La mia lezione riguarda un tema sorprendentemente nuovo. Ci siamo talmente abituati a termini come “identità collettiva”, “gruppi identitari”, “politiche identitarie”, o anche “etnicità”, che è difficile ricordare quanto di recente essi siano riemersi nel vocabolario corrente e nel gergo del discorso politico. Per esempio, se guardate all’International Encyclopedia of the Social Sciences, pubblicata nel 1968 – scritta cioè a metà degli anni Sessanta – non troverete alcun risultato alla voce identità, fatta eccezione per l’identità psicosociale, di Erik Erikson, che si è occupato principalmente di temi come la cosiddetta “crisi d’identità” degli adolescenti che cercano di capire chi sono. […] Allo stesso modo etnicità, nell’Oxford English Dictionary dei primi anni Settanta, compare solamente come parola rara che significa “paganesimo e superstizione pagana”, riscontrabile in citazioni del XVIII secolo.
Insomma, si tratta di termini e concetti che entrano in uso solamente negli anni Sessanta. La loro comparsa è facilmente rintracciabile negli Stati Uniti, in parte perché sono sempre stati insolitamente interessati a monitorare la propria temperatura e la propria pressione sociale, e principalmente perché la forma più lampante di politica identitaria – ma non l’unica – cioè l’etnicità, è sempre stata centrale nella politica americana, sin dal momento in cui gli USA sono diventati una nazione di immigrazione di massa da tutta Europa. “Etnicità” nella sua nuova accezione compare per la prima volta in Beyond the Melting Pot di Glazer e Moynihan, nel 1963, e diventa un’ideologia vera e propria con The Rise of the Unmeltable Ethnicism di Michael Novak, nel 1972. Il primo, non serve che ve lo dica, è il lavoro di un professore irlandese ed ebreo, ora senatore senior per i democratici a New York; il secondo è di un cattolico di origini slovacche. Per il momento non ci soffermeremo troppo sul perché tutto ciò successe negli anni Sessanta, ma permettetemi di ricordarvi che – perlomeno in un paese precursore come gli USA – questo decennio vede anche l’emergere di altre due varianti delle politiche identitarie: il moderno movimento femminista (dopo il suffragismo) e il movimento gay.
Non voglio dire che prima degli anni Sessanta nessuno si ponesse domande sulla propria identità pubblica. In qualche caso limite era già accaduto; per esempio in Francia, nella zona industriale della Lorena, dove lingua e nazionalità ufficiali sono cambiate cinque volte in un secolo, e dove si è passati da una vita rurale ad una industriale e semi-urbana mentre le sue frontiere venivano ridisegnate per sette volte negli ultimi centocinquant’anni. Non sorprende che la gente dicesse: “I berlinesi sanno di essere berlinesi, e i parigini sanno di essere parigini, ma noi chi siamo?” Oppure, citando un’altra intervista: “Io vengo dalla Lorena, la mia cultura è tedesca, la mia nazionalità è francese, e io penso nel nostro dialetto locale”. In effetti, fatti come questo innescavano problemi di identità in un tempo in cui le persone non avevano le identità multiple e combinate che oggi sono naturali per la maggior parte di noi. E tanto più nel momento in cui venivano sconnesse dal proprio passato e da tutte le attività culturali della collettività. Tuttavia, fino agli anni Sessanta questi problemi di incertezza identitaria riguardavano solo aree marginali della politica. Non erano ancora determinanti.
Sembra che siano diventate molto più centrali negli anni Sessanta. Perché? Ci sono senza dubbio ragioni particolari nelle politiche e nelle istituzioni di questa o quella nazione – per esempio, nelle specifiche procedure imposte dalla costituzione degli USA, come le leggi sui diritti civili degli anni Cinquanta – che sono state prima applicate ai neri e poi estese alle donne, fornendo un modello per altri gruppi identitari. Specialmente nei paesi dove c’è una competizione elettorale tra partiti, può essere che costituirsi come gruppo identitario conceda dei concreti vantaggi politici: ad esempio con le agevolazioni a favore dei membri di certi gruppi, con le quote riservate nel lavoro e così via. Questo è un caso statunitense, ma non solo. In India, ad esempio, dove il governo si occupa di garantire equità sociale, può essere vantaggioso dichiarare di appartenere ad una casta inferiore o ad un gruppo aborigeno, così da godere dell’accesso a posti di lavoro garantiti a quei determinati gruppi.
