1. Le monde est à nous

Con un alito tremendo ti ho

sussurrato nell’orecchio

«Bonjour mon amour»

aprendo la finestra 

sopra netturbini sopra nottambuli

svetta la gigantesca scritta coop

…e i cccp non ci sono più

È esistito un mondo in cui dire “mutuo” significava qualcosa di molto diverso dall’indebitarsi con una banca, in cui “coop” non era il logo tondeggiante e iconico di uno dei più famosi supermercati italiani. La storia di queste parole è legata alla sfera del sociale: l’espressione “mettersi in mutua” ci dice qualcosa in più, perché legata all’esperienza che ognuno di noi fa della malattia, dell’infortunio o del bisogno di un aiuto. Mutualismo e cooperazione sono oggi due sostantivi plastici, non entrano nel discorso comune e noi ne conosciamo solo i significati dimezzati; eppure illuminano sotterraneamente il panorama politico dei discorsi a sinistra, da moltissimo tempo. 

Il termine “mutuo” significa “scambievole, vicendevole, reciproco”, dal suono letterario, (oppure scientifico, quando in biologia si descrivono quelle specie che traggono reciproco vantaggio in convivenza) oggi sopravvive solo sostantivato, come una pratica bancaria per l’acquisto di beni, oppure in formule fissate dove compare come aggettivo: se ascoltate gli Area, le Orme o il Banco del mutuo soccorso. Ora in disuso, era una parola centrale per l’organizzazione della classe operaia dalla seconda metà dell’Ottocento, quando ovunque in Europa nascono le prime Società Operaie di Mutuo Soccorso, il cui scopo è fornire un’assistenza reciproca per un livello minimo di welfare: coprire ferie, incidenti, licenziamenti e malattie. Il principio che guida queste società non è proporzionale, perché i servizi sono garantiti a tutti i soci indipendentemente dal contributo economico di ciascuno. Spesso con i conti in rosso, poiché non è facile reperire le risorse necessarie, queste società si sono dotate in molti casi di una struttura d’impresa cooperativistica, in grado di mantenere continuità e solidità economica per l’erogazione dei servizi ai diversi soci. “Mutualismo” e “cooperativa” sono quindi termini strettamente legati nella stessa storia, operaia e di classe, pur con qualche contraddizione. Perché oggi, a sinistra, se ne parla poco o timidamente? 

Il bisogno di comunità tra eguali non viene da troppo lontano. Fu centrale per le rivolte contadine tra il XIV e il XVII secolo, quando ovunque in tutta Europa si diffusero lotte e proteste contro la privatizzazione delle terre demaniali, che si chiedeva di poter coltivare insieme perché lì le comunità vivevano. E possiamo trovarne un iconico fissaggio in un celebre motto della rivoluzione francese, composto di tre parole chiave: liberté, egalité, fraternité. Individui liberi, tra loro uguali, tra loro solidali. Se in qualche modo il primo termine del trinomio è l’unico su cui il nostro sistema economico abbia investito programmaticamente, soprattutto culturalmente, e il secondo sia stato e sia tuttora terreno di lotta dove si sono ottenuti rilevanti risultati (l’uguaglianza giuridica degli individui, ma pensiamo anche alle lotte operaie per ottenere diritti e salari, o alle lotte per i diritti civili negli anni Sessanta e Settanta), il terzo sembra essere invece assente tanto nel dibattito politico quanto nella pratica. 

Da un lato, la sfera umana dell’aiuto reciproco sembra essere appannaggio del discorso religioso. L’idea di fraternité si rintraccia nelle confraternite laiche, dove i fedeli si riuniscono con scopi di catechesi e di carità, e nel vivere comune dei membri delle congregazioni religiose – frati o suore, appunto. Ma ne porta segno anche il testo biblico, quando nel discorso delle Beatitudini vengono dichiarati salvi non solo i poveri di spirito e i miti, ma anche i misericordiosi e gli operatori di pace: grande è la loro ricompensa nel regno dei cieli. 

Dall’altro, a sinistra, fraternité assume caratteri diversi. Il marxismo declina la parola in termini di solidarietà tra i membri della classe; un discorso a parte si può fare invece per una parola gemella, sorellanza, diffusasi a partire dagli anni Settanta nei movimenti femministi e oggi ancora molto presente. «Le donne non dicono “noi”», notava Simone De Beauvoir, indicando la necessità di una solidarietà tra donne che comporti reciproca assistenza, complicità di lotta e obiettivi comuni. 

