La zappa al posto del fucile
1948. A dialogare sono un francese, durante il proprio processo, un giudice e le autorità militari presenti. L’uomo è condannato al carcere per obiezione di coscienza, per aver scelto la zappa al posto del fucile. Lo scambio di battute è tratto dal film Non uccidere, del 1961, diretto dal regista Claude Autant-Lara. La pellicola, basata su una storia vera, tematizza l’obiezione di coscienza verso il servizio militare e, subito dopo la sua uscita, fa scattare il divieto di proiezione: viene accusata, infatti, di istigare a disertare il servizio militare obbligatorio. Per questo motivo, alla Mostra del cinema di Venezia dello stesso anno la valutazione del film divide i giurati. Si giunge alla censura della pellicola, ma non poche sono le reazioni successive. Il 20 ottobre 1961 la “Comunità europea degli scrittori” lo proietta al cinema Quattro Fontane di Roma: l’ingresso viene vietato dalla Questura, suscitando la protesta davanti al cinema. Un mese dopo, il sindaco di Firenze Giorgio La Pira ne autorizza la proiezione. La pellicola approderà ai grandi schermi in Francia soltanto nell’estate del 1963.
L’obiezione di coscienza è il rifiuto, da parte di un individuo, di sottostare a una norma giuridica reputata ingiusta in base a un diritto fondamentale del cittadino: nel caso qui specifico si riferisce al rifiuto delle armi. Obiezione deriva dal verbo latino obicěre che significa «gettare innanzi». L’idea di anteporre la propria opinione alla norma costituita si manifesta una prima volta nel 1861. La coscrizione obbligatoria di quell’anno riscontra una resistenza generale, notevole soprattutto nel meridione, che viene però placata dalla repressione compiuta dall’esercito piemontese. Ma è con le due guerre mondiali che lo scenario cambia radicalmente.
Durante la Prima guerra mondiale sempre più civili si oppongono alla leva. I numeri parlano: 470.000 processi per renitenza al servizio e oltre 1 milione per altri reati militari (quali diserzione, procurata infermità). Questi dati hanno dei nomi, come quello di Luigi Luè, uno zoccolaio lombardo che si rifiutò di indossare la divisa. Da quel momento si avvia per Luè il classico iter riservato a chi come lui ripudiava la guerra: processi, reclusioni in carcere, sedute presso gli ospedali psichiatrici e, nel suo caso particolare, lavori forzati alle saline di Margherita di Savoia. Il secondo dei due processi che lo vedono imputato si conclude con una condanna ad un anno di reclusione, in aggiunta ai sette della precedente sentenza. L’obiettore, però, sconta la sua pena detentiva solo per altri due anni, in virtù dell’amnistia promulgata da Francesco Saverio Nitti nel 1919.
Altre storie di opposizione e repressione costellano il ventennio fascista. Josef Mayr-Nusser è il primo obiettore di coscienza cattolico italiano e nel 1934 diventa dirigente dell’Azione Cattolica. A partire dalla metà degli anni Trenta prende le redini della sua diocesi tentando di sensibilizzare la comunità bolzanina sull’impegno di ogni buon cristiano in un periodo storico di notevole difficoltà. Il suo tentativo è di «spingere i cattolici a schierarsi e ad uscire dallo stato di torpore in cui erano caduti, per opporsi al dilagare dell’ideologia nazista», cercando di tracciare il giusto cammino dei credenti. Dopo l’8 settembre 1943, per Mayr-Nusser si apre la pagina più tragica della sua esistenza: su ordine di Hitler le truppe dell’esercito tedesco possono eseguire il reclutamento forzato dei cittadini italiani: fra questi c’è anche lui. Dopo tre settimane di preparazione, per i deportati è previsto un giuramento a Hitler; ma Mayr-Nusser, il 4 ottobre, conclusosi l’allenamento, dichiara: «Signor maresciallo, io non posso giurare fedeltà a Hitler», parole che gli costano il trasferimento nel campo di concentramento di Dachau. Muore il 24 febbraio ad Erlangen, durante il viaggio, per i maltrattamenti subiti, la fame e la sete.
