Cavalcare con le insegne del bene.

I buoni di Luca Rastello

1. Valori

Esistono valori intoccabili, impossibili da mettere in discussione. Più o meno confusamente assemblati vanno a segnare una linea tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, tra l’accettabile e l’inaccettabile, creando così l’immagine morale della nostra società. La nettezza di questa linea probabilmente non è mai così chiara o, se lo è, è solo per nascondere altri tipi di sopraffazioni. L’ottica morale sfocia così nella tifoseria contemporanea, nello scontro perenne tra odiatori seriali e buonisti, eliminando qualsiasi possibilità di riflessione ulteriore. È una guerra di posizione, dove dubitare significa mostrare il fianco al nemico o, peggio, indicargli il punto dove il proprio schieramento è sguarnito. Se poi le contraddizioni che vengono svelate sono quelle delle associazioni no-profit, emblemi del Bene, allora l’accusa di alto tradimento è dietro l’angolo.

È quello che è capitato anche all’uscita dei Buoni, l’ultimo romanzo pubblicato da Luca Rastello nel 2014 ed è questo il primo ostacolo da superare per evitare di ricadere nel facile scontro di posizioni cui si è accennato sopra. La critica mossa a Rastello è stata quella di volersi nascondere dietro un romanzo per attaccare e denigrare associazioni e Onlus di indiscutibile valore civile come Libera e Gruppo Abele, entrambe fondate da don Luigi Ciotti. Ad aggravare la posizione dell’autore, avrebbero contribuito, da una parte, la sua conoscenza profonda di queste due realtà (Rastello è stato direttore della rivista mensile Narcomafie, fondata da Ciotti); dall’altra, l’eccessiva aderenza tra alcuni fatti di cronaca e le vicende raccontate, tra i personaggi finzionali e le persone reali gravitanti attorno all’Onlus torinese. Che l’avvertenza posta all’inizio del libro («nomi propri, toponimi e riferimenti storici sono frutto della fantasia dell’autore») non aiuti a disinnescare la tentazione di vedere dietro a ogni personaggio la controfigura di una persona pubblica in carne e ossa, anzi, che forse la alimenti, non è per forza un difetto del romanzo.

Il sospetto che si sia persa un’occasione per discutere i problemi posti dal romanzo e il suo valore letterario è forte e non per mancanze di Rastello, ma per quelle tanto dei suoi detrattori quanto dei suoi promotori. Negli interventi critici sembra sempre mancare il presupposto formale: ogni forma, sia essa saggistica o romanzesca, ha delle sue specificità, impiega dei modi per dire qualcosa sulla realtà. Partire dai primi può permetterci di capire meglio quello che Rastello voleva dirci rispetto a questo qualcosa che è il mondo dei buoni.

ESISTONO VALORI INTOCCABILI, IMPOSSIBILI DA METTERE IN DISCUSSIONE. PIU’ O MENO CONFUSAMENTE ASSEMBLATI VANNO A SEGNARE UNA LINEA TRA IL BENE E IL MALE, TRA IL GIUSTO E L’INGIUSTO, TRA L’ACCETTABILE E L’INACCETTABILE, CREANDO COSI’ L’IMMAGINE MORALE DELLA NOSTRA SOCIETA’

2. Il paradosso di Bucarest

Ad aprire il romanzo è un capitoletto di una pagina, intitolato Personae, dove un narratore si rivolge direttamente al lettore, presentando i tre protagonisti delle rispettive parti in cui si articola il libro (L’uomo dal paradiso; Scuola di empietà; L’uomo dall’inferno). È una prima pagina che funge da prologo non solo per il breve elenco dei personaggi (assecondando un tratto tipico delle opere drammatiche, dove le dramatis personae sono appunto i personaggi del dramma), ma anche per l’indicazione narratologica che suggerisce. In ognuna delle tre parti infatti saremo tendenzialmente calati dentro la coscienza di uno dei tre personaggi presentati (nell’ordine: un «operatore umanitario»; una ragazza romena che tenterà di integrarsi in Italia; e un ragazzo romeno, Adrian, pieno di rabbia). Vedremo e sperimenteremo le vicende narrate attraverso di loro. Il restringimento dell’universo narrativo non è secondario: produce delle aree di indeterminatezza, dei vuoti che abbassano l’intelligibilità del testo e che richiedono continuamente inferenza da parte del lettore. Le ragioni di questa scelta dipendono evidentemente dagli effetti di senso ricercati da Rastello, diversi per ciascuna delle tre parti del romanzo.

