2001- 2002. Berlusconi di nuovo al potere
Silvio Berlusconi è il presidente del consiglio dopo la vittoria alle elezioni del 2001 nel quale la sua Casa della Libertà ha sconfitto l’Ulivo di Francesco Rutelli, il Clinton italiano. Dopo l’esperienza del ’94 terminata con il ribaltone della Lega Nord di Umberto Bossi e nove anni di governi di centro-sinistra, il Cavaliere vince di nuovo le elezioni prendendo personalmente quasi un terzo dei consensi. La campagna elettorale è particolarmente accesa: da un lato Berlusconi firma in diretta da Bruno Vespa un contratto con gli italiani in cui promette lavoro, diminuzione delle tasse, aumento delle pensioni e sicurezza; dall’altra l’Economist (voce del liberismo globale, preghiera mattutina dei dirigenti di tutto il globo) dichiara che Mr. Berlusconi non è in condizioni di guidare il governo di nessun paese, meno che mai una delle più ricche democrazie del mondo. Nel frattempo alcuni giornalisti (Santoro, Biagi – da non confondere con un altro Biagi, Marco, giuslavorista che comparirà più avanti ucciso dalle Nuove BR – Luttazzi, Travaglio…) in diretta Rai argomentano finemente la collusione del Cavaliere con la mafia.
Il lavoro dei governi di centro sinistra degli anni Novanta, e in particolare del tecnico Romano Prodi, è andato nella direzione del rigore economico. Il compito storico del centro sinistra post-comunista è quello di rendere possibile il passaggio dalla Lira all’Euro. Il Cancelliere tedesco Helmutt Khol è diffidente nei confronti di un’Italia pronta a stampare gli euro per mantenere i pensionati cinquantenni italiani, tre maestre per classe e cinque corpi di polizia. Dopo anni di attenzione, risparmio e tagli necessari a sistemare i danni prodotti dallo stato sociale clientelare della DC (tagli che produssero un aumento delle disuguaglianze) i conti italiani sembrano a posto, il deficit è rientrato; Bruxelles è convinta, i tedeschi pure (per un pelo): il 1 gennaio 2002 l’Euro sostituisce definitivamente la Lira.
Il prezzo pagato per questo salto nel futuro (per la competitività internazionale) è la cessione di una parte della sovranità e l’aumento vertiginoso del costo della vita (+ 1/3); sul cambio a 1.975 si alimenta la speculazione e la corsa al rialzo dei prezzi: il gelato da mille lire diventa un gelato da un euro, stesso gelato e stesso cono. Il tasso di disoccupazione è al 9,1 %, in diminuzione da qualche anno grazie al nuovo modello di lavoro legalizzato dal pacchetto Treu: part time, flessibilità, lavoro interinale. Giovani, donne e migranti diventano precari. Sono infatti le piccole e medie imprese del Nord e del centro a trainare l’economia del paese, quelle che hanno investito sulla deregulation, sulla velocità produttiva e sulla flessibilità, sulle migliaia di lavoratori autonomi attivi a diversi livelli della filiera produttiva. L’abbassamento del costo del lavoro prodotto dal processo di precarizzazione e di smantellamento dei diritti garantirà all’imprenditoria italiana la possibilità di competere con i prezzi di un mercato oramai globalizzato.
Berlusconi diventa premier l’11 giugno 2001 promettendo spese che il suo ministro dell’economia Giulio Tremonti non potrà permettersi; inoltre il G8 di Genova lo costringe immediatamente a mostrare i denti e il manganello. Ma le sue priorità sono altre. I problemi che nel 1994 l’avevano spinto alla politica, legati alla giustizia e alla comunicazione, sono ancora irrisolti. Con una serie di leggi – derubricazione del falso in bilancio, complicazione delle rogatorie internazionali – svuota i processi a suo carico e a carico dei dirigenti Fininvest (comunque tutti eletti nelle file parlamentari per godere di un’ulteriore protezione); si spartisce con gli alleati della Casa Della Libertà la Rai controllando di fatto la quasi totalità della televisione italiana in chiaro (userà questo potere per cacciare i giornalisti che l’avevano messo in difficoltà durante la campagna elettorale) e aumentando il suo già immenso potere mediatico. Di fronte a tutto questo e alle scelte politiche del governo Berlusconi sui temi della scuola, del lavoro e della guerra, una parte consistente dell’opinione pubblica si indigna. Il 2002 sarà un anno di mobilitazioni che coinvolgerà una parte consistente della cittadinanza italiana, compattando le sensibilità della sinistra e le tensioni sociali in piazze sovraffollate, forme di partecipazione, parole d’ordine. La società civile sembrerà allora un soggetto vivo e capace di reinventare il paese, far rinascere la passione politica e insegnare i valori necessari alla vita democratica.
