Carità pelosa. Poveri, paternalismo, solidarietà

Gli spazi del romanzo dell’Ottocento sono spesso sporchi, insalubri, sovraffollati, hanno i toni cupi delle periferie industriali invase dai fumi di carbone. Contrapposti ad essi risplendono i ricevimenti, gli interni dell’aristocrazia dorata e della borghesia galoppante, il gran mondo che passeggia in carrozza sui boulevard di Parigi o nelle campagne inglesi, immerso in quei discorsi da salotto tutti incentrati su gradi, acquiescenze, stime reciproche, presentazioni a corte, balli. Il romanzo dell’Ottocento, soprattutto inoltrato, da qualunque parte lo si guardi è l’opera del conflitto sociale, delle contrapposizioni, della nuova classe che si affaccia alla storia con la Rivoluzione industriale e che mette in discussione il primato progressista della borghesia. Del proletariato, come soggetto attivo nella storia.

Ciò non significa che i romanzi dell’Ottocento mettano esplicitamente a tema i conflitti politici e sindacali, cosa che in effetti avviene abbastanza raramente; né, ovviamente, che i suoi protagonisti siano necessariamente di estrazione operaia. Sono le trame e le forme, i modi in cui si sviluppano le opere, la comparsa degli eroi e la loro funzione, ad essere articolate anche partendo da queste nuove realtà sociali che, appunto, sgomitano per trovare spazio nella rappresentazione. Se il romanzo del Settecento, dunque, è popolato di Robinson Crusoe e di Wilhelm Meister, di Candid e Lemuel Gulliver (un viaggiatore intraprendente, un teatrante in formazione, un uomo in ricerca e un altro viaggiatore, ma allegorico), in quello del secolo successivo compaiono Oliver Twist, Jane Eyre, Jean Valjean e Gervaise Macquart (un orfano, un’orfana, un forzato e una lavandaia). Non sono gli unici personaggi, al loro fianco camminano Lucien de Rubempré (aspirante e velleitario giornalista) e la contessa Nataša Rostova, il principe Miskin e i Karamazov, proprietari terrieri; ma i rapporti fra le due diverse classi non possono sfuggire all’attenzione del romanziere del XIX secolo, che nel realismo trova uno dei suoi punti fermi.

Nel corso dell’Ottocento, mentre il proletariato faticosamente si riconosce in quanto classe e inizia a costruire strutture proprie di lotta politica e resistenza sindacale, anche le forme di assistenzialismo si vanno organizzando: l’ospizio dei poveri, l’orfanotrofio, il nosocomio gestito dalle gerarchie ecclesiastiche vanno collocandosi, con il procedere del secolo, sotto il controllo delle amministrazioni pubbliche o di istituzioni caritatevoli private, soprattutto in Inghilterra dove l’industrializzazione è più profonda e la dimensione dei problemi sociali si aggrava. La carità è un dovere morale dei ricchi gentiluomini, che aprendo istituzioni benefiche intendono raggiungere un duplice obiettivo: realizzare un’opera di bene, secondo i comandamenti cristiani, e compiere un’opera di moralizzazione. I poveri infatti tendono all’abbruttimento e al vizio, e la preoccupazione per la dannazione delle loro anime rappresenta una costante per la borghesia industriale dell’età vittoriana, attaccati in molte opere ottocentesche con battagliera ironia.

I POVERI INFATTI TENDONO ALL’ABBRUTTIMENTO E AL VIZIO, E LA PREOCCUPAZIONE PER LA DANNAZIONE DELLE LORO ANIME RAPPRESENTA UNA COSTANTE PER LA BORGHESIA INDUSTRIALE NELL’ETA’ VITTORIANA