Nella prima parte, L’uomo dal paradiso, ambientata in Romania alla fine degli anni Novanta, seguiamo le vicende di Andrea Vitaliano, operatore umanitario e alter-ego finzionale dell’autore. Pieno di «buone intenzioni», Andrea arriva a Singureni, piccolo paesino a trenta chilometri da Bucarest, dove annualmente torna per supervisionare un progetto («un presidio per l’aids pediatrico») allestito dall’ONG per cui lavora e finanziato dall’Unione europea. Ad attenderlo c’è una sua vecchia conoscenza, Mauro Bulgarelli, reporter fotografico che viaggia per lavoro cercando di vendere i suoi servizi per qualche rivista di volontariato. I due non potrebbero essere più lontani, almeno secondo la prospettiva di Andrea: se il primo è tutto consumato dalla sua «avidità di reporter», il secondo è un «operatore umanitario», che fa «progetti» per gli altri. Le parole disegnano la carta astrale dei valori di Andrea, il linguaggio segnala ciò che è illuminato dalla luce del bene da quello che non lo è. È lui l’uomo dal paradiso.

Le cose cambiano leggermente quando Mauro e Andrea hanno la possibilità di visitare i sotterranei di Bucarest. È qui che Andrea, e il lettore con lui, rimangono spaesati, in cerca di appigli valoriali e narrativi per capire quello che succede. Tutto viene narrato in fretta, per immagini lampo o conversazioni “in presa diretta”, in un susseguirsi di nomi e vicende che a una prima lettura sono difficilmente collocabili nel nostro spazio mentale. Il caos narrativo doppia il caos valoriale che per alcuni giorni assale l’operatore umanitario in visita all’ underworld romeno. Lì bambini e adolescenti scappati di casa (il fenomeno dei bambini di strada emerge con forza dopo la caduta del regime socialista, nel momento in cui crolla un intero sistema sociale) sopravvivono in una guerra di tutti contro tutti, sopportando violenze ed esercitandole su altri, anestetizzandosi e dimenticando la fame con massicce dosi giornaliere di Aurolac. Le pagine ambientate a Bucarest sono all’insegna, oltre che della confusione,  del paradosso e del ribaltamento assiologico: ciò che in superficie è bene (l’acqua calda d’inverno), nei condotti sotterranei dove vivono gli orfani è male (troppo calda per permettergli di lavarsi); ciò che è inaccettabile (abusare di un minore) diventa necessario per perseverare nel bene (è il caso di Rafael, animatore e operatore sociale romeno, che «per fare qualcosa per altri deve prima fare cose per lui. E allora dorme con bambino»); e ciò che è giusto, come picchiare per difendere dei bambini dalla «gente della superficie», può significare aggravare il male. Lo sa meglio di altri Azalea, la giovane romena ex-inalatrice di Aurolac, che si assume il ruolo di guida per i due italiani nei cunicoli di Bucarest e si sfoga contro Andrea:

Aza: «io te capisco. Però tu non conosci strada. Questa è vita loro. E loro piace così. Se tu aiuti loro oggi è bene, ma se poi tu non aiuti domani è male.[…] Domani loro solo pensano: “Dove tu?”. Se io fame e tu mi dai da mangiare oggi io ho pancia grossa. Ma tu domani vai Italia e io solo mi arrabbio contro di te. No te ringrazio che oggi mi hai dato da mangiare. Capisci?»

CAPISCE?

«E se tu fai male a loro di sopra, domani loro tornano e non sono cinquanta, ma cento o anche duecento. E tu dove sei? A casa a Italia? Volevi picchiare per amici. Fatto bene. Ma più male.»

(B, 43-44)

Il bene e il male, indistinti e reciproci. È una lezione che passa sottotraccia per Andrea. Il secondo paragrafetto citato si apre con un «capisce?» retorico, che rimarca quanto l’operatore umanitario in realtà non capisca, continuando ad assumersi il ruolo di «uomo dal paradiso»: ad Aza suggerisce («devi venirci, in Italia, là è più facile»), promette («ti possiamo aiutare anche per un lavoro») e per lei progetta («quel che ci serve è un coordinatore dall’Italia. […] È un lavoro fatto per te, no?»). E, poi, se ne torna in Italia.