Italia 2002: la società civile scende in campo.
12 Gennaio: Al naufragio della coscienza civica, nella perdita del senso di diritto, ultimo, estremo baluardo della questione morale, è dovere della collettività resistere, resistere, resistere, come su un’irrinunciabile linea del Piave. Francesco Saverio Borelli – procuratore generale di Milano e direttore del pool di magistrati che indagò nell’ambito di Mani Pulite – apre l’anno giudiziario alla corte d’appello di Milano con un’invettiva contro il governo Berlusconi, i suoi attacchi alla magistratura e le sue promesse punitive (Resistere, resistere, resistere è una citazione dell’allora Presidente del Consiglio Orlando dopo la sconfitta di Caporetto). Le sue parole infiammano un pubblico teso e diviso; da una parte i rappresentanti di Forza Italia che se ne vanno dall’aula in segno di protesta e dall’altra una platea che applaude; tra gli applausi si sente un grido: ritorniamo alla legalità.
24 Gennaio: 12.000 in corteo a Firenze contro un governo che mette in pericolo giustizia e informazione, piove. La manifestazione che passerà alle cronache come la marcia dei professori è stata organizzata dai professori universitari (in particolare lo storico Paul Ginsborg e il geografo Francesco Pardi) ed è in diretta interlocuzione al discorso di Borelli. Lo striscione che apre il corteo recita Giustizia e informazione imbavagliate – democrazia in pericolo, è una citazione da Tocqueville; cartelli con citazioni da Kant, Platone Erasmo da Rotterdam, cartelli con frasi in latino. Politici, sindacalisti, movimenti e associazioni stanno in coda. I professori tengono lo striscione e dietro di loro gli studenti.
26 Gennaio: 4.000 persone creano una catena umana attorno al Palazzo di Giustizia di Milano, sono lì per difendere – simbolicamente – la giustizia dagli attacchi del governo. La piazza è stata organizzata da un gruppo di notabili cittadini milanesi del mondo della cultura che si è organizzato nell’associazione PerManoPerLaDemocrazia. È il primo di molti girotondi che costelleranno il 2002, un modo di stare in piazza che sarà tanto importante da diventare sineddoche dell’interno anno di mobilitazione.
2 Febbraio: Il comitato parlamentare di centro-sinistra La legge è uguale per tutti organizza una manifestazione in Piazza Navona. Ci sono 4.000 persone, poche. La manifestazione è stata organizzata male, ritardi e cambi di luogo. Sul palco è presente l’intera dirigenza dell’Ulivo e qualche intellettuale: Francesco Pardi, Paolo Sylos Labini, Giovanni Battista Bachelet… Verso fine serata sale sul palco Nanni Moretti, beve dell’acqua e con il consueto sguardo allucinato inizia a parlare:
Buonasera. Stranamente durante questa serata ho avuto dei momenti di ottimismo, ma devo dire purtroppo, avendo ascoltato gli ultimi due interventi, che anche questa serata è stata inutile. Il problema del centro sinistra è che per vincere bisogna saltare due, tre o quattro generazioni. Berlusconi fa il pieno del suo elettorato, parla alla pancia degli elettori del centro destra […] sono rimasto molto dispiaciuto sentendo gli ultimi due interventi […] – di Fassino e Rutelli: che scarso rispetto delle opinioni delle elettrici e degli elettori. Nei precedenti interventi si chiedeva un minimo di autocritica rispetto alle scelte di questi ultimi anni, rispetto alla timidezza, rispetto alla moderazione, rispetto al non sapere più parlare alla testa, all’anima e al cuore delle persone. Mentre invece la burocràzia che sta alle mie spalle non ha capito nulla di questa serata. Noi – mi dispiace dirlo, ma con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai. Mi dispiace molto perché io continuerò a votare per l’Ulivo. Fassino e Rutelli e altre persone hanno ricordato l’enorme maggioranza che questo centro destra tutto italiano e barbaro ha; ma questa enorme maggioranza – non dico la vittoria, ma la maggioranza – gliel’ha data l’Ulivo facendo l’altr’anno una campagna elettorale timidissima, non cercando l’unità. È il loro mestiere – io non riesco a parlare con Rifondazione Comunista, non ci riesco è più forte di me – ma il loro mestiere è fare politica è cercare di presentarsi assieme a Di Pietro, insieme a Rifondazione Comunista, insieme ad altri partiti. Insomma, facciamo che questa serata non sia stata proprio inutile.