1. Il rifiuto delle identità multiple
Ma dal mio punto di vista l’emergere delle politiche identitarie è la conseguenza di rapidi e profondi sconvolgimenti e trasformazioni della società nell’ultimo quarto di questo secolo, che ho tentato di descrivere e capire nella seconda parte della mia storia del “Secolo Breve”, L’età degli estremi. Questa visione non è solo mia. Il sociologo americano Daniel Bell, ad esempio, ha sostenuto nel 1975 che “la rottura delle tradizionali strutture di autorità e delle precedenti unità sociali e affettive – storicamente la nazione e la classe… ha reso più prominente la questione etnica”.
Sappiamo infatti che sia lo stato-nazione e i partiti di classe tradizionali, sia i movimenti, sono usciti indeboliti da queste trasformazioni. In più, abbiamo vissuto – e stiamo vivendo – un’enorme “rivoluzione culturale”, una “straordinaria dissoluzione delle tradizionali norme sociali, delle strutture e dei valori, che hanno lasciato orfani e traditi molti abitanti del mondo sviluppato”. Se posso continuare a citarmi, “la parola comunità non era mai stata tanto indiscriminatamente usata e svuotata quanto nelle decadi in cui le comunità, nel senso sociologico del termine, erano difficili da trovare nella vita reale”. Uomini e donne sono alla ricerca di gruppi cui appartenere, con sicurezza e indeterminatamente, in un mondo dove tutto il resto si muove e scorre altrove, dove niente è sicuro. E li trovano in un gruppo identitario. Di qui lo strano paradosso che, accidentalmente, il brillante, e per inciso caraibico, sociologo di Harvard, Orlando Patterson, ha individuato: le persone scelgono di appartenere ad un gruppo identitario, ma “si tratta di una scelta fondata sulla radicata e supposta convinzione che l’individuo non abbia assolutamente altra scelta che quella di appartenere a quello specifico gruppo”. Che sia una scelta talvolta può essere dimostrato. Il numero di americani che si definiscono “indiano-americano” o “nativo americano” è quasi quadruplicato tra il 1960 e il 1990, da circa mezzo milione a circa due milioni, che è molto di più di quanto possa essere spiegato con la semplice demografia; e, tra l’altro, dal momento che il 70 per cento dei “nativi americani” si sposa con coniugi di etnia diversa, è difficile stabilire chi sia esattamente un “nativo americano” dal punto di vista etnico.
Quindi, cosa capiamo da questa “identità” collettiva, questo sentimento di appartenenza ad un gruppo fondamentale, quali sono le sue basi? Vorrei portare quattro osservazioni alla vostra attenzione.
Primo, le identità collettive sono definite negativamente; cioè contro gli altri. “Noi” ci riconosciamo come tali perché siamo diversi da “loro”. Se non ci fosse un “loro” da cui poterci differenziare, non dovremmo domandarci chi siamo. Senza persone esterne non ci sono membri interni. In altre parole, le identità collettive non si fondano su quello che i loro membri hanno in comune – e possono avere davvero poco di condiviso oltre al non essere “gli altri”. Unionisti e nazionalisti a Belfast, o serbi, croati e musulmani bosniaci, che altrimenti sarebbero indistinguibili – parlano la stessa lingua, hanno lo stesso stile di vita, appaiono e si comportano allo stesso modo – accentuano la singola cosa che li divide, cioè la religione. Al contrario, cosa dà unità in quanto palestinesi ad una popolazione mista di musulmani di vario tipo, greci cattolici, greci ortodossi e altri che – come i loro vicini in Libano – potrebbero essere belligeranti l’uno con l’altro in altre circostanze? Il semplice fatto che non sono israeliani, come dopotutto le politiche israeliane non mancano di ricordare loro continuamente.