© Radu Ciorniciuc

3. Corde, fruste e Azalee

La seconda parte, Scuola d’empietà, è ambientata nel nuovo millennio, alcuni anni dopo i fatti raccontati nella prima, in una città dell’Europa occidentale facilmente identificabile con Torino. È la parte centrale e più corposa del romanzo (copre circa il 65% di tutto il libro), dove vengono svelate alcune delle contraddizioni maggiori del volontariato, ed è proprio Aza a esserne al centro, passando progressivamente dallo stato di utente a quello di operatore. Comparsa improvvisamente una sera di inizio millennio sulla soglia della casa di Andrea a Torino, la ragazza inizierà un percorso di apprendistato linguistico (impara l’italiano), valoriale (i valori-feticcio e le retoriche della solidarietà), affettivo (diventando l’amante di Andrea) e lavorativo all’interno dell’Onlus In punta di piedi (Ipdp), fondata dall’eroe antimafia don Silvano, «l’uomo santo», «la leggenda di tutti quelli che danno alla parola “strada” un valore morale» e per il quale, da alcuni anni, lavora anche Andrea. La prima volta che Aza ha la possibilità di incontrarlo, ne rimane folgorata:

AZA PENSA CONTINUAMENTE a don Silvano, per giorni. Non come pensa ai maschi però. Come a un altare. A qualcosa di cui si dovrebbe parlare, anche senza capire fino in fondo. Parlarne con qualcuno, o forse con chiunque. Pensa alle candele sottili accese nelle penombre, nei cunicoli e sulle iconostasi. Ha voglia di deviare ogni discorso sull’argomento irrisolto e affascinante: Silvano è un santo. […] Silvano le darà un’occasione, e Aza usa le immagini selvatiche che precedono il sonno per studiare il modo di non deluderlo […]: per sopravvivere non devi lasciare la corda a cui sei aggrappato, questa corda.

(B, 73)

La bontà di Silvano si riflette negli occhi della ragazza cui la vita aveva insegnato a vedere il legame segreto tra il bene e il male. Ora è accecata dalla santità che tende la mano, che offre una corda cui aggrapparsi e vede solo bontà. La relazione d’aiuto inizia con uno squilibrio non percepito: il pensiero a Silvano è totalizzante («pensa continuamente», «per giorni») e diventa un basso continuo nella vita di Aza (prima di addormentarsi «studia il modo per non deluderlo»).  Non deluderlo significa ripagare il suo aiuto, lavorando per lui, partecipando alla sua missione sulla terra, seguirne le parole e agire, con umiltà ma forza, come dice lui stesso: «Ci vuole resistenza, e volontà… Da noi non si contano le ore… Si va avanti a piccoli passi, ma con molta forza…».

Dall’esatta metà del libro quella che era una corda d’aiuto diventa una frusta, «la frusta dell’oltre». Così viene chiamata quella volontà instancabile di aiutare gli altri senza chiedere nulla in cambio, nemmeno i soldi che dovrebbero spettare da contratto ai lavoratori (operatori) della Onlus. Si lavora per un bene superiore («l’oltre» che indica sia l’impegno chiesto ai volontari, sia il fine ulteriore cui si aspira) e per questo ci si autosfrutta. Non c’è tempo per battaglie sindacali, per recriminazioni, dubbi, come una lavoratrice transgender si sente dire da un altro suo collega, dopo aver semplicemente puntualizzato le ore di lavoro previste da contratto:

«E tu sei convinta… Convinto… Che siamo qui per avere un lavoro e pensare alle clausole contrattuali? Guarda, vuoi sapere la verità? Io invece sono qui per un progetto di vita. E magari lo rivendico anche di non sapere quante ore prevede un contratto… A partire dal mio. Il fatto è che io la sento, la frusta dell’oltre, tutti i giorni, non solo in piazza. È chiaro che non è un lavoro, questo? Per nessuno! Ma se per te è diverso… Per me invece i soldi non sono un problema, non siamo gente che si preoccupa dei soldi. Siamo qui senza se e senza ma. Io credo che chi sta qui per lavoro, e non per condividere un progetto, forse dovrebbe guardarsi intorno…»

(B, 138, corsivo nostro)

Si dice che chi plasma un linguaggio condiviso abbia il potere di consegnarci, assieme alle parole che inventa, anche una visione del mondo. Molta della forza di Silvano sta proprio in questa sua capacità mitopoietica di creare una lingua che “abita” le persone che la parlano. Non è un caso che i verbi che più spesso vengono associati all’«uomo santo» siano «partorire» e «battezzare», entrambi impiegati con una doppia valenza: da una parte, segnalano la nuova vita dei bisognosi che, dopo essere stati aiutati, diventano a loro volta i «cavalieri del bene»; dall’altra, la capacità di questa lingua di creare una galassia valoriale indiscutibile che viene riusata anche e soprattutto al di fuori della Onlus («ci sono frasi, parole nate in un suo discorso che hanno messo le zampe, iniziato a camminare da sole nel lessico della città, dei suoi politici, dei suoi giornali, dei suoi sindacati»).