FORME DI FRATERNITE’ CHE HANNO TALVOLTA PRESO LA STRDA DELLA COLLETTIVIZZAZIONE, DELLA COMUNE, DELL’AUTOGESTIONE

È tuttavia vero che le pratiche di solidarietà che puntano sulla fraternité, vale a dire il lavoro mutualistico, vengono talvolta screditate in quanto «il lavoro sociale lo fa pure la Caritas», «il mutualismo non è la lotta di classe», «così si trascura che fare politica è stare nel conflitto». È Ernesto Laclau, filosofo argentino noto per aver definito politicamente le ragioni del “populismo”, a dare una lettura di questa fallacia politica, chiamandola “riduzionismo di classe”. Idea per cui il soggetto sociale e politico responsabile del progresso storico e politico sarebbe riducibile, univocamente e in ultima istanza, alla classe lavoratrice – oppure, oggi più spesso, al momento dell’antagonismo e del conflitto: un riduzionismo di movimento. Non è una fallacia di poco conto, soprattutto se guardiamo lo stato del movimento oggi, spesso involuto nell’autoreferenzialità e nella cristallizzazione estetica dei pochi momenti di azione politica; mutualismo e cooperazione, considerato che richiedono tempo e spesa di rapporti umani anche faticosi, raramente rientrano tra questi. È anche per uscire da questa impasse, che alcune realtà sociali e politiche a sinistra hanno investito, negli ultimi anni, in pratiche mutualistiche. Aprendo sportelli di mutuo aiuto e di assistenza legale, corsi di formazione, servizi di carattere sanitario e, non per ultimo, occupandosi di mutualismo per superare l’emergenza sanitaria del covid-19. In che modo cavarne un senso politico che superi il mero assistenzialismo? Riappropriarsi del terzo vertice di quel trinomio rivoluzionario offre qualche soluzione in merito. Non solo perché significa anche lavorare sul conflitto capitale-lavoro, fornendo strumenti di lotta; non solo perché, in un momento di ristrutturazione economica e industriale pressoché ininterrotto dagli anni Ottanta, è essenziale un lavoro che permetta di riconoscersi tra chi è schierato dalla stessa parte; ma soprattutto perché il triangolo pensato dai giacobini non si regge su due soli vertici: ha bisogno di un equilibrio tra le parti che ne permetta una piena realizzazione e una collocazione reale nel mondo, coinvolgendo la dimensione sociale dell’individuo. Così, se manca l’aspetto di cooperazione solidale, anche libertà e uguaglianza saranno monche, incompiute, parziali. 

Nei momenti di rivoluzione questa consapevolezza sembra essere stata cruciale, anche se con soluzioni diverse, dando origine a forme di fraternité che hanno talvolta preso la strada della collettivizzazione, della comune, dell’autogestione, diventate poi veri e propri archetipi per i movimenti politici novecenteschi e odierni. La coppia coop/cccp cantata da Vasco Brondi, se oggi è solo un ironico modo di confondere nostalgicamente le parole, per molto tempo ha indicato un legame reale tra sinistra rivoluzionaria e fraternité, nel quale una “prima persona plurale” ha tentato di esprimersi.

Vieni, compagno, nella nostra fattoria collettiva!

Uno dei modi più evidenti in cui questo legame ha avuto luogo è attraverso la collettivizzazione delle terre da parte della comunità. Gli esempi sono numerosi e non coinvolgono solamente il mondo socialista: ne troviamo esempi anche pre-novecenteschi e slegati dalle rivendicazioni giacobine, come la gestione comune delle longhouse preso Irochesi e Uroni nel Nord America, o come l’obščina russa, un tipo di comune agricola diffusa al tempo dell’impero zarista. Per quanto riguarda invece il mondo socialista, uno degli esempi più marcati di collettivizzazione del lavoro è quello dei kolchoz sovietici. Letteralmente “proprietà agricole collettive”, furono fattorie collettiviste autogestite e democratiche, affiancate dai sovchoz di proprietà diretta dello stato sovietico. Nacquero in opposizione al precedente dominio latifondista e aristocratico della terra, e inizialmente si diffusero spontaneamente, sul modello della obščina. Il sistema su cui si basavano era misto tra privato e statale, come previsto dalla Nuova Politica Economica di Lenin. In questa forma di libero mercato ebbero vita breve: dopo il 1928 l’adesione ad un kolchoz, o ad un sovchoz, fu resa obbligatoria, divenendo strumento stalinista di collettivizzazione forzata di vaste aree agricole, in una lunga guerra a bassa intensità contro i proprietari terrieri, i kulaki, che furono eliminati «come classe» attraverso deportazioni e arresti. Finiva così la Nuova Politica Economica e cominciava l’epoca dei piani quinquennali.