Ovviamente ci sono collettività che si fondano su caratteristiche oggettive che i loro membri condividono, come il sesso biologico o caratteristiche fisiche politicamente sensibili, come il colore della pelle e via così. Tuttavia, la maggior parte delle identità collettive somigliano più ad un abito che ad una pelle, vale a dire che, almeno in teoria, sono facoltative o non inevitabili. Malgrado la moda manipoli continuamente i nostri corpi, è ancora più semplice cambiare maglietta che un braccio. Molti gruppi identitari non si basano su oggettive somiglianze o differenze fisiche, anche se a tutti piace dichiarare che esse sono “naturali” piuttosto che socialmente costruite. Lo fanno sicuramente tutti i gruppi etnici.
Secondo, ne consegue che nella vita reale le identità, come i vestiti, sono intercambiabili o indossabili in combinazione e non uniche, come se fossero incollate al corpo. Ovviamente, come sa bene chi si occupa di sondaggi d’opinione, nessuno ha una sola identità. Anche solo per fini burocratici, le persone non possono essere descritte se non in termini di combinazioni di caratteristiche. Ma le politiche identitarie presuppongono che una tra le diverse identità che tutti abbiamo sia quella che determina o domina le nostre scelte politiche: essere una donna se sei femminista, essere protestante se sei un unionista di Antrim, essere catalano se sei un indipendentista catalano, essere omosessuale se sei nel movimento gay. E, ovviamente, che devi liberarti delle altre, poiché esse sono incompatibili con il te “reale”. Così David Selbourne, opinionista un po’ su tutto, ha fermamente invitato “l’ebreo in Inghilterra” a “smettere di fingere di essere inglese” e a riconoscere che la sua “reale” identità è quella di essere ebreo. Ciò è tanto pericoloso quanto assurdo. Non c’è alcuna incompatibilità pratica tra due identità, a meno che un’autorità esterna non ti dica che non puoi adottarle, o a meno che non sia fisicamente impossibile farlo. Se io volessi essere simultaneamente e fino in fondo un devoto cattolico, un devoto ebreo e un devoto buddista, perché non dovrei? L’unica ragione che mi fermerebbe è che le rispettive autorità religiose potrebbero dirmi che non posso combinarle, o che potrebbe essere impossibile praticare ogni rispettivo rituale perché alcuni entrerebbero in contraddizione con altri.
Solitamente le persone non hanno difficoltà a combinare più identità e questo, ovviamente, è alla base della politica generale in quanto distinta dalle politiche identitarie di parte. Spesso le persone non si curano nemmeno di scegliere un’identità, sia perché nessuno glielo chiede, sia perché sarebbe troppo complicato. Quando i cittadini statunitensi vengono interpellati riguardo alla loro origine etnica, il 54 per cento si rifiuta o è incapace di rispondere. Insomma, assumere una politica identitaria esclusiva non viene molto naturale alle persone. È più probabile che si sia costretti a sceglierla dall’esterno – nella maniera in cui serbi, croati e musulmani della Bosnia che vivevano, socializzavano e si sposavano tra di loro, sono stati forzati a separarsi; o in forme meno brutali.
La terza cosa da osservare è che le identità, o la loro espressione, non sono fissate stabilmente, anche supponendo che tu abbia scelto uno in particolare dei tuoi potenziali “io”, come Michael Portillo [politico e conduttore televisivo inglese] ha scelto di essere inglese invece che spagnolo. Possono spostarsi e possono cambiare, se necessario anche più volte. Per esempio, gruppi non-etnici, i cui i membri sono (tutti o quasi) neri o ebrei, si possono trasformare in gruppi coscientemente etnici. È quello che è successo alla Chiesa Cristiana Battista del Sud con Martin Luther King. Anche l’opposto è possibile, come quando l’IRA è passata dal nazionalismo feniano[organizzazione irlandese rivoluzionaria con lo scopo di creare una nazione irlandese indipendente dal Regno unito, fondata negli USA nel 1858] al costituirsi in un’organizzazione di classe, che è ora all’interno del Workers’ Party ed è parte del governo di coalizione della repubblica irlandese.