 Per quanto piccino, era disperatamente affamato, e reso temerario dal patimento. Si alzò da tavola, e avanzando verso il maestro, scodella e cucchiaio in mano, disse, piuttosto allarmato dal proprio ardimento:
 «Per piacere, signore, ne vorrei un altro po’».
Il maestro era un uomo pingue e pieno di salute, ma si fece pallidissimo. Fissò per qualche secondo con turbato stupore il piccolo ribelle, e poi dovette sorreggersi alla marmitta. Le assistenti erano paralizzate dalla sorpresa, i ragazzi dal terrore.
«Che cosa?» disse infine il maestro con un filo di voce.
«Per piacere, signore,» ripeté Oliver, «ne vorrei un altro po’.»
Il maestro assestò una botta con il mestolo alla testa di Oliver; lo immobilizzò serrandolo tra le braccia e chiamò a gran voce il messo.
Il consiglio era riunito in seduta solenne quando il signor Bumble irruppe nella sala in preda a una grande eccitazione, e si rivolse al gentiluomo sull’alto seggio.
«Signor Limbkins, vi chiedo scusa! Oliver Twist ha chiesto di averne un altro po’.»
Vi fu un sussulto generale. L’orrore si dipinse su ogni volto.
«Un altro po’!» disse il signor Limbkins. «Ricomponetevi, Bumble, e rispondetemi con chiarezza. Ho capito bene che ne ha chiesto dell’altra dopo aver mangiato la dose di minestra assegnata?»
«Si, signore,» rispose Bumble.
«Quel ragazzo finirà sulla forca,» disse il gentiluomo dal panciotto bianco. «Sono certo che quel ragazzo finirà sulla forca.» 

Scene del genere, in cui l’ironia marcata serve a mettere in luce delle contraddizioni, e assume un preciso scopo conoscitivo, compaiono in molti dei libri di Dickens. Da una parte una classe agiata, che si è fatta da sé con il duro lavoro, il sacrificio e il possesso dei mezzi di produzione; dall’altra una massa di poveri, lavoratori o lumpenproletariat, la cui condizione è conseguenza di una colpa morale. Per toglierli da quella situazione sono necessari, secondo un sano pragmatismo positivista, i fatti, che con la loro autoevidente forza separano chi sbaglia da chi agisce correttamente. «Ora quello che voglio sono Fatti. A questi ragazzi e ragazze insegnate soltanto Fatti. Solo i Fatti servono nella vita. Non piantate altro e sradicate tutto il resto». È l’inizio di Hard Times, siamo alla metà dell’Ottocento, da poco è passato il ’48, l’anno delle Rivoluzioni che hanno messo una pietra sopra la restaurazione. 

Che ruolo hanno gli scrittori nell’Ottocento? Una lettura un po’ fuori moda è quella marxista di Lukács, per cui nel corso della prima metà del secolo gli intellettuali si allontanerebbero progressivamente dalla propria classe di appartenenza, la borghesia (dalla quale biograficamente molti provengono, ma soprattutto nella quale tendono a vedere un interlocutore), mettendone a critica la dimensione economica e quella etica. Essi faticano però, in questo momento, a individuare un interlocutore diverso, in direzione del quale l’arte possa rivolgersi come aveva fatto lo scrittore del Settecento verso la borghesia rivoluzionaria: entra così nei romanzi una dimensione di profonda critica, innestata però sulle forme del romanzo tradizionale, nel quale ad esempio non ha gran spazio la coralità quanto l’individuo. I personaggi sono tutti un po’ eroi romantici, raramente emerge una rappresentazione della società nel suo complesso (come poteva accadere, ad esempio, in Balzac) ma poche, grandi figure memorabili. Lukács non vede di buon occhio questo passaggio, che identifica come decadenza; al di là del suo giudizio di valore, una periodizzazione che tenga il 1848 come punto di svolta sembra poter reggere.

In questo senso si muove il meccanismo dell’ironia, che compare in moltissimi testi ottocenteschi in cui sia tematizzato il conflitto di classe. Le opere di Charles Dickens o di Charlotte Brontë, ad esempio, sono unanimemente considerate frutto del romanticismo; eppure l’ironia illuminista, tagliente, che affronta le contraddizioni e le squaderna, è ancora largamente impiegata come arma, quando si tratta di mettere in atto una critica sociale. 