Giunta al termine la guerra e nata la Repubblica italiana, la questione dell’obiezione di coscienza inizia ad assumere una rilevanza sempre maggiore. Protagonista di questa nuova ondata di conflittualità, che non termina con la fine della guerra, è Pietro Pinna. Dopo un suo primo rifiuto a prendere le armi nel ’48 e una condanna a dieci mesi di reclusione, viene nuovamente richiamato a prestare il servizio militare: anche questa volta decide di opporsi, subendo una nuova condanna di otto mesi. In questa occasione i giudici militari agiscono con così tanta fretta che non è possibile per Pinna chiamare i suoi difensori di fiducia. Gli viene consegnato un difensore d’ufficio che però non si rivela tale: si pone contro l’obiezione di coscienza, inchiodando così Pinna al suo destino. L’irregolarità della vicenda porta l’onorevole democratico Calosso a presentare un’interpellanza parlamentare sul caso e a formalizzare, con Igino Giordani, la prima proposta di legge per il riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza. Il caso supera i confini nazionali: al Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, e al Presidente del Consiglio dei ministri, Alcide De Gasperi, arriva un appello firmato da ventitré parlamentari inglesi, che si dichiarano favorevoli alla scarcerazione di Pinna e all’adozione di una legge che riconosca il diritto all’obiezione di coscienza. Nel tentativo di archiviare la vicenda, si corre ai ripari: dopo un ulteriore richiamo formale alle armi, a Pinna viene diagnosticata una fittizia nevrosi cardiaca, motivo per cui viene riformato e congedato.
Successivamente, Pinna continua la sua strada come obiettore, ormai noto in tutta Italia. Durante il suo cammino verso la nonviolenza incontra un altro uomo con i suoi stessi ideali e con una particolare inclinazione cattolica: Aldo Capitini. I due diventano stretti collaboratori, anche all’interno del Movimento nonviolento, fondato da Capitini. Nel ’61 organizzano la prima marcia per la pace Perugia-Assisi, diventando quindi un simbolo della non violenza.
Da questo momento in poi – e per i due decenni successivi – si riscontra un notevole aumento del numero degli obiettori. Il fenomeno negli anni ’60 ha una forte espansione interessando soprattutto i giovani cattolici capitanati dalla figura di Giuseppe Gozzini, il cui rilievo deriva dalla particolare concezione di obiezione di coscienza che propone:
Per me il male non è la guerra. Semmai è un male presente anche in quello che per eufemismo chiamiamo “tempo di pace”, perché mette le sue radici in altri mali: l’ingiustizia, la fame, lo sfruttamento, l’ignoranza, la malattia ecc. di fronte ai quali vorrei esercitare molto più positivamente la mia “obiezione di coscienza”. Inutile quindi aggiungere che sarei disposto a servire la patria in un servizio civile alternativo che mi offra questa possibilità.
Arriviamo al ’68. La scelta dell’obiezione di coscienza trova in questo periodo un terreno fertile nel quale collocarsi: è infatti nel bacino della cultura pacifista di questi anni che si registrano nuove critiche nei confronti delle forze armate. Il rifiuto, da parte dei giovani, del servizio militare va via via associandosi non solo a rivendicazioni di ordine individuale ed etico, ma anche a motivi politici di conflittualità nei confronti dello Stato e del suo apparato repressivo. Gli obiettori scendono in piazza e rivendicano attivamente il proprio diritto a astenersi dalla leva. Rispetto agli anni precedenti, in cui la maggioranza degli obiettori basava la protesta su ragioni legate alla fede, buona parte di essi, dal ’68 in poi, pone al centro della propria azione motivazioni laiche.