La quarta ed ultima cosa da dire sull’identità è che essa dipende dal contesto, il quale può cambiare. Pensiamo ai membri contribuenti e tesserati della comunità gay di Oxford e Cambridge negli anni Venti, che dopo la crisi del 1929 e l’ascesa di Hitler, passarono, secondo le loro parole, dall’Hominern al Comintern.[1] Burgess e Blunt per certi versi spostarono la loro omosessualità dalla sfera del pubblico a quella del privato. O consideriamo il caso dello studioso classicista tedesco e protestante, professore ordinario di Studi Classici a Londra, che scoprì improvvisamente che avrebbe dovuto emigrare dopo l’ascesa Hitler, in quanto ebreo secondo gli standard nazisti – un fatto di cui non era consapevole fino a quel momento. A prescindere da come si fosse definito prima di quel momento, ora doveva cercare un’identità diversa.
2. L’universalismo della sinistra
Cosa c’entra tutto ciò con la sinistra? I gruppi identitari certamente non erano centrali. Cioè, i movimenti sociali e politici di massa della sinistra, quelli ispirati dalle rivoluzioni Francese e Americana e dal socialismo, erano sì comunità o gruppi alleati, ma che non avevano un legame in obiettivi specifici di quel singolo gruppo, bensì in grandi cause universali, attraverso le quali ciascun gruppo intravedeva la realizzazione del proprio particolare obiettivo: la democrazia, la repubblica, il socialismo, il comunismo e così via. Il nostro Labour Party nei suoi giorni migliori era sia il partito di una classe e sia, tra le altre cose, il partito delle minoranze nazionali e delle comunità immigrate in Gran Bretagna. Ed era tutto ciò perché era un partito di uguaglianza e giustizia sociale.
Non dimentichiamoci che rivendica di essere fondato su una classe. I movimenti laburisti e socialisti non sono stati, mai e da nessuna parte, movimenti legati esclusivamente al proletariato nel senso stretto marxista. Tranne forse che in Gran Bretagna, non sarebbero potuti diventare i vasti movimenti che sono stati, perché nell’ultimo ventennio del XIX secolo, quando i partiti laburisti e socialisti di massa sbocciarono sulla scena come fiori in primavera, la classe operaia industriale non era che una piccola minoranza, e in ogni caso gran parte di essa non faceva parte di un’organizzazione socialista laburista. Ricordate che al tempo della Prima guerra mondiale, i social-democratici ottennero tra il 30 e il 47 per cento dei voti in paesi come la Danimarca, la Svezia e la Finlandia, che erano scarsamente industrializzate, proprio come la Germania (dove la percentuale di voti più alta ottenuta dal partito socialista, nel 1951, era del 48 per cento). E poi la ragione per cui i lavoratori stavano al centro non era una ragione di settore. I sindacati si occupavano degli interessi settoriali dei lavoratori salariati, ma una delle ragioni per cui le relazioni tra sindacati e relativi partiti non erano mai scevre da problemi, era proprio la pretesa di questi ultimi di avere obiettivi più inclusivi dei sindacati. La posizione socialista non dichiarava semplicemente che la maggior parte della gente era “lavoratrice manuale o intellettuale”[l’espressione “workers by hand or brain” è tratta dal manifesto del Labour Party], ma che i lavoratori costituivano il soggetto storicamente attivo del cambiamento sociale. Dunque, chiunque tu fossi e se volevi un futuro, avresti dovuto unirti al movimento dei lavoratori.
Dal lato opposto, quando il movimento laburista non divenne altro che un gruppo di rappresentanza settoriale dei lavoratori industriali, come negli anni ’70 in Gran Bretagna, perse sia la propria capacità di essere un centro potenziale della mobilitazione collettiva, sia la speranza di costruire un futuro. Il sindacalismo militante radicalizzò persone che non vi erano direttamente coinvolte ad un livello tale da concedere al governo Thatcher il suo argomento migliore – nonché una giustificazione per trasformare il partito-nazione dei Tory in una forza per la lotta di classe dall’alto sui salari. C’è di più: queste politiche identitarie proletarie non solo isolarono la classe operaia, ma la divisero stabilendo i gruppi dei lavoratori in antagonismo tra loro.