 Se ne rende conto Aza nel momento in cui le viene affidato il compito di rispondere al posto di Silvano alle molte lettere che il prete riceve. La sua carriera, da questo momento, «si gioca sul possesso del linguaggio», nella capacità di non disperdere l’aura che ricopre tutti i discorsi del santo. È una vera e propria iniziazione al vocabolario della Onlus e per il lettore coincide con la presa di consapevolezza che tutti i discorsi diretti e riportati dei personaggi fino a questo momento (ma anche successivamente) erano (e saranno) il pallido riflesso dei discorsi di Silvano.

Aza scrive, impara, conserva, dosa: non scorda mai il portapenne in faccia alla maestra [aneddoto ricorrente nei discorsi di don Silvano, ndr], e non dimentica di sporcarsi le mani, metterci la faccia, mettere testa, di non tirarsi indietro, senza se e senza ma, e di guardare avanti, costruire futuro, speranza, e la memoria che si fa impegno, a piccoli passi ma con molta forza, e la fatica, il cammino, il primato della persona, soprattutto la condivisione, un cammino di condivisione, condivisione da costruire, senza se e senza ma, appunto, e il morso che ti permette di lavorare senza stipendio, la frusta dell’oltre, e sì, anche il passo lento del montanaro, e i muri che parlano e restituiscono memoria, dalla sede dei Piedi e dai beni confiscati, e soprattutto la legalità, e sempre la memoria. E cresce.

(B, 111)

La semantica dei verbi riferiti ad Aza («scrive, impara, conserva, dosa […]. E cresce»), al di là della referenzialità, è quella della crescita. Anche lei viene partorita simbolicamente da Silvano («Silvano è l’unico padre che ho avuto!» dirà alcune pagine più avanti), cresce sotto la sua ala e verrà da lui battezzata con un nuovo soprannome: non più Aza, ma Lea, soprannome che Silvano «con umiltà ma con forza» preferisce. Il nuovo nome segna il passaggio simbolico dall’Azalea di prima (la bisognosa, l’utente) alla nuova operatrice umanitaria, collaboratrice fedele di Silvano e progressivamente ammessa a sedere attorno al «tavolo di marmo» dove si decide del destino dei lavoratori di In punta di piedi, da licenziare («accompagnare» secondo il gergo della ONLUS) o promuovere («premiare»).

4. Laboratori sociali

Io credo, che non ci sia stato un altro periodo nella storia in cui gli uomini siano arrivati al nostro livello di cattiveria e di egoismo.
Un uomo oggi, non avendo remore di morale e di coscienza, tanto più gli conviene tanto più è carogna.
È carogna coi più deboli, è carogna coi più forti…
No, coi più forti è viscido.
È carogna con la moglie, coi figli, con gli amici, è carogna con il mondo intero.
Però la domenica, un’azalea.
Tutti che comprano un’azalea.
Un’azalea per questo per quest’altro per quest’altro ancora, dato che non funziona niente, si risolve tutto con le azalee.

(G. Gaber, L’azalea)

Che Rastello abbia scelto di dare alla sua protagonista il nome di una pianta che da decenni è ormai simbolo del no-profit e dell’aiuto del prossimo, probabilmente non è casuale. Come l’azalea, anche Azalea rischia di diventare puro simbolo da sfruttare, vessillo di un bene da sbandierare per nascondere le contraddizioni che non vogliamo vedere. Le stesse forze politiche che sul piano nazionale hanno minato il sistema del welfare e i valori che lo fondavano (dignità della persona, diritto del lavoro, tutela della maternità sul lavoro, ecc.), oggi si fanno in quattro per celebrare le grandi protagoniste del privato sociale, indicandole come modello da seguire sia dal punto di vista economico che civile. In punta di piedi, nel romanzo, non fa eccezione, scegliendo di aziendalizzarsi sempre con finalità superiori al mero profitto, almeno a parole. Passivi di bilancio creati ad hoc diventano la testa d’ariete perfetta per ottenere da una parte finanziamenti dalla politica e dall’altra una giustificazione per «accompagnare» i lavoratori; la retorica del bene si scopre mezzo ideale per ottenere lasciapassare e benefici amministrativi; l’immagine pubblica di Silvano una copertura perfetta per agire impunemente (la morte di un lavoratore in nero al posto di venire perseguita penalmente, verrà raccontata come la sfortunata perdita di un «veterano» dell’organizzazione; la denuncia di un lavoratore picchiato a sangue finirà nel dimenticatoio).