Anche Jane Eyre, come Oliver Twist, ingiustamente accusata dalla famiglia che la ospitava, è relegata in un istituto di carità per bimbi e ragazzi, e anch’essa riceve una dura accoglienza. 

 Il signor Brocklehurst si schiarì la voce.
 “Signore,” disse, rivolgendosi alla propria famiglia, “signorina Temple, insegnanti e bambine, la vedete tutte questa ragazza?”
Certo che la vedevano: sentivo i loro occhi come specchi ustori rivolti contro la mia pelle bruciata.
“Vedete com’è giovane ancora; notate come possiede la forma che è caratteristica dell’infanzia; Dio, con la Sua grazia, le ha donato la forma che ha dato a tutti noi; nessuna deformità la indica come un essere già segnato dal male: chi penserebbe mai che il Maligno abbia già trovato in lei una serva e un’intermediaria? Eppure, e mi duole molto di doverlo dire, è proprio così.”
Una pausa, durante la quale iniziai a percepire una paralisi dei miei nervi e a sentire che il Rubicone era stato passato: il processo non si poteva evitare; andava affrontato con fermezza.
“Mie care figlie,” proseguì quell’ecclesiastico di marmo nero, con veemenza, “questa è un’occasione triste, invero malinconica; perché è mio preciso dovere avvertirvi che questa ragazza, che potrebbe essere uno degli agnelli di Dio, è una piccola naufraga… non un membro del vero gregge ma, con chiara evidenza, un’intrusa e un’aliena. Dovete stare in guardia con lei; dovete rifuggire il suo esempio… se necessario, evitare la sua compagnia, escluderla dai vostri svaghi e non coinvolgerla nelle vostre conversazioni. Insegnanti, dovete sorvegliarla; osservate i suoi movimenti, soppesate bene le sue parole, esaminate le sue azioni, punite il suo corpo per salvare la sua anima! Sempre che la sua salvezza sia ancora possibile, perché (la mia lingua esita mentre lo dico) questa ragazza, questa bambina, nata in una terra cristiana ma peggiore di molti piccoli pagani che dicono le loro preghiere a Brahma e s’inginocchiano davanti a Juggernaut… questa ragazza è… una bugiarda!”
Ci fu una pausa di dieci minuti, durante la quale io, adesso perfettamente in possesso delle mie facoltà mentali, osservai come le giovani Brocklehurst prendessero i fazzoletti e se li portassero agli occhi, mentre l’anziana signora si dondolava avanti e indietro, e le due più giovani sussurravano: “Che cosa sconvolgente!” 

Le donne così apertamente sconvolte dalla rivelazione sono le benefattrici dell’istituto nel quale le ragazze ricevono una mediocre istruzione, un’educazione violenta e repressiva e qualcosina meno del cibo necessario alla sopravvivenza. Sono descritte, nelle pagine precedenti, in tutta la magnificenza conferita loro dall’abbigliamento, anche qui in contrasto sarcastico con le raccomandazioni di modestia e umiltà dispensate costantemente alle pensionanti. Eppure hanno in mano le chiavi della verità, e guardano i miserabili. Li osservano. Li studiano con circospezione.

Sono diversi. 
Non capiscono. 
Devono essere soccorsi. 
Devono essere aiutati.

È probabilmente questo il momento in cui un preciso tipo di assistenzialismo paternalista inizia ad assumere la sua forma moderna. Le grandi masse di poveri e di diseredati, provenienti dalle campagne, sono scagliate dall’industrializzazione negli inferni urbani, all’ombra delle cupe, rosseggianti ciminiere delle fabbriche. La  verifica di abitudini, nascite, morti, lavoro e disoccupazione viene assunto dai ritmi impersonali della produzione industriale, senza alcuna possibilità di controllo o comprensione da parte dei lavoratori; che divengono, nei Tempi difficili di Dickens, non più esseri umani ma «braccia». Immaginiamoci uomini nati sul terreno che, da secoli, era stato dissodato dagli antenati, dove ciascuna zolla di terra conservava un racconto, ciascun albero un nome proprio, e dove una parte consistente del mondo sembrava agibile. Sradichiamoli e proiettiamoli in un panorama completamente diverso, al fianco di sconosciuti, impegnati in un lavoro ripetitivo, insensato, almeno all’inizio difficile da valutare nella sua complessità. Saranno come bambini, spersi in un mondo più grande di loro, incapaci di prendere una decisione giusta che sia una, preda facile di qualsiasi vizio o droga, attratti da qualsiasi tentazione. È necessario soccorrerli.