Il continuo aumento delle proteste e il crescente numero di giovani condannati al carcere per obiezione di coscienza, uniti al rilievo nazionale e internazionale della vicenda, portano lo Stato a emanare il disegno di legge Marcora: nel ’72 la pressione sociale vince la reticenza del parlamento e la discussione si apre. La legge che ne nasce è il primo riconoscimento giuridico all’obiezione di coscienza: rende possibile la scarcerazione dei giovani obiettori precedentemente arrestati e introduce la possibilità di rifiutare il servizio militare, impegnandosi in un servizio civile non armato. Nonostante queste prime conquiste, la legge presenta dei limiti e delle contraddizioni che lasciano un retrogusto amaro alla vittoria: il suo carattere punitivo (8 mesi di servizio in più rispetto a quello armato, commissione giudicante, esclusione delle motivazioni politiche, dipendenza dai codici e dai tribunali militari) e la natura sostitutiva e non alternativa del servizio non armato. L’obiezione di coscienza non acquisisce lo status di diritto, ma viene presentata come un beneficio concesso dallo Stato: a dimostrazione di ciò, la gestione del servizio civile rimane sotto il controllo del Ministero della Difesa. Tale condizione porta gli obiettori a un movimento di lotta per continuare a rivendicare i loro diritti; si uniscono quindi con la LOC (lega obiettori di coscienza), creatasi nel gennaio del ’73. Il Ministero della difesa arriva a cedere la gestione completa del Sc [Servizio civile, da qui in poi Sc] alla LOC, che per qualificare le prime esperienze attua dei corsi di formazione, il primo a Roma nel ’74.
Durante gli anni ’80-’90 si assiste a un fenomeno significativo, che rimane attivo tutt’oggi: il numero dei giovani per il Sc cresce, ma sono sempre meno quelli motivati dalle ragioni profonde dei primi obiettori al militarismo; la stessa LOC perde le caratteristiche di associazione antimilitarista e si trasforma quasi in un sindacato degli obiettori per rivendicazioni corporative.
Nel ’92 la proposta della modifica della legge Marcora per il riconoscimento dei diritti degli obiettori non viene approvata: il Presidente Cossiga rifiuta di firmarla per incostituzionalità e la rinvia al Parlamento con una serie di note di perplessità sul fenomeno OdC. Il giorno dopo, il Presidente scioglie le Camere e la legge ritorna al punto di partenza. Nel mentre, il numero degli obiettori che scelgono il Sc al posto della leva militare continua ad aumentare: 16.000 domande nel 1990, 30.000 domande nel 1994, 70.000 nel 1998. Nonostante le problematicità della legge Marcora i giovani intraprendono consapevolmente la strada del Sc, facendo evolvere ciò che ancora era considerato un sostituto alla leva in una scelta. L’approvazione legislativa rispetto alla nuova concezione sociale del Sc giunge solo nel luglio del ’98, quando il Senato approva il testo della legge 230 di riforma dell’obiezione, colmando alcune delle lacune della vecchia legge del ’72: l’obiezione di coscienza è finalmente riconosciuta come un diritto soggettivo. Con una durata pari a quella del servizio militare, il Sc ne diventa a tutti gli effetti un’alternativa. Dopo due anni, una nuova legge del 14 novembre 2000 modifica alla radice la natura del Servizio di leva che diventa volontario e professionale, determinando così la conclusione dell’obiezione di coscienza a partire dal 2007. Nell’agosto 2004 il Parlamento anticipa al 1° gennaio 2005 la sospensione della leva obbligatoria: inizia qui un nuovo capitolo.
Una palestra per il futuro
Il 28 agosto 2018 un gruppo di studenti della scuola secondaria di II grado manifesta di fronte alla sede del Consiglio regionale di Venezia. Il gesto scaturisce dall’ipotesi di un progetto di legge statale per reintrodurre la leva obbligatoria a otto mesi, un passo indietro nella storia. Da parte dei ragazzi una sola risposta: uno striscione con su scritto «no leva. Signor no, signore!» e un gesto: radersi i capelli a zero. «Se la Regione ci vuole soldati, ordinati e omologati, i nostri capelli sono il massimo che siamo disposti a darle: che ne faccia quello che vuole. Ma giù le mani dal nostro futuro e dal nostro tempo».
Dopo più di cento anni dalle sue prime rivendicazioni, il Sc ad oggi si mostra sotto una forma diversa e qualcosa è cambiato. Una volta che l’obiezione di coscienza diviene un diritto di cui tutti possono godere, la conflittualità che nel passato ha animato la rivendicazione svanisce. Se ne ritrovano alcuni spiragli solo quando un tale diritto sembra poter essere nuovamente estirpato dal presente.
