Una distesa di lamiere
Ricordo il primo giorno, non ebbi il coraggio di essere presente al momento dell’apertura. Amici e colleghi erano stupiti, volevano che andassi, che si andasse tutti insieme. Io niente. Partii più tardi in macchina, da solo. Era l’ottobre dell’88, c’era una nebbia che si tagliava. Da Empoli a Montecatini non c’era una grande distanza, ma ad ogni chilometro mi chiedevo se andavo incontro al successo o al fallimento. Raggiunsi l’ipermercato dalla parte del «tiro al volo», su una strada leggermente rialzata rispetto al parcheggio che avevamo costruito. La nebbia era un po’ salita e lo spettacolo che vidi mi dette un tuffo al cuore: vedevo solo tetti di macchine, non c’era un posto libero, tutto il parcheggio era occupato. I nostri soci, tutti i possibili clienti che avrebbero sancito il successo o l’insuccesso dell’iniziativa erano lì, una distesa di lamiere che sciolse ogni dubbio. Mi misi a urlare, ce l’avremmo fatta. E così accadde.
A parlare non è un manager rampante con master conseguito a New York, né un bocconiano che rievochi i propri successi commerciali, ma è Turiddo Campaini: classe 1940, figlio di operaio specializzato, diploma in ragioneria, cursus honorum nel PCI toscano, per 41 anni presidente di Unicoop Firenze.
Negli ultimi decenni il movimento cooperativo è finito più volte sulle prime pagine dei giornali con varie accuse di corruzione, connivenza con poteri mafiosi, coinvolgimento in affari di dubbia legalità, fino a creare un clima di sospetto verso la stessa ragione sociale. Al di là delle nomee, parlare oggi di cooperative significa guardare a una forma di associazione economica della quale è importante avere presente la dimensione. Nel 2011 nasce l’Alleanza delle cooperative italiane, che riunisce i tre storici organismi di rappresentanza delle forme cooperative (di orientamento simile a quello dei tre sindacati confederali), arrivando a comprendere complessivamente 39500 imprese grandi e piccole, 1,15 milioni di dipendenti e collaboratori, 150 miliardi di fatturato, oltre 12 milioni di soci. Quando si parla del terzo settore, si affronta anche questa realtà complessa e ramificata, il cui minimo comune denominatore è quello di non avere come scopo societario la redistribuzione dell’utile, ma l’ottenimento, per i soci, di vantaggi che li pongano al riparo dalla competizione nel libero mercato: prodotti ma anche servizi, un’abitazione, il lavoro. In questi termini le cooperative nascono (anche) come evoluzione delle gilde medievali, integrando però progressivamente, per legge a partire dal 1991, l’idea di utilità sociale, per cui i benefici non saranno diretti ai soli soci.
Le forme di unione cooperativa nascono in Italia parallelamente al movimento operaio, con il quale condividono alcuni problemi fondativi – l’impoverimento, l’emarginazione, il degrado legati alla transizione alla società industriale – ai quali forniscono risposte volta per volta diverse. Il vincolo cooperativo afferma il principio di unione fra gli oppressi che però, soprattutto per quel che riguarda il movimento cattolico, non punta a superare l’oppressione attraverso il conflitto di classe ma attraverso il miglioramento collettivo delle condizioni economiche. Nell’alta padovana nascono, una a Loreggia l’altra a Trebaseleghe, le prime casse rurali italiane, pensate per fornire ai contadini il piccolo capitale necessario a migliorare la proprietà agraria. Muratori e operai realizzano come sia possibile arrivare a un accordo per l’edificazione di abitazioni economiche, con vantaggio di entrambe le parti. Nelle città del triangolo industriale gli operai, nell’assenza completa di welfare che caratterizzava il secondo Ottocento, si uniscono in società di mutuo soccorso, che si impegnano a coprire ferie e malattie; quando i capitali sono sufficienti, i soci acquistano qualche attrezzo, con il quale si avvia una produzione in proprio, in cui tutti sono alla pari; in quest’ultimo caso, in particolare, non c’è la figura del padrone.