Dietro di lui Fassino, Rutelli e D’Alema sfoggiano facce di bronzo; tanti applausi e qualche fischio. Qualche giorno dopo D’Alema risponderà a Moretti dalle pagine della Repubblica sottolineando che, nel popolo della sinistra che Moretti rappresenta, si agita l’idea che la vittoria di Berlusconi sia moralmente inaccettabile e razionalmente incomprensibile. E che quindi essa non possa che essere il frutto dell’ignavia dei dirigenti. Ma questo modo di ragionare rivela una radicale incomprensione della società italiana e delle ragioni profonde, degli interessi e persino dei sentimenti che questa destra ha saputo intercettare e rappresentare. Aggiunge inoltre che l’ondata di radicalismo e moralismo qualunquista non fa bene ad un Ulivo che, dopo aver concluso la sua funzione storica di traghettare l’Italia nell’Euro, ha bisogno di nuove idee e nuove risorse.
17 Febbraio: 5.000 persone si tengono per mano attorno al Palazzo di Giustizia di Roma: intellettuali, uomini di cultura, esponenti del centro sinistra, gente comune per protestare contro la proposta di legge sul conflitto di interessi. Nanni Moretti si è fatto promotore di questo girotondo della giustizia. Eugenio Scalfari commenterà sull’Espresso e darà il suo appoggio a quello che legge come simbolo di un nuovo modo di fare politica:
La parola cittadini sta recuperando da qualche tempo una valenza che era andata smarrita. Camerati, compagni, amici, signori e signore, avevano sostituito direttamente un appellativo che si richiamava direttamente alla sovranità popolare senza distinzioni e appartenenze di classe, di censo, di ideologie. […] Per questo riguarda tutti, e per questo è trasversale agli schieramenti ed è sintomatico che proprio Moretti, che inventò la battuta «dì qualcosa di sinistra», sia la stessa persona che l’altro ieri ha chiesto se in quella piazza gremita di gente ci fosse «qualcuno di destra».
21 Febbraio: la CGIL per voce del suo segretario, il Cinese Sergio Cofferati, proclama lo sciopero generale contro le politiche del governo sul lavoro.
22 febbraio: il dirigente dei DS Pietro Fassino organizza un incontro tra vertici diessini e intellettuali: dateci idee, aiutateci a costruire una cultura politica perché la nostra non interpreta più la maggioranza della società italiana. Furio Colombo, diretto dell’Unità e campione di antiberlusconismo, sottolinea che i girotondi non sono una sciocchezza ma sono l’indignazione che ci dà dignità e identità. Asor Rosa invece esordisce dicendo che c’è voluto lo strillo di un regista per provocare un incontro come questo. Tra gli altri Gad Lerner, Ettore Scola, Ermanno Olmi e un po’ defilato – non salirà sul palco – Nanni Moretti. Una parte dell’Ulivo ha compreso la forza di questa nuova ondata di partecipazione e prova a porsi come interlocutore politico.