In questo tipo di ragionamento convivono e si scontrano l’idea liberale classica, l’esaltazione dell’individuo e delle sue possibilità di cambiare la propria condizione, con l’idea di una differenza incolmabile, in buona misura razziale, fra chi comprende e chi non comprende, chi agisce e chi è agito. 

IN QUESTO TIPO DI RAGIONAMENTO CONVIVONO E SI SCONTRANO L’IDEA LIBERALE CLASSICA, L’ESALTAZIONE DELL’INDIVIDUO E DELLE SUE POSSIBILITA’ DI CAMBIARE LA PROPRIA CONDIZIONE, CON L’IDEA DI UNA DIFFERENZA INCOLMABILE, IN BUONA MISURA RAZZIALE, FRA CHI COMPRENDE E CHI NON COMPRENDE

Era la prima volta in vita sua che Louisa entrava in una casa delle Braccia di Coketown; per la prima volta in vita sua si trovava faccia a faccia con qualcosa che, in relazione a loro, si avvicinasse all’individualità. Era al corrente della loro esistenza in termini di centinaia e di migliaia. Sapeva quali risultati nel lavoro un loro determinato numero producesse in un determinato arco di tempo. Li conosceva come la folla che andava e veniva dal nido, come formiche o blatte. Ma dalle sue letture sapeva infinitamente di più sugli usi degli operosi insetti che di quegli operosi individui, uomini e donne. 

Naturalmente la realtà storica fu ben diversa da come viene espressa nei romanzi. Se la retorica adottata nel corso dell’Ottocento ed oltre è quella assistenziale e moraleggiante che troviamo descritta, i livelli di consapevolezza e di ipocrisia della borghesia industriale, nella necessità di organizzare la manodopera ai fini della produzione, dovevano essere alquanto rilevanti, a partire dal fatto che solo una certa quantità di privazioni potesse garantire i profitti delle attività industriali – ovvero, che è lo stesso, che la crescita del capitale si basa sul plusvalore sottratto all’operaio. 

In questi casi il perbenismo e lo sdegno, ossia il campo della morale, sono sempre una buona copertura. Il motivo per il quale un certo numero di romanzieri ricorre a una rappresentazione ironica del conflitto di classe e dei tentativi di diluirlo attraverso l’assistenzialismo è ancora una critica rivolta internamente alla borghesia e alle sue autorappresentazioni, mentre non si esce dall’individuo, dalla morale. La dimensione politica come sarà intesa nel secolo successivo, con le conseguenti problematiche etiche (cosa è giusto, cos’è sbagliato, se ci pensiamo collettivamente?) è di là da venire, e a salvarsi è ancora e solo il singolo. Al termine delle sue avventure Oliver Twist eredita una considerevole fortuna, Jane Eyre si eleva al di sopra dei tanti compagni di sventura grazie alla propria capacità, ma alla fine viene legittimata da un’ulteriore, cospicua eredità, Sissy – protagonista di Hard Times – grazie alla sua fantasia non piegata dal pragmatismo riesce ad avere una vita decorosamente felice. Le condizioni dei compagni di sventura non cambiano, e il male continua ad abitare la storia.

Germinale, titolo del grande romanzo operaio di Zola pubblicato a puntate tra 1884 e 1885, è il mese del calendario rivoluzionario fra marzo e aprile, corrispondente alla rinascita della natura. In analogia esplicita, il finale dell’opera allude alle nuove forze sociali che stanno maturando tra fabbriche e miniere. 