Da una parte, all’inizio, questo movimento di mutuo aiuto, che pian piano si diffonde in tutto il paese per alleviare le condizioni di vita e sfruttamento dei lavoratori italiani; dall’altra, alla fine, la vittoria istoriata sui tettucci di lamiera narrata dal comunista Campaini. Come è successo nel mezzo?
I giacigli per la notte
La cooperazione e il mutualismo sono da sempre considerati con una certa ambiguità nell’ambito della teoria politica radicale. È possibile costruire una società che si sostenga economicamente senza introiettare, per la creazione e l’impiego della ricchezza, le regole del mercato in cui opera? Come si fa a dare valore politico generale ad attività che hanno come scopo primario il favorire un nucleo ristretto di persone, i soci? Il soccorso che si presta a chi si trova in condizioni difficili non diminuisce le ingiustizie che hanno costretto il singolo in quelle condizioni. L’operaio che si associa con i suoi compagni e rifiuta di stare sotto padrone deve competere con le leggi del mercato, e non per forza contribuisce a cambiarle. Eppure qualcuno sarà stato soccorso, e una parte della vita di alcuni sarà un po’ meno reificata, un po’ più autentica perché autodeterminata. Brecht ci ha scritto una bella poesia.
I GIACIGLI PER LA NOTTE (1931)
Sento che a New York All'angolo della 26.a strada con Broadway Durante i mesi d'inverno ogni sera c'è un uomo E ai senzatetto che si assembrano implorando Intorno ai passanti procura un giaciglio per la notte. Il mondo non cambia per questo I rapporti fra le persone non migliorano Il tempo dello sfruttamento non ne viene abbreviato Ma alcuni uomini hanno un giaciglio per la notte Il vento per una nottata gli viene tenuto lontano La neve a loro assegnata cade sulla strada. Non mettere via il libro, tu, persona, che leggi. Alcune persone hanno un giaciglio per la notte Il vento per una nottata gli viene tenuto lontano La neve a loro assegnata cade sulla strada. Ma il mondo non cambia per questo I rapporti fra le persone non migliorano Il tempo dello sfruttamento non ne viene abbreviato.
Le contraddizioni contenute in questi versi sono destinate a segnare tutto il movimento di emancipazione della classe operaia fra Ottocento e Novecento, e – in altre forme – continuano ad essere attuali. Come agire economicamente nel mondo senza contraddizioni? Quando scendere a compromessi e quando sfuggirne? Tutto questo è già, in potenza, attivo al principio del movimento cooperativo, che cresce parallelamente alla strutturazione politica della sinistra, a volte con vere e proprie sovrapposizioni, altre distanziandosi. Dalla seconda metà dell’Ottocento nascono, in tutta Italia, decine di migliaia di cooperative. Le condizioni economiche e sociali dei lavoratori e, in generale, del popolo non sono sensibilmente migliorate dall’intervento statale: è il momento della nascita di un’autorganizzazione diffusa. Non sono solo gli anni, quindi, di Andrea Costa, dei primi socialisti e del viaggio di Bakunin in Italia – cioè delle esperienze più propriamente politiche della sinistra italiana socialista e poi anarchica – ma anche dell’operaio che decide, assieme ai compagni di lavoro, di non voler avere più un padrone: lotta per la rivoluzione proletaria, che però non si sa mai quando arrivi, e nel frattempo fonda una cooperativa.
Il movimento non viene completamente snaturato dal fascismo, che pure si industria per controllarne le spinte più radicali e ricondurlo nel solco del corporativismo. Finita la guerra in Italia sono ancora attive 12000 cooperative, diffuse soprattutto nel centro e nel nord, ma in brevissimo tempo – nel biennio 1944-1946, il numero quasi raddoppia (9000 nuovi soggetti, di cui 3000 di consumo, 1800 di produzione, 1100 agricole): collaborano da una parte le condizioni materiali estremamente dure del dopoguerra, ma dall’altra l’idea che la forma cooperativa avrebbe permesso di mettere in pratica in una qualche forma gli ideali dell’Italia della Resistenza. Rinascono così le centrali cooperative: da una parte la Lega delle Cooperative e delle Mutue, in cui convergono i partiti comunista e socialista, riuniti nel Fronte popolare, ma anche i Repubblicani; dall’altra la Confcooperative, ispirata dalla dottrina sociale della Chiesa e supportata dalla Democrazia Cristiana. Nel 1952 nasce l’Associazione generale delle cooperative italiane, di ispirazione laica e mazziniana, dando origine alla tripartizione che conosciamo anche nei sindacati confederali (CGIL, storicamente legata al PCI; CISL, di ispirazione cattolica; UIL, social-liberale).