All’ultimo capitolo della seconda parte viene riservata la denuncia finale attraverso il montaggio alternato dei discorsi pubblici di don Silvano («E allora diciamo: mai più lavoratori uccisi dalla fatica quotidiana, mai più morti come queste, mai più condizioni come quelle che ci portano ora davanti a quattro bare») e le conversazioni private tra i suoi collaboratori, tutti intenti a trovare modi per distruggere i diritti dei lavoratori:

«NON TI AVEVO MAI SENTITO CANTARE…»

«Sì, ma oggi è un giorno speciale.»

«Perché?»

«Ho trovato un modo per annullare i contratti a tempo indeterminato.»

«Ma non si può…»

«Oh, nel sociale si può tutto.»

Ma tutto continua a essere un romanzo, non una denuncia onnicomprensiva alla galassia no-profit. Rastello costruisce il suo libro come se fosse un laboratorio sperimentale in cui far reagire pezzi della realtà sociale; li deforma, ne amplifica certi tratti e ne nasconde altri, affinché meglio si vedano le contraddizioni intrinseche al mondo che sta rappresentando (e quindi interpretando, con le sue ambivalenze). Non fa sconti a nessuno, nemmeno a sé stesso e al suo alter-ego finzionale, forse più cosciente, ma non meno meschino di don Silvano. Proprio ad Andrea spetterà di cercare il motivo del successo di questo «uomo santo» confidandosi con il terzo e ultimo personaggio del “dramma”, Adrian.

Abbiamo bisogno di rimandare la lotta […], ma abbiamo bisogno anche di fingere di combattere, e di amare la lotta. Abbiamo bisogno di concedere a noi stessi ancora un brandello di questa vita che in fondo non ci impegna, di tenere un francobollo di orizzonte al fondo delle nostre giornate senza cuore. Ed è don Silvano che ce lo permette: lui garantisce che farà il lavoro al posto nostro. Tutti lo amano, i potenti, i belli, i celebri, e la suora che trema sotto il suo sguardo. Tutti sono orgogliosi di essere suoi amici. Perché lui cavalca con le insegne del bene. La sua mano concede a tutti ancora un “Io ho da fare”. È l’eroe di questo tempo, è la consolazione. Combatte lui la battaglia che noi non abbiamo tempo di combattere: non vincerai mai con lui, e neppure gli toglierai la maschera. Ci sarà una suora a impedirtelo, un politico, un cantante famoso e un ragazzo pieno di ideali. Lui è il polmone artificiale che li fa respirare anche quando l’aria è carica di acido e gas velenoso, lui è la vita che ti ha catturato e mostra la sua onnipotenza e misericordia lasciandoti andare ancora per un po’, che ti permette di continuare a occuparti del lavoro, dei figli, del partito, di una guerra che scoppia o un amore che ti lascia, del tuo mestiere di rockstar o del potere che devi ancora accumulare. Noi siamo l’acqua in cui cresce la pianta, amico mio: lo difenderemo fino alla morte, pieni di gratitudine per il velo che mette fra noi e il mondo.

(B, 191)

5. Generazioni, solitudini e orizzonti

È l’eroe di questo tempo, è la consolazione». Il punto non è e non sarà allora attaccare il volontariato e il no-profit in tutte le sue forme, ma il sistema sociale entro cui prolifica, lottare contro di esso (smettere «di fingere di combattere»). Non è una dimensione secondaria quando si legge un testo di Rastello: il conflitto è stato un elemento centrale nella formazione dell’uomo, prima che dello scrittore. La sua partecipazione al movimento del ’77 a Torino ha segnato il suo modo di vedere la realtà, non come data, ma come prodotto di ideologie in conflitto. Piove all’insù, il suo primo romanzo, nasce proprio dalla consapevolezza di uno scarto tra l’ora (i primi anni zero da cui viene narrata la storia) e l’allora (il ’77 a Torino), tra un passato conflittuale e un presente in cui la lotta è costantemente rimandata. «Come siamo diventati così?», «perché accettiamo e subiamo cose per cui un tempo ci saremmo ribellati?» si chiede Rastello. È una domanda generazionale, ma non solo.