Ma sotto quel tripudio della natura, sempre più distinto, il giovane continuava a udire l’oscuro travaglio dei minatori. E di questa messe soprattutto la terra era incinta; una messe che spunterebbe un giorno alla luce, grandeggerebbe nei solchi per gli imminenti raccolti. Là in fondo un esercito lentamente cresceva; un nero esercito vendicatore che, schiantando la terra, ben presto esploderebbe alla luce. 

L’organizzazione operaia, con tutte le strutture di cui in parte si parla negli articoli storici di questo numero, è ormai maturata.

Il romanzo narra le terribili condizioni di vita dei minatori di un’immaginaria cittadina del nord della Francia, vicino a Lille, e il grande sciopero che monta ed esplode, portando a un grande e generale fallimento. A poco più di trent’anni da Hard times, il conflitto di classe in questo romanzo è esplicito, e le accuse che vengono impostate contro la borghesia industriale sono chiare.

IL CONFLITTO DI CLASSE IN QUESTO ROMANZO E’ ESPLICITO, E LE ACCUSE CHE VENGONO IMPOSTATE CONTRO LA BORGHESIA INDUSTRIALE SONO CHIARE

Fra i numerosissimi personaggi che compongono il romanzo la linea del censo separa nettamente l’una e l’altra parte, non in quanto buoni e cattivi ma come oggettivamente appartenenti a due campi dagli interessi in inevitabile conflitto. Fra i possidenti non compaiono solo i componenti dei vari consigli di amministrazione; c’è anche Deneulin, ingegnere progressista che cerca di migliorare tecnicamente la propria miniera per ottenere delle ricadute collettive sulle condizioni sue e degli operai, travolto anch’esso dallo sciopero (ma «sentiva che i veri colpevoli erano tutti; che tutto ciò era la conseguenza d’una colpa collettiva, secolare. Oh certo dei bruti, gli autori di quello scempio; ma dei bruti che non sapevano leggere e che crepavano di fame»); e c’è la famiglia Grégoire, genitori e figlia, esponenti di una stirpe che, grazie a fortunose circostanze, da circa un secolo sopravvive egregiamente grazie ai dividendi della maggiore compagnia mineraria della regione (nutrendo una «profonda gratitudine […] per un titolo che da un secolo manteneva la famiglia a far nulla»). 

Quest’ultima famiglia di rentier è la più aperta ai bisogni degli operai, che spesso sono soccorsi con qualche aiuto in natura, in termini di vestiti o di piccole quantità di cibo. Si ripete ancora una volta la rappresentazione ironica della borghesia paternalista: Zola presenta specularmente il risveglio dei coniugi Grégoire, preoccupatissimi di non turbare il riposo della figlia Cecilia, badando a prepararle i più prelibati dolci per la colazione riscaldata da caminetto e calorifero; e la marcia di Costance Maheu con i due figli piccoli, in mezzo alla neve, per cercare un misero prestito, tra il bottegaio che in cambio desidererebbe una notte con la figlia e il prete che si volta dall’altra parte. Si giunge così al confronto.

Vedendosi spinta lei e i piccini verso l'uscita, la Maheu prese il coraggio a due mani:
«Oggi è miseria nera, per noi,» balbettò strozzata. «Se potessimo avere solo uno scudo...» La voce le mancò: i Maheu erano fieri, non mendicavano.
Cecilia, interdetta, guardò il padre.
«No, non è nelle nostre abitudini,» disse quello, secco; col tono di chi allega un preciso dovere. «Non possiamo farlo.»
Toccata dall'espressione d'angoscia che lesse sul volto della madre, Cecilia volle almeno dar qualcosa ai piccini. Andata alla ciambella, che calamitava ancora gli sguardi dei due, ne fece due parti: una fetta per ciascuno:
«Ecco, è per voi!» Poi, ravvedendosi, avvolto ciascun pezzo in un vecchio giornale: «Ne darete anche ai vostri fratelli e sorelle, non è vero?» E, sotto gli occhi inteneriti dei genitori, li avviò all'uscita.