Dunque, cosa c’entrano le politiche identitarie con la sinistra? Lasciatemi chiarire definitivamente un fatto che non possiamo trascurare. Il progetto politico della sinistra è universale: è per tutti gli esseri umani. Possiamo interpretare queste parole in vario modo, ma non riguarda le libertà degli azionisti o dei neri, ma di tutti; non riguarda l’uguaglianza dei membri del Garrick Club[è un prestigioso Gentlemen’s club londinese fondato nel 1831] né quella delle persone disabili, ma quella di tutti; non riguarda la solidarietà tra i membri senior di Ethon o tra gay, ma tra tutti. E le politiche identitarie non sono per tutti ma, intrinsecamente, per i soli membri di un dato gruppo specifico. È il caso perfettamente evidente dei movimenti etnici o nazionalisti. Il nazionalismo sionista, a prescindere dalle nostre simpatie o meno, si rivolge solamente agli ebrei, e ignora – o meglio, bombarda – tutto il resto. Come tutti i nazionalismi. Il nazionalismo che si proclama per il diritto di tutti ad autodeterminarsi non è che una farsa.
Ecco perché la sinistra non può fondarsi a sua volta sulle politiche identitarie. Il suo programma politico è più ampio. Per la sinistra, l’Irlanda è storicamente stata una e solo una delle tante collettività sfruttate, oppresse e perseguitate per le quali ha combattuto. Per il nazionalismo dell’IRA, invece, la sinistra era ed è solamente uno dei tanti alleati nella lotta per i propri obiettivi in certe situazioni. In altre si è dimostrata pronta a dare appoggio ad Hitler, come alcuni suoi leader fecero durante la Seconda guerra mondiale. E questo vale per ogni gruppo che fa delle politiche identitarie il proprio fondamento, etnico o di altro tipo.
Ora, la maggiore ampiezza del programma politico della sinistra ovviamente implica il suo sostegno ai diversi gruppi identitari, perlomeno in certi casi, ed essi viceversa si rivolgono alla sinistra. Certe alleanze di questo tipo sono talmente consuete e radicate che la sinistra si sorprende quando finiscono, come quando le persone si stupiscono di un matrimonio che finisce dopo una vita intera. Negli USA sembra quasi contro natura che gli ethnics – cioè le masse di immigrati poveri e i loro discendenti – non votino più automaticamente per i democratici. Sembra quasi incredibile che un afroamericano possa addirittura considerare l’idea di candidarsi per un presidente americano repubblicano (sto pensando a Colin Powell). E ancora, gli interessi comuni degli irlandesi, degli italiani, degli ebrei e degli afroamericani nel partito democratico non erano una conseguenza delle loro particolari “etnicità”, anche se alcuni politici pragmatici hanno dimostrato rispetto nei loro confronti. Ciò che li univa era la domanda di uguaglianza e giustizia sociale, e un programma considerato in grado di far avanzare entrambe le parti.
3. L’interesse comune
Ma è proprio questo che in molti a sinistra hanno dimenticato, immergendosi a capofitto nelle politiche identitarie. A partire dagli anni ’70 c’è stata una tendenza – una tendenza in crescita – a vedere la sinistra essenzialmente come una coalizione di gruppi minoritari e interessi diversi: di razza, di genere, di orientamenti sessuali o culturali e di stili di vita, e anche di minoranze dal punto di vista economico come il classico sporcarsi-le-mani che una volta era la classe operaia industriale. Ed è abbastanza comprensibile, ma pericoloso, perché una maggioranza vincente non equivale ad una somma di minoranze.
Prima di tutto, lasciatemi ripetere: i gruppi identitari riguardano loro stessi e nessun altro. Una coalizione di questi gruppi che non sia tenuta insieme da una serie comune di obiettivi e valori ha un tipo di unità costruita ad hoc, come nazioni temporaneamente alleate in guerra contro un nemico comune. Si dividono non appena non si tengono più legate. In ogni caso, in quanto gruppi identitari, non fanno riferimento alla sinistra in quanto tale, ma solo per ottenere sostegno nei loro obiettivi quando è possibile. Pensiamo all’emancipazione delle donne come una causa intimamente legata alla sinistra, come certamente è stato sin primi momenti del socialismo, anche prima di Marx ed Engels; ma storicamente il movimento suffragista britannico prima del 1914 era un movimento di tutti e tre i partiti[oltre al Labour e ai Tory la scena era dominata dal Liberal Party], e la prima donna parlamentare, come sappiamo, era una Tory.