Il mutamento si manifesta apertamente nelle parole con cui i volontari descrivono il Sc: esperienza, responsabilità, ricchezza, solidarietà. È visto come un’opportunità unica e i ragazzi che decidono di “allenarsi” in questa speciale palestra sono generalmente soddisfatti. Dicono di essersi messi in gioco, spostando un piede fuori dalla propria comfort zone. Affermano di aver instaurato delle solide amicizie e di aver conosciuto nuove parti di se stessi proprio perché in un contesto diverso. L’anno di servizio civile appare come l’esperienza da intraprendere per responsabilizzarsi e allo stesso tempo divertirsi. La formazione, la crescita che il Sc dà non è limitata al livello personale: i ragazzi si dichiarano cittadini migliori, cresciuti anche sotto questo aspetto. Il Sc in quest’ottica è visto come una seconda maturità: quella sociale. Accende nei giovani l’ardore della cittadinanza, cioè la consapevolezza di appartenere a una determinata comunità, col fine di collocarsi in prima linea per preservarla.
Dal sito del Sc si legge:
Il Servizio civile universale rappresenta una importante occasione di formazione e di crescita personale e professionale per i giovani, che sono un’indispensabile e vitale risorsa per il progresso culturale, sociale ed economico del Paese.
Parallelamente a ciò va considerato un ulteriore elemento: la possibilità di svolgere questa esperienza lontano da casa propria, in Italia o all’estero. È la retorica del viaggio che entra nelle corde del Sc dandogli quel “di più” utile per stimolare le menti alla ricerca di qualcosa di diverso e nuovo. Ed è così che il volontariato all’estero permette non solo tutto ciò che del Sc già si è evidenziato come positivo, ma anche l’opportunità di conoscere culture nuove, territori diversi che forse mai più nella vita si visiteranno. Nel 2015 il Sc ha mandato 623 volontari fuori Italia e le impressioni dei ragazzi tornati a casa non possono che essere positive. Si arricchisce in questo modo non solo il bagaglio esperienziale dei giovani, ma anche il loro curriculum vitae. Il Sito del SC lo dichiara a chiare lettere:
Diventare volontario di Servizio civile aggiunge alla volontà di dare qualcosa di sé agli altri e al proprio Paese la possibilità di acquisire conoscenze e competenze pratiche ma più in generale rappresenta un’occasione di crescita personale e di formazione. Per questo il Servizio civile universale può rappresentare un’utile esperienza da spendere in ambito lavorativo.
Un’esperienza di volontariato diventa un potenziale elemento decisivo per il proprio futuro occupazionale. Sulla base di una ricerca svolta dall’INAPP [l’istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche] su un campione di 1.511 volontari del Sc nell’anno 2014\2015 è emerso che ad un anno dalla fine dell’attività un giovane su due è risultato essere occupato; nel dettaglio: il 39,3% lavora e il 12,9% studia e lavora. Questo dato non può che essere allettante per i ragazzi. Ma non finisce qui: del campione intervistato, di cui il 67% composto da donne, il 79% ritiene di aver acquisito competenze utili per la vita professionale.
La formale distanza e differenza tra il Sc e il lavoro diventa nel frattempo pressoché impercettibile. I due piani tendono ad avvicinarsi sempre di più, collocandosi quasi uno in funzione dell’altro. L’esperienza del Sc, come altri tipi di volontariato, rientra direttamente nel curriculum dei suoi volontari, in un panorama lavorativo che pesca dal precariato chi dimostra più qualifiche ed esperienze. Tale anno di attività è visto come la possibilità di scegliere un modo “morbido”, e alla portata di tutti, per confrontarsi con una proiezione di quello che sarà il mondo del lavoro. C’è sicuramente un fattore sociale da non trascurare: nel mondo della immediatezza, della tecnocrazia, chi “spreca tempo” rimane indietro, a un livello inferiore rispetto ai suoi coetanei. Il Sc può aiutare, è un due al prezzo di uno: offre un “lavoretto” – che non viene mai definito come tale – e un’attività altruistica di cui andare fieri. Lo stesso rimborso spese che il Sc dà ad ogni suo volontario si trasforma: per la durata dell’attività prende le forme di un mini-stipendio, acquisendo un significato diverso rispetto al modo in cui viene nominato. Così i volontari tirano avanti con quel poco che ottengono, nell’ottica di un “bene superiore” per il quale si lavora. L’ambiguità del Sc è infatti percepita come positiva, sfruttabile nel “tempo breve”, rivelandosi come una delle occasioni a disposizione in cui sviluppare il proprio senso civico e sentirsi parte di qualcosa di più grande. L’aspetto remunerativo passa in secondo piano, a favore, invece, di un più grande obiettivo: il senso di partecipazione e di auto-formazione, in quanto persone e cittadini.