Luca Rastello
10/05/14, Torino, Lingotto Fiere, Salone del Libro 2014. Nella foto: Luca Rastello

Generazionale perché quella dei nati all’inizio degli anni Sessanta (Rastello è del ’61) è l’ultima generazione ad aver partecipato a un grande movimento di massa (se non contiamo l’eccezione, tutta particolare, dei movimenti no-global e quelli delle associazioni pacifiste che si riuniscono a Genova nel 2001). Un movimento peculiare, quello del ’77: da una parte, ha rappresentato l’ultima avanguardia di resistenza ai processi di depoliticizzazione e di privatizzazione già presenti nella società italiana; dall’altra, è stata abitata anche da anime le cui parole d’ordine intercettavano già il mondo di là da venire (i linguaggi post-ideologici, la ricerca di una felicità privata ed edonistica, ecc.). Questo è il primo noi che Rastello interroga, assieme probabilmente anche ai «fratelli grandi» del ’68: perché abbiamo smesso di lottare? Forse un abbozzo di risposta sta tutta nella parabola esistenziale di un personaggio periferico dei Buoni, un frate italiano, trasferitosi a Singureni e che Andrea incontra nelle primissime pagine del romanzo:

IL FRATE è italiano, una volta era di Lotta continua, adorava Adriano Sofri e portava i capelli lunghi […]. Poi è rimasto solo, ha incontrato don Silvano, leggenda di tutti quelli che danno alla parola «strada» un valore morale».

(B, 14, corsivo nostro)

Ma la domanda che Rastello si pone non è rivolta solo ai membri di una o due generazioni, chiamati a fare i conti con le proprie vittorie e sconfitte storiche: riguarda potenzialmente tutti noi, apparentemente ipnotizzati dall’«incapacità di concepire le nostre esistenze come collettive e modificabili»[1]. È quello che, in un precedente articolo, avevamo definito come «lo sguardo del cobra», parlando di una raccolta di poesie, La pura superficie di Guido Mazzoni, che fondava il proprio immaginario poetico proprio su questa impossibilità. Dai versi di una poesia come Genova, in cui l’io lirico registra i fatti del 2001 emerge una parabola storica analoga a quella del frate di Singureni che compare nei Buoni:

Il giorno dopo sapranno che la polizia è entrata in una scuola per torturare i manifestanti, come nel Sudamerica degli anni Settanta, e proveranno odio, per qualche settimana si sentiranno parte di un movimento immenso, un mese dopo si dissolveranno, dieci anni dopo saranno soli e incomprensibili.

(G. Mazzoni, Genova, in La pura superficie, 63, corsivo nostro)

Entrambe le traiettorie esistenziali finiscono nella solitudine («poi è rimasto solo»; «dieci anni dopo saranno soli»), nella chiusura di qualsiasi spazio di manovra che trascenda politicamente l’individuo. Le reazioni a questo stato di cose sono probabilmente due facce della stessa medaglia. Quando «l’aria è carica di acido e di gas velenoso», per citare le parole di Andrea, le uniche possibilità che ci vengono offerte sembrano essere due: rimanere bloccati nella consapevolezza disperata che moriremo di asfissia (come accade ne La Pura superficie); oppure assicurarci un «polmone artificiale» che ci permetta di respirare e di sentirci ancora dalla parte giusta della storia. Don Silvano diventa così sineddoche di tutto ciò che ci permette di continuare a «cavalcare con le insegne del bene». Parole come umanità, solidarietà, no-profit, volontariato, attenzione alle differenze, rischiano di diventare vuote, concetti utili per riempire dossier europei, progetti di ricerca molto catchy o pubblicizzare il «cuore grande» delle capitali del volontariato. Sono i «francobolli di orizzonte», surrogati dell’orizzonte reale che possiamo raggiungere solo lottando quotidianamente e collettivamente.

Rastello ci ha smascherato proprio lì dove pensavamo di avere la nostra ultima riserva di bontà, ma ci indica anche una possibile via per uscirne, fuori dalla morale dicotomica tra i buoni e i cattivi.


[1] Vedi Lo sguardo del cobra (ancora su ‘La pura superficie’).

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