I comunisti, in questa fase, sono piuttosto diffidenti rispetto alla potenzialità della forma cooperativa, alla quale pongono antiche accuse di riformismo; sono invece i socialisti e, in una fase iniziale, gli aderenti al Partito d’Azione a vedervi la possibilità di un’economia diversa, egualmente distante dalle rigidità dello statalismo assoluto e dall’endemico strascico di ingiustizie delle formule liberali. Ad alcuni balena l’idea che, se non era possibile mutare la forma complessiva del sistema statale, con la ricostruzione si sarebbe potuta sperimentare una maggiore democratizzazione della vita economica, passando anche attraverso le cooperative. Ne resta traccia, in una forma di compromesso ma comunque significativa, nel primo comma dell’articolo 45 della Costituzione:
La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità.
Vince, nei lavori della Costituente, la prospettiva delle sinistre, che spingono sul carattere mutualistico contro l’idea privatistica della Democrazia Cristiana (e in parte dell’Unicoop), secondo la quale le cooperative avrebbero una funzione in molti casi sovrapponibile a quella delle imprese private. Nei lavori della Costituente, tuttavia, troviamo traccia di un intenso lavoro su un articolo, il 42, che ci dà un’idea di quanto l’argomento fu dibattuto. Le formulazioni originale rispettivamente della prima e terza sottocommissione infatti recitavano: «I beni economici di consumo e i mezzi di produzione possono essere in proprietà di cooperative, di istituzioni e dello Stato»; «I beni economici possono essere oggetto di proprietà privata, cooperativistica e collettiva». Il primo comma dell’articolo della Costituzione invece recita:
La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.
La possibilità di una proprietà cooperativa dei mezzi di produzione andava nella direzione delle teorizzazioni, ad esempio, del Partito d’Azione, e di pezzi del Partito Socialista, che proponevano forme di gestione produttiva non liberali, senza però guardare al controllo dello Stato come unica soluzione – immaginando, ad esempio, un’iniziativa privata sulle piccole attività e la nazionalizzazione della grande industria. Non è la prima volta che il movimento cooperativo si propone come alternativa a schemi economici egemoni, in questo caso quello sovietico e quello americano. La cooperazione, attività ambigua e in grado di indicare – a volte confusamente – una terza via, conserverà sempre in sé una possibilità economica alternativa e democratica, esponendosi però costantemente al rischio di compromissione, di contraddizioni anche sostanziali, di ambiguità sugli obiettivi. Non potrà che essere così, per soggetti che devono destreggiarsi in mezzo alle contraddizioni dell’economia e della politica, al fascino dei personalismi e del potere soggettivo. Ecco che a quest’altezza, soprattutto agli occhi del PCI e della CGIL, la cooperazione continua ad essere vista ambiguamente, come grande espressione di organizzazione capillare e di controllo economico del territorio da una parte, come fenomeno moderato e intollerabilmente riformista dall’altra.
Il patto col diavolo ovvero il Terzo settore
Gli anni Cinquanta e Sessanta vedono una costante crescita del movimento cooperativo, non solo in termini numerici ma soprattutto di concentrazione e strutturazione. Al piano territoriale le tre centrali della cooperazione tendono a sostituire dei coordinamenti, orientati sulle filiere di produzione. Al posto della piccola bottega cooperativa, dunque, il supermercato con stretti legami con i produttori. Le varie unità vengono incoraggiate a fondersi fra loro, per centralizzare i servizi interni e poter competere alla pari con gli altri attori del mercato. Si pone con sempre maggiore decisione un problema che, soprattutto per gli afferenti alla Legacoop, assumeva i contorni del tabù: per le cooperative è legittima o meno l’accumulazione di capitale?