Il progressivo svuotamento della conflittualità che animava il Sc in passato contribuisce a renderlo uno strumento adattabile alle esigenze del presente. Al posto di quella conflittualità oggi si è posta l’ambiguità tra ciò che è lavoro e ciò che non lo è. Infatti, da una parte il Sc si dichiara essere una «scelta volontaria di dedicare alcuni mesi della propria vita al servizio di difesa, non armata e non violenta, della Patria, all’educazione, alla pace tra i popoli e alla promozione dei valori fondativi della Repubblica italiana, attraverso azioni per le comunità e per il territorio». Dall’altra si offre come esperienza utile al futuro lavorativo o lavoro vero e proprio in un contesto di disoccupazione giovanile.
Nel 2017 si parla di ben 43.141 volontari per il Sc, di cui il 48,66% nel sud e nelle isole, il 26,34% al nord e il 25 % al centro; più della metà (il 55,30%) è stato impiegato nei progetti dedicati all’assistenza. I dati parlano da soli: il sud Italia sembra avere più bisogno di questi giovani volenterosi, che rispondono con entusiasmo. Si può ipotizzare una qualche correlazione tra questi dati e la sempre maggiore disoccupazione giovanile al sud: possibili posizioni retribuite potrebbero mancare, fra le altre cause, anche per la garanzia di servizi offerti dal Sc. Dai dati emerge che le due regioni a porsi ai primi posti per numero di volontari nel 2017 sono la Campania (17,01%) e la Sicilia (14,69%) seguite dalla Lombardia, che si piazza in terza posizione con un 7,92% di volontari.
Nel 2008 il Sc conosce un momento di crisi: i fondi disponibili diminuiscono e quindi meno progetti trovano copertura. Come conseguenza immediata, il numero delle domande accolte si riduce a poco più della metà rispetto agli anni precedenti. Molti ragazzi vengono lasciati “a terra”, la maggior parte dei quali del sud. Si può parlare infatti di un “esercito del sud” dove, ad esempio, per 10 posti ci sono 20 o 30 domande, quando al Nord accade l’esatto contrario. È l’ex sottosegretario alla presidenza del consiglio, Carlo Giovanardi, ad affermare che: «è evidente che lì lo strumento viene usato più come ammortizzatore sociale, perché in alcune zone depresse del Paese 430 euro al mese aiutano molto».
Se da una parte il Sc si sovrappone a posizioni potenzialmente retribuibili come lavori, dall’altra alcuni servizi riescono a sopravvivere solo grazie all’azione del Sc: significativa è proprio questa massiccia presenza di volontari del sud in tutto il territorio italiano. I ragazzi del nord invece, già impegnati con lavoro e università, trovano l’obbligo delle 30 ore settimanali del Sc – afferma sempre Giovanardi – troppo gravoso. Con il tempo si è andato a creare un legame inscindibile tra lavoro e volontariato, per il quale la sopravvivenza dell’uno permette quella dell’altro. Entrambi hanno come base comune le mancanze statali sia per il volontario che per le attività, altrimenti decedute sul nascere. È proprio questo il significato più recondito dell’ambiguità del Sc.
Il Sc diventa quindi un corposo bacino che accoglie chiunque gli si ponga davanti, pur con motivazioni alla base diverse: un ambiguo salvagente per chi vuole nuotare, ma manca di destinazione, approdo o remo. Il conflitto, le rivendicazioni concluse e archiviate rimangono il ricordo di un tempo passato, e ad esse si è andato a sostituire un altro obiettivo: l’affermazione in campo lavorativo o personale a partire proprio dal Sc, visto come una prima esperienza vera di vita. Chi l’avrebbe mai detto che si sarebbe passati da la zappa al posto del fucile a una palestra per il futuro.
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