe? Come valorizzare ogni singola differenza? Cosa fare di chi non è né bravo né problematico, dei medi o mediocri? Sono domande cui, nella pratica, si risponde con un taglio netto.
Le differenze, anche per la facoltà sintetica della mente umana, sono ridotte a identità. La legge fornisce gli strumenti che poi, nelle aule insegnanti, sono impiegati per normalizzare brutalmente le differenze, che inoltre subiscono un processo di medicalizzazione e burocratizzazione. I ragazzi allora saranno «un 104», ulteriormente suddiviso in «un art. 3 comma 1» o «un art. 3 comma 3», «un BES», «un DSA»; per ogni caso dovrà essere prodotta la specifica documentazione prevista dalla normativa; mentre i ragazzi con certificazione, segnalazione o attenzione aumentano, diminuiscono i docenti di sostegno, unica vera risorsa per molte fra queste situazioni.
Giulio ha un PDP per dislessia, è quindi un DSA. Il consiglio di classe ha deciso di dargli del tempo in più e la possibilità di studiare ascoltando un audiolibro; l’ascolto gli rende più agevole seguire le parole stampate e, nonostante la dislessia non scomparirà, ci sono dei buoni miglioramenti.
Andrea ha un PDP per dislessia, è quindi un DSA; anche se è chiaro a tutti i docenti che il suo problema non è a livello di lettura, ma qualcosa d’altro di sottile, difficile da definire, la normativa fa il suo dovere: norma le differenze all’interno di categorie. Non è disabile, niente 104; non ha solo dei Bisogni Educativi Speciali: quindi è un DSA. Il suo PDP prevede che gli vengano lette le consegne degli esercizi che deve svolgere in classe, è dispensato dalla lettura ad alta voce, può impiegare del tempo in più per completare le verifiche, può usare degli schemi per aiutarsi nelle interrogazioni. «Non servirà a molto, ma è meglio di niente»: sarà DSA ma non si saprà mai bene perché; poi uscirà dalla scuola.
Mohammed ha dei bisogni educativi speciali perché è appena arrivato dall’Algeria con sua madre che non sa una parola di italiano, mentre il padre lavora in fabbrica per portare a casa il pane. Sono stati tagliati i fondi per organizzare un corso di lingua italiana, ma dal primo consiglio di classe Mohammed diventa un BES. La didattica individualizzata consisterà nel fargli fare meno compiti e dargli verifiche più facili. Forse ce la farà e forse no, chissà.
E Gessica, che ha un PDP come iperdotata? La bibliografia ci consiglia di fornirle contenuti personalizzati, farle esprimere in pubblico le proprie nuove acquisizioni, metterla in contatto con altri gifted boys, verificare le sue conoscenze all’inizio di un nuovo argomento così da esentarla dal fare quel che sa già, ad esempio dal lavorare coi propri compagni, per non farla annoiare. Forse imparerà a fare i conti con le proprie capacità, mettendole al servizio degli altri e rifiutando alcune delle misure previste dal PDP, imparando come a volte mostrare la propria intelligenza sia la cosa giusta, mentre a volte sia meglio usarla discretamente per capire gli altri; oppure sarà sulla cresta dell’onda a 35 anni, dopo decenni di addestramento. Forse sarà un po’ sola con il suo talento.
Per tutti loro, l’insegnante di classe dovrebbe dedicare un di più di attenzione con compiti personalizzati, minori o maggiori carichi di lavoro, stimoli e verifiche ad hoc. E i mediocri? I medi? I normali? Perché loro non hanno diritto a una didattica individualizzata, a un PDP? Nel mondo della differenza, la normalità diventa trasparente.
Per tutti loro, l’insegnante di classe dovrebbe dedicare un di più di attenzione con compiti personalizzati, minori o maggiori carichi di lavoro, stimoli e verifiche ad hoc. E i mediocri? I medi? I normali? Perché loro non hanno diritto a una didattica individualizzata, a un PDP? Nel mondo della differenza, la normalità diventa trasparente.