Non furono solo i sovietici a sperimentare forme di collettivizzazione dagli esiti drammatici. Un altro esempio si può rintracciare nella maoista rénmín gōngshè, che in Cina alla fine degli anni Cinquanta fu intesa come una vera e propria “scorciatoia” per il progresso del comunismo. Era a tutti gli effetti una comune popolare per il lavoro agricolo, nota per essere stato il modello di sviluppo del fallito Grande Balzo in Avanti. Per Mao la comune popolare non era solo un modo di ristrutturare il rapporto di produzione, ma un vero e proprio microcosmo della comunità, decentralizzato e autosufficiente in ogni sua parte, dalla produzione agricola a quella industriale, dai servizi alle attività sociali. Come recitava uno slogan, «il comunismo è il paradiso, la comune la scala per raggiungerlo». In Europa questa frenesia produttiva e ideologica ha affascinato molte persone, tra militanti e intellettuali – un’ubriacatura che Rossana Rossanda ha chiamato «Cina come creatività dal basso, comune in fieri, comunismo subito». I risultati non furono così entusiasmanti: la produzione di acciaio, reggendosi su fornaci “da cortile” e non sui grandi impianti tradizionali, forniva un prodotto finale di scarsa qualità e praticamente inutilizzabile. La gestione agricola delle scorte e le cattive condizioni climatiche furono alla base della più grande carestia del Novecento. La comune popolare cinese racchiude così due diverse tensioni e fallimenti: da un lato è il tentativo ambizioso di individuare subito un modello di produzione fuori dal libero mercato, come per i kolchoz russi. Dall’altro, per non incorrere nel capitalismo di stato sovietico, la comune maoista presenta una certa radicalità perché punta all’autosufficienza, all’autonomia totale – ma, appunto, con scarsi risultati soprattutto a livello logistico. Anzi, la stessa pretesa di autosufficienza rese le comuni una trappola per la libertà personale: veniva vietato l’esodo rurale per impedire alla popolazione di abbandonare la comune,  istituendo così un ancoraggio della popolazione ai propri luoghi di nascita – un problema che in Cina si trascina tutt’oggi attraverso il sistema degli hukou, una rubricazione dei cittadini alla famiglia e alla campagna di provenienza, scoraggiando la mobilità all’interno del paese.

Mao Zedong stringe la mano a un contadino di una comune

Cina e URSS non sono stati gli unici stati comunisti in cui abbia preso piede una qualche forma di collettivizzazione: se ne trovano casi in tutti i paesi sotto il patto di Varsavia, in Vietnam, in Laos, in Mongolia, in Corea del Nord – tutte nazioni che nel tempo hanno però sospeso le collettivizzazioni o implementato un sistema di libero mercato; a Cuba un modello di comune popolare (la Unidad Básica de Producción Cooperativa) sembra resistere e prosperare, seguendo un modello simile al kolchoz, dove i lavoratori mantengono una capacità decisionale sulla gestione della cooperativa e possono trattenere un usufrutto privato del loro lavoro. Un caso atipico di comune popolare fuori dal mondo socialista è quello del kibbutz israeliano, una forma di associazionismo di forte impronta socialista. Similmente alla comune maoista, il kibbutz è pensato non solo come modello economico e produttivo, ma anche sociale e culturale formato sulla comunità. Oggi in declino, il suo contributo economico nella costruzione dello stato d’Israele è stato determinante, anche in quanto avamposto militare nel processo di espansione territoriale ai danni delle popolazioni palestinesi. 

Verso la fattoria collettiva!