23 febbraio: la rivista MicroMega organizza al Palavobis di Milano una Giornata per la legalità per il decennale di Manipulite. Ci sono 40.000 persone; i troppi convenuti rispetto alla capienza costringono Antonio di Pietro a salire su un blocco di cemento e parlare con un megafono: abbiamo formato una nuova casa dei diritti e della solidarietà. […] La maggior parte della gente è andata a votare a prescindere della questione morale, in questa imperizia ci ha marciato il più grande venditore di fumo dopo Vanna Marchi. Grasse risate quando Dario Fo fa l’imitazione di Berlusconi, la fa anche Sabina Guzzanti; lunghi applausi al ricordo di Enrico Berlinguer – padrino di quella questione morale più volte ricordata. Ci sono tutti: gli uomini di partito, oltre i DS anche Marco Rizzo e Oliviero Diliberto; gli intellettuali, gli uomini e le donne dell’arte e dello spettacolo. Paolo Flores D’Arcais rimanda alla prossima manifestazione della CGIL: tutti in piazza a dire basta a questo regime di menzogne e di bugie. Il ministro berlusconiano della Giustizia, Roberto Castelli, commenta: trentamila persone che si riuniscono pacificamente per dimostrare le loro idee sono un ottimo esempio di democrazia. È bellissimo. Al Tg3 D’Alema dirà invece che la politica devono farla i politici.
10 marzo: girotondo in difesa della RAI, per la pluralità dell’informazione. 10mila a Roma (saranno due girotondi concentrici visto il numero dei partecipanti); grandi folle attorno alle sedi RAI di altre città.
19 marzo: viene ucciso con colpi d’arma da fuoco Marco Biagi. In una mail di 26 pagine, inviata a quotidiani e agenzie di stampa le Nuove Brigate Rosse rivendicano l’azione:
Il giorno 19 marzo 2002 a Bologna, un nucleo armato della nostra Organizzazione, ha giustiziato Marco Biagi consulente del ministro del lavoro Maroni, ideatore e promotore delle linee e delle formulazioni legislative di un progetto di rimodellazione della regolazione dello sfruttamento del lavoro salariato […]
Il professore universitario, economista e giuslavorista, aveva ricoperto negli anni Novanta una serie di incarichi governativi di consulenza. Nel 2001 è consigliere del Ministro del Welfare Roberto Maroni e si fa promotore della flessibilizzazione della forza lavoro come strumento per abbassarne i costi. La legge del 2003 del governo Berlusconi per la riforma del mercato del lavoro verrà battezzata in sua memoria Legge Biagi.
23 Marzo: 3 milioni di persone a Roma per la manifestazione della CGIL. L’omicidio Biagi e le accuse della destra di essere mandanti morali delle Nuove BR costringeranno la CGIL ad affiancare al tema dei diritti, attorno al quale era stata organizzata la manifestazione, quello della lotta al terrorismo. 10 mila pullman da ogni remota provincia del paese convergono verso la capitale per la più grande manifestazione che la storia d’Italia abbia mai visto. Qualcuno commenterà che – considerata l’operazione logistica messa in campo dalla CGIL – in Italia sarebbe impossibile un colpo di stato. A conti fatti in piazza quel giorno ci sono tutti da dappertutto, lo racconta bene con una prosa surreale Stefano Benni sul Manifesto. Il testo – titolato CGIL runner – si apre con il classico: Ho visto cose che voi umani nemmeno potete immaginare. Ci sono i comunisti e i non più comunisti, ci sono quelli che comunisti non lo sono mai stati, la piazza è tutta rossa e fa scendere una lacrima ai primi e ai secondi. Ci sono i pensionati e gli studenti, i no global i pacifisti, gli ambientalisti, i girotondi… non c’è solo gente di sinistra. L’intervento di Sergio Cofferati, uomo del momento e speranza per la società civile, racconta una piazza che si vuole molto di più che sindacale: i temi della scuola, del mezzogiorno, del fisco si affiancano alle rivendicazioni legate direttamente ai diritti dei lavoratori. Il tema caldo è l’abolizione dell’articolo 18, realtà e simbolo della tutela del lavoratore, del suo non essere da solo nelle mani del suo padrone che può licenziarlo quando fa più comodo, realtà e simbolo delle lotte che sono servite a conquistarlo. Articolo 18 che vale però solo per una cerchia ristretta di lavoratori, per una generazione, e che dev’essere tutelato proprio perché la sua portata dev’essere ampliata. Noi siamo figli dell’idea della solidarietà. Nella nostra storia chi lavora chi lavora si batte per acquisire diritti e lasciarli alle generazioni che vengono dopo. Loro propongono l’esatto opposto: chiedono silenzio a chi lavora per negare diritti a chi entrerà nel mercato del lavoro. Ma come si è detto le volontà della manifestazione sono ben più generali, d’altronde sono qui tantissimi giovani, lavoratici, lavoratori, pensionati che non hanno rapporto diretto con noi, non sono rappresentati dal sindacato. Ma conoscono il valore dei diritti. La piazza è lì per i diritti perché i diritti sono sostanza della libertà, della coesione sociale e dunque della democrazia. Perciò la democrazia si difende anche come facciamo noi oggi, difendendo i diritti e la loro universalità.