La domanda è radicale. L’accumulazione di capitale, anche in assenza di lucro, permette di avere le risorse necessarie per passare dalla dimensione del piccolo spaccio di generi alimentari di provincia, o dalla cooperativa di dieci muratori che si aiutano l’un l’altro, alla competizione sul piano nazionale e internazionale. All’ipermercato. Alla multiutility. Significa accettare le regole del mercato e collocarsi allo stesso piano. Per il Partito Comunista le cooperative, nell’immediato dopoguerra, erano uno strumento di controllo del territorio – hanno parte importante nella definizione delle cosiddette regioni rosse – e di creazione di lavoro in termini egualitari; questo cambio di passo, invece, trova le sue ragioni nel piano nazionale, nella necessità del PCI di far pesare la propria forza, anche economica, all’interno della complessa situazione politica che si determina nel decennio successivo al ‘68.
Nella seconda metà degli anni Settanta la sinistra è spaccata. Il movimento, dopo i sostanziali successi del quinquennio 1968-1973, si sta perdendo nei rivoli dell’autonomia, o nei movimenti postcomunisti, o infine nel terrorismo. Il PCI in netto contrasto cerca, guidato da Berlinguer, la via del compromesso storico, l’avvicinamento al governo tramite la non opposizione. I comunisti intendono dar prova di essere una forza responsabile, che ha abbandonato ogni velleità rivoluzionaria (esclusa comunque dalla strategia del Partito fin dal ’44, quando Togliatti a Salerno definisce la linea di collaborazione democratica del PCI), pronta ad assumersi compiti di governo che saprebbe svolgere non solo alla pari ma meglio della Democrazia Cristiana. Si esaltano le amministrazioni rosse. Si guarda al nuovo ceto medio. Una delle leve di maggior efficacia dovrebbe essere proprio il movimento cooperativo, che nella seconda metà degli anni Settanta porta a compimento i mutamenti iniziati nei decenni precedenti.
Il numero delle imprese cooperative è passato, dal ‘74 all’80, da 75000 a 125000. A livello di immaginario, la diffusione di alcuni numeri permette al grande capitalismo italiano di rendersi conto che non si sta parlando di un settore marginale, legato all’autorganizzazione di qualche operaio, contadino o massaia, ma di strutture moderne, dotate di mezzi di produzione all’avanguardia, che iniziano a porsi il problema di come uscire dai confini nazionali. Nel 1980 le circa 84000 cooperative rosse, se sommate, hanno un export di 1000 miliardi, quarta posizione nel mercato italiano subito dopo la FIAT; hanno milioni di soci; i lavoratori sfiorano il milione; in alcune regioni gestiscono le leve della vita economica. Attraverso la lunga crisi degli anni Settanta, solo le cooperative hanno mantenuto indici di crescita positivi. I dirigenti hanno un obiettivo: dimostrare che le società cooperative sul libero mercato competono ad armi pari con i concorrenti privati. Anzi: fanno meglio.
Tuttavia, dal punto di vista ideologico la questione pone qualche problema. Il PCI è pur sempre un partito di sincera ispirazione marxista, e il passaggio all’accettazione delle regole di mercato in una fase come quella dell’unità nazionale non sembra poter avvenire dolcemente; soprattutto nel momento in cui lo stesso PCI spinge un suo apparato a ricoprire un ruolo attivo nel mercato capitalistico. Come fare? Vengono diffuse due parole d’ordine.
La prima, sfortunata, è la differenza fra capitalismo sano e capitalismo malsano, che viene circa impiegata nella stessa accezione del capitalismo etico di oggi. Nasce una nuova figura, quella dell’imprenditore comunista. Il PCI attraverso la Lega si dovrebbe, secondo Galletti (all’epoca presidente della stessa), far promotore di forme cooperative basate su un capitalismo sano, in cui la funzione sociale dell’impresa fosse salvaguardata, con positive ricadute su tutta la struttura sociale del Paese. È una linea di lunga durata, che troverà alcuni echi nelle scelte impostate da Occhetto alla Bolognina (ne abbiamo parlato nel terzo numero).