Queste esperienze di collettivizzazione delle terre e del lavoro, calate dall’alto nei paesi socialisti non sono le uniche. Sono moltissimi gli esempi di rimodulazione dei modi di produzione che non compaiono come conseguenza di una rivoluzione, ma che cercano invece di anticiparla e strapparne uno scorcio; tra tutti, il modello della comune. Lo si può considerare un modello versatile e ambiguo: se per un verso ha storicamente rappresentato una forma di avanguardia politica, dall’altro si pone come “retroguardia”, come forma di conservatorismo, di ritorno alla tradizione, di ecovillaggio in fuga dal mondo. Mentre le collettivizzazioni agricole nei paesi socialisti costituivano una forma di radicamento e conseguenza della rivoluzione, con lo scopo di una ristrutturazione sociale nel nuovo ordine, le comuni “autonome” hanno spesso costituito elemento di anticipazione sproporzionata, suscitando scandalo, indignazione, sconcerto – queste le reazioni per la più famosa di tutte, quella di Parigi, dove i comunardi venivano additati come banditi incendiari, oziosi e scellerati. In non pochi casi la “forma comune” ha costituito proprio il presupposto per un superamento “a sinistra” di un processo rivoluzionario in corso: la comune di Shangai del ‘67, quando gli operai della città afferrarono le istanze più radicali di autonomia e ribellione che la rivoluzione culturale aveva posto; la comune di Morelos del 1915-19, che sull’onda della rivoluzione messicana istituì l’autogestione dell’area di Morelos a sud di Città del Messico, collettivizzando le terre e autogestendo i servizi per la comunità; o le lotte di Kronštadt durante la rivoluzione sovietica, quando gli abitanti della città, dopo aver contribuito al rovesciamento del potere zarista, cercarono di stabilire una repubblica libertaria basata sul potere decentrato e autonomo dei soviet. Gli esiti dei tre tentativi furono brevi: la comune di Shangai, che durò poco meno di un mese, venne sconfessata da Mao e dal partito comunista cinese e ricondotta nell’alveo del suo controllo. Quella di Morelos trovò la sua fine con il riconoscimento statunitense del governo centrale di Venustiano Carranza, che schiacciò l’autonomia della comune e uccise il suo riferimento, Emiliano Zapata. La repubblica di Kronštadt venne invece duramente repressa dai bolscevichi sul nascere, ponendo fine alle richieste di un «soviet senza comunismo».

SONO MOLTISSIMI GLI ESEMPI DI RIMODULAZIONE DEI MODI DI PRODUZIONE CHE NON COMPAIONO COME CONSEGUENZA DI UNA RIVOLUZIONE, MA CHE CERCANO INVECE DI ANTICIPARLA E STRAPPARNE UNO SCORCIO

È proprio nell’investimento libertario e nel decentramento autonomo (non a caso sono esempi che ricoprono una posizione particolare per la tradizione anarchica) che comuni come queste hanno spinto per una politica radicale, puntando alla reciproca interazione tra i due primi termini del trinomio, liberté ed egalité, con fraternité – anche se incontrando grandi difficoltà nella durata,  a volte a causa di una violenta repressione per mano comunista. Non tutte hanno avuto vita breve, anche superando la propria dimensione isolata, come nel caso delle regioni controllate dalle milizie popolari zapatiste in Messico, che sul proprio territorio sono riuscite a ottenere e mantenere collettivizzazioni agricole sul modello del messicano dell’ejido, simile al kolchoz sovietico. Altri esperimenti non sono riconducibili al modello della comune, ma ne adottano alcuni elementi chiave: autonomia, anticentralismo e federalismo, come nel caso della Siria del Nord-Est, conosciuta come Rojava. Qual è l’obiettivo di queste esperienze comunitarie? Puntano a rendere etico il lavoro attraverso una sua democratizzazione? Puntano alla trasformazione generale dei rapporti tra individui? Le possibilità che ci lasciano intravedere si possono misurare anche in relazione ai loro fallimenti: da un lato mostrano con chiarezza quanto poco funzionino in un sistema strettamente centralizzato, dall’altro rendono evidente che oltre la “presa del palazzo” si precisa la necessità di una struttura e di una linea di durata. Le due linee di sviluppo di queste forme, kolchoz e comune, non sono descrivono modelli statici, ma tra loro condividono tensioni comuni, zone di sovrapposizione, germi diffusi di un cambiamento che è sembrato a portata di mano. Non basta la semplice collettivizzazione, non basta tracciare i confini della propria autonomia. È nella necessità di una fraternité innestata nelle vite delle comunità che la costruiscono e la scelgono che le pratiche di mutualismo e cooperazione trovano un orizzonte comune con gli archetipi della comune o del kolchoz. Non solo perché permettono materialmente di agire sulle condizioni reali, ma anche perché permettono un’individuazione delle proprie forze e della propria identità, oggi come allora, nel riconoscimento collettivo di un “noi” – che questi archetipi passati hanno tentato di afferrare – non più solo immaginato o pronunciato, ma reso tangibile nelle sue possibilità reale.

QUAL E’ L’OBIETTIVO DI QUESTE ESPERIENZE COMUNITARIE? PUNTANO A RENDERE ETICO IL LAVORO ATTRAVERSO UNA SUA DEMOCRATIZZAZIONE? PUNTANO ALLA STRASFORMAZIONE GENERALE DEI RAPPORTI TRA INDIVIDUI?

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