13 Aprile: in venti città italiane girotondi per difendere la scuola pubblica contro la riforma Moratti; a Roma attorno al Ministero nelle altre città attorno ai provveditorati.
16 Aprile: sciopero generale di otto ore dichiarato dai sindacati confederali contro le deleghe sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, contro la proposta della decontribuzione previdenziale, per l’occupazione e lo sviluppo del Mezzogiorno, a sostegno delle proposte di Cgil, Cisl, Uil sui temi del fisco, della scuola e delle politiche sociali e sanitarie. Aderiranno 18 milioni di persone: l’Italia si ferma. A Milano saranno oltre il 90% dei lavoratori, altrove i numeri saranno minori ma verranno toccate comunque cifre significative.
31 Luglio: girotondo attorno al Senato di 7.000 persone contro la proposta di legge Cirami per il legittimo sospetto.
14 Settembre: mezzo milione di persone a Roma per la manifestazione del popolo dei girotondi contro il Governo Berlusconi. Moretti è l’uomo simbolo di quella piazza: Noi cittadini possiamo fare politica e possiamo farla con piacere ognuno con le proprie idee ma rimanendo uniti […] Continueremo a delegare ai partiti, ma non sarà più sempre una delega in bianco. Apre alla discussione con i partiti ma su cose concrete. In piazza anche dirigenti dell’Ulivo che sentono possibile la linea del dialogo con il movimento; D’Alema non c’è, ha scelto di andare in Emilia. Moretti conclude mi chiedono e mi chiedo perché ho fatto tutto ciò? Perché la situazione era diventata troppo seria per far finta di niente e perché se dovesse diventare, Dio non voglia, presidente della Repubblica, cioè di tutti gli italiani, l’uomo più di parte che c’è in circolazione oggi in Italia, perché offende almeno la metà dei cittadini italiani, io ripensandoci a distanza di anni proverei vergogna. È l’apice del movimento, sul palco passano le voci autorevoli della sinistra: Don Luigi Ciotti, Gino Strada, Rita Borsellino; un vecchissimo Vittorio Foa scherza: non ci vedo, ma vi sento. Voi mi date speranza. Sul palco e dietro stanno quindi gli artisti, i registi, i cantanti e gli intellettuali; sotto il palco ci sono invece gli insegnati, gli impiegati, moltissimi lavoratori del settore statale, lavoratori della cultura e dello spettacolo, gente spesso laureata che lavora nel terziario e ci sono le generazioni comuniste dell’Emilia e della Toscana. Lo storico Paul Ginsborg parlerà di Ceto Medio riflessivo, individuandolo come il soggetto politico capace di gestire il progresso sociale.
19 Settembre: sciopero generale della CGIL contro l’attacco ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, per la difesa e la valorizzazione della scuola pubblica, per il diritto alla tutela della salute e ad una previdenza equa, per battere la politica economica del governo, per il rinnovo dei contratti di lavoro. Qualche giorno dopo Sergio Cofferati concluderà il mandato della sua segreteria e tornerà al lavoro alla Pirelli.
11 Gennaio 2003: festa di compleanno dei girotondi al palasport di Firenze. Moretti e Cofferati per la prima volta sono sullo stesso palco, il regista proclama l’ex-segretario della CGIL come nuovo leader della sinistra movimentista; la folla per acclamazione dà il suo consenso.
1981 – 1992 – 2002 – 2009 – 2020. La questione morale.