La seconda è invece clamorosa. Nel gennaio 1978, alle porte del compromesso storico, è convocato il XXX congresso della Legacoop, con grande risonanza sull’Unità e sui giornali nazionali. È il congresso della svolta: già da anni l’espansione della forma cooperativa è in continua crescita, e va occupando settori prima non frequentati. Il lavoro di cura e assistenza, il turismo, la formazione sono le nuove frontiere del cooperativismo; inizia a delinearsi il modello che conosciamo oggi, in cui le cooperative collaborano con lo Stato per l’erogazione del welfare. Il concetto che passa è quello dell’imprenditorialità, ma la parola d’ordine è un’altra: terzo settore.
Le parole, si sa, hanno delle storie lunghe e tortuose, che si scoprono solo andando in profondità. Ecco che il concetto di terzo settore, che oggi conosciamo come alternativo al pubblico e al privato, ma che in realtà costituisce uno dei più lucrosi settori contemporanei, è stato immesso nel dibattito italiano da Enrico Berlinguer: con la chiara intenzione di trasformare il sistema delle cooperative comuniste in una forza economica all’altezza del mercato, una leva con la quale innalzare il PCI ai banchi del governo e proporre uno spostamento degli equilibri dell’economia di mercato italiana. Alla sua ombra le cooperative per un quarto di secolo continueranno a prosperare e ad ingrandirsi, a edificare ipermercati ed esportare made in Italy, arrivando alle impressionanti cifre attuali. Quello che non funzionerà sarà invece proprio il progetto politico di Berlinguer: i patti col diavolo sono pericolosi e, stringi stringi, gli imprenditori comunisti non sono altro che imprenditori.
Indistinzione o possibilità?
Le potenzialità e le ambiguità dello strumento cooperativo naturalmente non sono legate al solo uso che ne fece il Partito Comunista: le cooperative esistono e prosperano oggi, a un trentennio dalla Bolognina e dalla fine del PCI, e il loro raggio d’azione economica si è ancor più allargato. Per quanto riguarda l’utilità sociale, dunque tutti i servizi ospedalieri, alla persona, per la disabilità e il disagio mentale e sociale e, più in generale, per ciò che riguarda il lavoro di cura, l’incidenza di forme economiche cooperative è aumentata sempre più, fino a sovrapporsi e sostituire una parte importante del welfare. In questi termini oggi risulta considerata e valorizzata in quanto settore economico in espansione. D’altra parte, l’evoluzione che il PCI impresse alle forme cooperative va proprio in questa direzione, cui il centrosinistra istituzionale in Italia è rimasto coerente: non per niente la riforma del terzo settore è stata portata a termine dal governo Renzi, in parallelo con il jobs act e il piano Industria 4.0.
Non è semplice capire cosa resti oggi dell’iniziale possibilità di costruire forme di vita economica diverse, le cui fondamenta poggino su principi solidaristici. Gli esempi di questo tipo che nascono sono tuttavia molti, almeno quanto quelli di forme cooperative basate sullo sfruttamento della manodopera, sul ricorso improprio alle categorie di socio-lavoratore, in generale sul ricorso a forme in cui la finalità mutualistica sia oggettivamente assente. Troppo spesso il fatto che la forma cooperativa sia tutto sommato leggera e versatile costituisce un incentivo in questo senso.
Oggi, infatti, quello cooperativo è uno strumento sempre più neutro, le cui originali finalità sembrano sempre più sfumate, verso una sostanziale indistinzione verso gli altri soggetti economici. Come potrebbe essere diversamente, dato il mondo che ci circonda? Chi oggi è disposto a credere alla possibilità di un’impostazione economica basata sulla solidarietà e sul mutualismo? Tuttavia, alcuni lo fanno, lo strumento è lì: se è neutro, allora è pronto ad essere riempito di significato, e a dialogare in forme complesse, sporche, difficili con chi vorrà riflettere su come impostare una vita economica un po’ meno ingiusta dell’attuale.
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