L’elemosina non viene fatta perché i Grégoire sono convinti che i minatori, in quanto poveri, siano incapaci di gestire il denaro e spendano tutti i soldi all’osteria; allo stesso tempo, naturalmente, la compagnia che li affama è la stessa da cui provengono i dividendi che fanno la fortuna della famiglia. 

Al contrario del romanzo del primo Ottocento, però, in Germinale non c’è nessuna eredità, nessuna dote individuale che possa salvare alcuno dei protagonisti. La poderosa macchina della modernità non è una favola, non esiste lieto fine né salvezza. Lo sciopero fallisce, la miniera di Deneulin viene distrutta, papà Maheu muore sotto le fucilate della polizia, molti altri vengono uccisi dalla fame, infine i sopravvissuti ritornano in miniera, che però viene sabotata da un operaio anarchico e crolla. La tragedia, che nell’opera di Zola si rivela interclassista e ha a che vedere con quel preciso modello di produzione, che non risparmia nessuno tranne il capitale stesso, colpisce come un giudizio divino anche i bonari Grégoire, togliendo le illusioni sulle possibilità della nobile e paternalistica misericordia.

LA TRAGEDIA, CHE NELL’OPERA DI ZOLA SI RIVELA INTERCLASSISTA E HA A CHE VEDERE CON QUEL PRECISO MODELLO DI PRODUZIONE, CHE NON RISPARMIA NESSUNO TRANNE IL CAPITALISMO STESSO

 Ciò che, suo malgrado quasi, tratteneva [Cecilia] presso Bonnemort era una curiosità; l'impressione d'averlo già visto, e ben da vicino, quel viso mal squadrato, scialbo, livido, segnato dal lavoro della miniera... Ed ecco si ricordò; si rivide circondata da una folla urlante, si sentì stringere alla gola da due mani gelide. Su, su: era quello seduto lì, l'uomo che aveva tentato di strangolarla! lo ritrovava! E ora gli osservava le mani posate sulle ginocchia: mani d'operaio, dai polsi possenti ancora, nonostante l'età. Sotto lo sguardo della fanciulla che lo scrutava, a poco a poco Bonnemort parve uscire dal suo torpore, notare la presenza della ragazza: intontito, adesso la esaminava a sua volta; e il sangue gli saliva alle guance, un tic nervoso gli stirava la bocca, donde colava un filo di saliva nera. Come attirati a vicenda, affascinati, i due restavano faccia a faccia: lei in pieno sboccio, fresca e prosperosa, cresciuta com'era nel benessere e nel dolce far niente; lui, gonfio d'acqua, rattrappito, ripugnante di bruttezza, con le stigmate d'una razza minata di padre in figlio, dagli stenti e dalla fame.
Quando, poco dopo, sorpresi di non vedersi raggiungere dalla figlia i Grégoire vennero a prenderla, urlarono di orrore. Cecilia giaceva sul pavimento, strangolata; aveva il viso violetto e sul collo l'enorme impronta paonazza d'una mano. Presso di lei, Bonnemort: crollato sul pavimento, donde le gambe non gli avevano più permesso di alzarsi; le mani pareva stringessero ancora; con aria ebete guardava i presenti a occhi sgranati. Nel cadere, aveva rotto la sputacchiera, imbrattando intorno le pareti del suo contenuto. 

Bonnemort è il padre infermo di Maheu, così soprannominato per essere rimasto varie volte sepolto in miniera e aver sempre fuggito la morte, e per esser riuscito a salvare in diverse occasioni oltre una decina di compagni. Uomo duro ma buono, inizialmente contrario allo sciopero in quanto fuori dall’ordine sociale del già noto, ma ormai non più in grado di intendere, spinto da un oscuro risentimento uccide così Cecilia, il simbolo della carità bella e pelosa; sprangando letterariamente lo spazio della riconciliazione non conflittuale e paternalista che già un quindicennio prima, con la Comune di Parigi, la storia si era occupata di chiudere.

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