Dopo aver compiuto l’anno i girotondi non si danno nessuna struttura organizzativa (qualcuno la vorrebbe anche ma alla fine non se ne fa nulla) e il movimento velocemente si estingue. Nel 2004 Cofferati accetta di candidarsi a sindaco di Bologna per non concorrere direttamente contro D’Alema, verrà eletto nel giugno dello stesso anno. Nonostante le contestazioni il secondo governo Berlusconi durerà fino all’Aprile 2005 e sarà il governo più lungo dell’Italia repubblicana (nella storia dell’Italia unita più longevo solo il governo Mussolini). L’epopea berlusconiana continuerà fra le critiche fino al 2011. Sarà in bilico alla fine del 2010 quando Fini mette in dubbio la leadership del Cavaliere e un movimento di studenti (l’Onda) spinge alle porte di Montecitorio. Il 14 dicembre in Parlamento si voterà la fiducia: il Governo tiene; alla camera lo scarto sarà di soli tre voti comprati in extremis (i nomi di Razzi e Scilipoti, ex Italia dei Valori, sono quelli rimasti nella memoria collettiva). Fuori la piazza esplode in scontri. Per cacciare definitivamente Berlusconi dai vertici della scena politica italiana serviranno una gigantesca crisi economica, le pressioni dell’Unione Europea e il consenso dello stesso Cavaliere. In parlamento, nel novembre 2011, la sinistra e Berlusconi voteranno uniti per formare il governo tecnico d’emergenza guidato da Mario Monti.
Tanto movimento per nulla quindi? Migliaia di persone che si attivano e partecipano, l’appoggio di una parte considerevole dei media e di nomi importanti della cultura, presenze significative nelle istituzioni – dalla magistratura al parlamento – ma Berlusconi rimane stabile al suo posto. La società civile italiana sembra per una volta incarnare il modello virtuoso che i suoi teorici sognano per lei, ma non succede nulla. Sebbene non sia riuscito a fermare il Cavaliere, il 2002 ha lasciato dei segni profondi nella nostra cultura politica. Berlusconi diventa – più di quanto non lo fosse già – nemico pubblico n°1 e compatta contro di sé una parte significativa della società; questo soggetto politico prende posizione a sinistra di Berlusconi e trova nell’Ulivo il suo interlocutore istituzionale. Per quanto a sinistra il movimento girotondino non rappresenta però solo il popolo della sinistra post-comunista. Già l’Ulivo, è una coalizione che accoglie anche una parte considerevole delle vecchia Democrazia Cristiana; a maggior ragione in quelle piazze trova spazio – senza sentirsi troppo a disagio tra le bandiere rosse – anche un elettorato di destra che, educato ai temi della legalità e del libero mercato, non accetta la figura di Berlusconi (come esempio su tutti, Marco Travaglio, liberale della scuola di Montanelli, voce della legalità e futuro intellettuale di riferimento del Movimento Cinque Stelle). Né destra né sinistra, ma un popolo che chiede legalità, buongoverno e rispetto delle istituzioni. Di fronte ad un avversario così compatto anche il popolo berlusconiano si stringe attorno al suo leader.
In Italia si arriva a una guerra civile istituzionale tra due nemici che si scontrano senza alcuna possibilità di dialogo. Non è – anche se avendo vissuto quegli anni tenderemmo a pensarlo – una cosa naturale: prima del 2002 il sogno dell’Ulivo era costruire in Italia, come succede nelle migliori democrazie liberali, un bipolarismo funzionante nel quale la dialettica tra le forze in campo rendesse possibile l’alternanza e il dialogo. Bipolarismo sul modello USA è parola d’ordine della Seconda Repubblica, sogno di una politica moderna ed efficiente, non continuamente rallentata dalle costellazioni di partitini insignificanti che reggono le sorti dei governi. L’impossibilità di questo risultato è il prodotto delle pressioni che la società civile esercita sull’Ulivo in modo significativo durante il 2002, ma anche prima e dopo. La guerra si gioca tutta sul piano valoriale: Berlusconi è il campione inarrivabile della non-democrazia e della mancanza dei valori civili. L’uso personalistico delle istituzioni è simbolo più alto di questa inciviltà: se lo Stato deve fare gli interessi della collettività, usarlo per fini strettamente individuali lo sovverte alle su stesse radici. Questo uso individuale delle istituzioni diffonde inoltre una cultura incivile che giustifica l’inciviltà, la furberia e la mancanza di rispetto dello Stato da parte di un ceto arraffone e incivile. Le solite cose che – nei discorsi da bar di gente istruita – da sempre mancherebbero in Italia a causa di una mai conclusa unità, il diffuso disinteresse per il bene collettivo a favore dei familismi, dei piccoli aiuti agli amici, dell’egoismo del proprio piccolo bene individuale. Contro l’inciviltà e la non-democrazia si erge una società civile smarcata dai simboli di partito e che a niente è interessata se non al bene della comunità, che nasce e si sviluppa come libera espressione del popolo, senza collusioni con nessun tipo di potere: cittadini e cittadine che si organizzano con le mail e gli sms.