V
Come fare poi a valutare tutto questo? Serve uno strumento che, oggettivamente, misuri l’avanzamento differenziato delle diverse soggettività – così, di prima battuta sembrerebbe una contraddizione in termini! La normativa da alcuni anni spinge per la realizzazione di prove comuni che consentano a ciascun studente di misurare oggettivamente il proprio livello in relazione alle mediane ottenute dall’istituto. Oggettivamente, rispondendo a dieci o venti domande a scelta multipla, lo studente potrà apprezzare i risultati conseguiti e valutare globalmente la propria crescita.
Esistono poi le griglie di valutazione, che individualizzano un criterio astratto come 10 o 7 o 4, affiancandogli aggettivi come accurato, preciso, corretto, abbastanza corretto, poco corretto, scorretto. In questo modo il voto non sarà più solamente un freddo numero, ma verrà riempito di significato. Davvero? Molte griglie di valutazione su molti parametri permetteranno poi una triangolazione accurata del singolo studente.
L’altro strumento a disposizione dei docenti è riassunto dal concetto di competenza. La scuola non deve ragionare solo sugli apprendimenti ma anche sulla capacità di usare le proprie conoscenze in compiti pratici, mettendole proficuamente in atto anche all’interno della vita sociale. Non solo: alla fine dei tre cicli di istruzione, il Cdc è tenuto a stilare una certificazione delle competenze, che in modo ancor più brutale, attraverso un range di quattro valori (A, B, C, D: non numerici, che altrimenti i ragazzi pensano sia un voto!) definisce il soggetto la cui individualità si vorrebbe preservare a aiutare nello sviluppo. «Riconosce ed apprezza le diverse identità, le tradizioni culturali e religiose, in un’ottica di dialogo e di rispetto reciproco»: Brando, padre contadino e madre parrucchiera, separati, ottiene D a questa voce al termine della secondaria di secondo grado (SSG), come d’altra parte in quasi tutte le altre, e infatti (ma qual è la causa?) esce col sei, anche se in fondo è un ragazzo buono e gentile.
VI
Un discorso serio sulla scuola non ha luogo nell’arena delle contrapposizioni, soggetto da una parte e comunità dall’altra. Questo è il portato ideologico neoliberale, che sta in piedi solo a patto di accettare una premessa non esplicitata: che la società, in quanto tale, debba essere la ribalta dove l’individuo solo è messo in condizione di spendere le proprie carte. Già a scuola, in questi termini, se uno studente è più bravo, è giusto che lasci indietro gli altri. Afferma una nota pedagogista, specializzata in superdotati:
La Costituzione – e non solo – afferma che vi debbano essere “pari opportunità” fra gli individui. Ma al momento, a questa precisa fascia scolastica, tale principio non viene garantito, soprattutto per quanto riguarda il diritto allo studio. In qualche maniera, il concetto di ‘pari opportunità’ deve essere personalizzato: se, banalmente, mi annoio in classe perché quelle cose le so già fare e tu, docente, non mi dai qualche altro strumento per far sì che non perda altro tempo, ma possa arricchire le mie competenze e capacità, questa è una negazione di tale diritto.
La Costituzione in verità non parla mai di pari opportunità se non, in un passo, in termini completamente diversi, fra uomo e donna; probabilmente la studiosa aveva in mente l’articolo 3, uno dei più pertinenti, assieme al 33, in materia di istruzione:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge […]. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana […].
In sostanza, le pari opportunità (o più verosimilmente l’uguaglianza) sono davvero tali se partono dalla personalizzazione, dalla differenza. Se pensare solo alla classe in quanto comunità porta alla cattiva uguaglianza, quella dell’omologazione e dell’indottrinamento, concepire l’individuo come isolato nei propri bisogni e desideri porta all’estremo opposto, all’individualismo puro e alla lotta di tutti contro tutti. Un discorso serio sulla scuola, esattamente come un discorso serio sull’uguaglianza, deve partire proprio dall’ottica relazionale, dal legame che unisce i soggetti dando vita così alla comunità.