Secondo, qualsiasi sia la loro retorica, attualmente i movimenti e le organizzazioni delle politiche identitarie mobilitano solo minoranze, e in ogni caso ciò avviene prima di ottenere forza contrattuale e legale. Il sentimento nazionale potrà essere universale, ma per quanto io conosca, nessun partito nazionalista e secessionista attivo in stati democratici ha finora mai ottenuto i voti della maggioranza dell’elettorato (anche se i quebecchesi lo scorso autunno ci sono andati vicino – ma poi i nazionalisti si sono ben guardati dal pretendere esplicitamente una secessione completa). Non dico che non può o non potrà succedere – ma che il modo più sicuro per ottenere l’indipendenza nazionale con una secessione finora non è stato quello di chiederla con un voto alla popolazione, a meno che non fosse già ottenuta prima con altri mezzi.
Questo pone due ragioni pragmatiche per essere contro le politiche identitarie. Senza un obbligo o una pressione esterna, in circostanze normali difficilmente mobiliteranno più di una minoranza – perfino all’interno del loro gruppo destinatario. Perciò i tentativi di formare partiti politici femminili separati non è stata una via molto efficace per raccogliere il voto delle donne. L’altra ragione è che indurre le persone a scegliere una e una sola identità finisce per dividerle. E dunque isola quelle minoranze.
Di conseguenza, affidare una mobilitazione generale alle specifiche richieste di gruppi minoritari, i quali non corrispondono necessariamente con il loro elettorato, significa incontrare alcuni problemi. È una questione particolarmente evidente negli USA, dove le reazioni negative contro l’agevolazione di particolari minoranze e gli eccessi del multiculturalismo sono molto forti; ma il problema esiste anche qui.
Oggi sia la destra che la sinistra sono impegnate con le politiche identitarie. Sfortunatamente, il pericolo di infrangersi in una mera alleanza di minoranze è insolitamente maggiore per la sinistra, perché il disuso dei grandi slogan universalistici dell’Illuminismo, che erano essenzialmente gli slogan della sinistra, non ha lasciato alcuna ricetta per riformulare un interesse comune che superi le barriere tra gruppi. L’unico dei cosiddetti “new social movements” che ha superato ostacoli di questo tipo è quello degli ecologisti. Ma, ahimè, il suo portato politico è limitato e sembra resterà tale.
Tuttavia, c’è una forma di politica identitaria che è realmente comprensiva, fintantoché si basa su richieste comuni, o almeno all’interno dei confini di un solo stato: il nazionalismo dei cittadini. Osservato su scala globale può sembrare l’opposto di una richiesta universale, ma visto nella prospettiva dello stato-nazione, dove molti di noi vivono e probabilmente continueranno a vivere, esso fornisce un’identità comune, o nelle parole di Benedict Anderson, “una comunità immaginaria” ma non per questo meno reale. La destra, e specialmente la destra al governo, ha sempre cercato di monopolizzarlo e solitamente riesce a manipolarlo. Anche il thatcherismo, che ha sepolto il conservatorismo uninazionale dei Tory[2], lo ha fatto. Perfino il suo spettrale e morente successore, il governo Major, spera di evitare la sconfitta elettorale accusando i suoi avversari di non essere patriottici.
Perché è stato così difficile per la sinistra, di sicuro per la sinistra nei paesi anglosassoni, sentirsi rappresentativa della nazione intera? (Sto parlando ovviamente della nazione come comunità di persone in uno stato, non di un’entità etnica). Perché ha ritenuto difficile persino tentare nell’impresa? Dopotutto, la sinistra europea nacque quando una classe, o un’alleanza di classe, il Terzo Stato negli Stati generali francesi nel 1789, decise di proclamarsi “una nazione” contro la minoranza della classe dominante, creando così il concetto politico di “nazione”. In fondo anche Marx prevedeva questa trasformazione del Manifesto del Partito Comunista. Si potrebbe andare oltre. Todd Gitlin, uno dei migliori analisti della sinistra americana, ha scritto con forza nel suo nuovo libro, The Twilight of Common Dreams: “Che cos’è la sinistra se non, e come minimo, la voce di tutto popolo? Se non c’è un popolo, ma solamente persone, allora non c’è sinistra”. […]