(Questa limpidezza è chiaramente un mito. Dietro le piazze ci sono le spinte delle grandi testate giornalistiche, di alcuni nomi importanti della cultura e della televisione. Lo spontaneismo tanto celebrato, la volontà popolare senza mediazioni e collusioni con il Potere, senza l’asfissia mortifera di una forma organizzativa, sono una costruzione mediatica).
Il popolo dei girotondi agisce in due direzioni: da una parte attacca il suo nemico e dall’altro prova un dialogo con l’Ulivo criticando ma nello stesso tempo cercando dall’esterno di direzionarne le azioni. Probabilmente la seconda azione è la più importante. Il popolo che scende in piazza nel 2002 non vuole fondare un nuovo partito, ma fa pressione sui partiti esistenti affinché diventino i partiti che lo possano rappresentare. I professionisti della politica rimangono comunque i disprezzati ma insostituibili D’Alema, Rutelli, Fassino. In un certo modo le critiche della società civile fanno anche il loro gioco, legittimandone il ruolo come unici, non perfetti ma perfettibili, interlocutori della parte migliore del paese. Anche se D’Alema non ti paga l’occhio, ti tappi il naso e voti. Infatti la società civile non può e non vuole sostituirsi all’Ulivo, ma sfrutta la possibilità di partecipare alla res pubblica in forme diverse dal voto e dall’iscrizione al partito. Iconiche per descrivere questa situazione le parole di Moretti: continueremo a delegare ai partiti, ma non sarà più sempre una delega in bianco. La forma che assume il popolo dei girotondi è quella del movimento che fa pressione dall’esterno sui soggetti che gestiscono il potere, senza mai sporcarsi in questo mondo di machiavellismi e contraddizioni. Una vera e propria azione di lobbysmo che alla fine porta i suoi frutti: la questione morale diviene centro del discorso politico dell’Ulivo e di quello che sarà il PD finché Berlusconi sarà il nemico. Il 2002 ha mostrato un’Italia contraria a Berlusconi e a tutto quello che dal punto di vista dei valori rappresenta e l’Ulivo prova a farsi rappresentate partitico di questo sentire diffuso.
Ma se si dovesse abbandonare il piano dei valori per guardare quello degli interessi materiali e del potere reale ci si potrebbe accorgere che Berlusconi è molto di più di un imprenditore spregiudicato che usa la politica per risolvere i problemi che avevano le sue aziende, un rozzo diplomatico, un gaudente, edonista, amorale, eroe di quella società incivile contro cui si scagliano i giornali – è anche questo naturalmente. Se l’Italia è una delle più grandi economie del mondo è difficile pensare che qualcuno possa governarla senza rappresentare le istanze di un qualche potere economico. Durante la campagna elettorale, nel marzo 2001 a Parma davanti a 4800 imprenditori, Berlusconi viene incoronato candidato di Confindustria; il programma di D’amato – a capo dell’associazione degli industriali – fatto di sgravi fiscali e abbassamento del costo del lavoro tramite la flessibilità viene definito da Berlusconi la fotocopia del programma di governo. Negli stessi mesi anche Agnelli, pur stando ben attento a non dare il suo endorsement, si arrabbia contro la stampa estera che considera Berlusconi ineleggibile. A questo blocco di potere se ne aggiunge un altro, significativo in Italia per presenza nelle istituzioni, potere e giro di denaro: quello che in modo più o meno profondo è colluso con la mafia – nel nord come nel sud, nel narcotraffico come negli appalti pubblici e nell’agricoltura. Infine c’è il popolo dei piccoli imprenditori, lavoratori autonomi e faccendieri vessato dalle tasse e dalla burocrazia, arrabbiato con uno stato che sembra chiedere molto più di quanto dà, popolo che vede in Berlusconi allo stesso tempo una soluzione e un modello. Le leggi ad personam sono contemporaneamente leggi per Berlusconi e leggi per tutte le persone che in Italia sono simili a Berlusconi, imprenditori che sono a cavallo tra legalità e illegalità a cui fa comodo la depenalizzazione del falso in bilancio, e a cui fa gola l’abbassamento del costo del lavoro e una fiscalità meno progressiva, una presenza meno insistente dello Stato nelle faccende private. Potremmo, a volerlo proprio fare, parlare di una classe che sostiene Berlusconi perché questo si fa garante dei suoi interessi. Sarebbe sbagliato dire che questi discorsi non vengono fatti – soprattutto riguardo alle collusioni con l’imprenditoria mafiosa – ma la lente che li interpreta sui giornali e dalle televisioni è quella morale poiché è la questione morale che infiamma l’opinion pubblica.
È interessante guardare il 2002 perché in quell’anno emerge in modo significativo un humus culturale e politico che in Italia ha una storicità molto più lunga. A partire da Berlinguer e dalla sua questione morale, cavallo di battaglia del PCI degli anni ’80, alle mobilitazioni a ridosso di tangentopoli (dalla Lega Nord alle monetine lanciate contro Craxi fuori dall’Hotel Raphael di Roma con in sottofondo il coro Bettino vuoi pure queste / vuoi pure queste / Bettino vuoi pure queste sull’aria di Guajira Guantanamera) la domanda posta alla politica di valori, legalità e democrazia muove l’opinione pubblica molto più di ogni altro tema. Oltre il 2002 questa domanda insistente caratterizzerà, in vari modi e in varie forme, gli anni successivi della politica italiana dei partiti di sinistra e delle emersioni movimentiste del Popolo Viola, del Movimento Cinque Stelle fino e delle più contemporanee Sardine; a chi è nato in quegli anni sarà difficile uscire dalla convinzione che essere di sinistra sia una questione morale. Questo processo di moralizzazione della politica va di pari passo con la smobilitazione ideologica del partito comunista e della società intera. È un’intera visione della realtà – basata sul conflitto tra classi e interessi specifici, sull’analisi del funzionamento concreto della realtà – che viene smantellata e sostituita da una dimensione valoriale, nella quale la Democrazia è questa democrazia e l’utopia si riduce al buongoverno e all’onestà dei detentori del potere politico ed economico. L’idea che in Italia tutto andrebbe meglio con degli onesti governanti, una classe imprenditoriale più civile e un popolo più acculturato (che leggesse qualche libro in più e guardasse meno il Grande Fratello) diventa per un quarantennio sottofondo di una parte consistente della retorica politica e giornalistica. Dietro il velo dei valori si offuscano però gli interessi materiali – sia di chi detiene il potere che di chi non ha nulla – e la politica viene ridotta ad uno scontro tra il bene e il male, categorie di base molto relative e manipolabili. Sembrano scomparire le classi – collettività legate da una comunanza di interessi e da una simile posizione nella divisione del lavoro e del potere – e rimanere solo i cittadini, individui con una personale cultura ed etica che quando lottano, lottano perché queste siano egemoniche. Alla lotta di classe si sostituisce una lotta di ceto.
Nessuno può negare che i valori siano una cosa importante e che la lotta per l’egemonia culturale sia fondamentale per qualsiasi progetto politico. Le sconfitte dell’ultimo quarantennio lasciano però la sensazione che il potere si giochi su ben altri livelli, dove la questione non sia il giusto e lo sbagliato, il legale e l’illegale, la cultura o la non-cultura ma il concreto funzionamento di un sistema di produzione e distribuzione della ricchezza e del potere, dei ruoli che in questo sistema vengono giocati.
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