Il Monello o il capitalismo etico

Processo al Monello

Tra i sobborghi di una città non precisata si aggira un bimbo annoiato. Le sue tasche sono piene di sassi, sta lavorando. Il piccolo, appena vede una casa con una qualche finestra in bella mostra, si ferma, fruga nei pantaloni e la colpisce con un sasso. Il vetro è in frantumi. Da questi lo sguardo si rivolge alla strada: ecco arrivare un vetraio. In un batter d’occhio l’uomo ripara il danno e riscuote la paga, pochi spicci. A conti fatti, si congeda e accanto a lui sbuca una figura più piccola, un bambino, che con indifferenza respinge a calci nel sedere. Padre e figlio si allontanano così verso un altro quartiere, sapendo che anche domani potranno mangiare. È il 1921 e il film è il Monello di Chaplin. L’intento del regista è volutamente comico; tutto è un gioco che ci fa sorridere e ci avvicina a questa anomala famiglia, eppure, siamo consapevoli di stare assistendo a una truffa. La risata sembra salvare entrambi dal giudizio e dalla condanna, ma al giorno d’oggi chi lancia le pietre alle nostre “finestre” non è Charlie Chaplin e non fa nemmeno ridere. Ha tanti nomi, tante facce, tante vite, ma, per capirci, possiamo chiamarlo capitalismo etico. Lo si vede un po’ dappertutto, ma non lo si trova effettivamente mai. La questione è piuttosto vecchia e nasce come dibattito su natura e fine delle aziende: cercano il profitto che si riversa poi sulla società, o cercano il bene collettivo, mentre il profitto ne è un “danno” collaterale? Non è quello che ci interessa, per ora ci basti sapere che la sua storia inizia nel 2008, l’anno della crisi. 

«In seguito alla crisi finanziaria del 2008, il termine “capitalismo” è stato usato da molti come fosse una parola sconcia». Parla Stanley N. Bergman che nel 2014 ha partecipato al Forum Economico Mondiale di Davos (Svizzera), dove si è svolto un dibattito aperto dal titolo: Capitalismo etico, vale la pena provare? Dalle sue parole, il capitale sembra trasformarsi in un brand, i cui sbagli (o forse crimini), dallo sfruttamento ambientale a quello umano, ne hanno infangato ingiustamente il nome. La situazione è grave, bisogna ritrovare la fiducia dei consumatori e vincere il processo intentato al capitale. Dapprima è necessario scagionare l’imputato, mostrando come siano state le persone malvage e non il sistema a causare il disastro. Un po’ come dire che il problema non è il fascismo ma i fascisti:

A mio parere questo concetto di “capitalismo” intrinsecamente privo di etica è non solo filosoficamente sbagliato ma anche non condivisibile dal punto di vista pratico. Il problema non è il capitalismo in sé; il problema sono quei capitalisti che si concentrano sul presente senza preoccuparsi del futuro.

Bisogna poi convincere la nostra fantomatica giuria mondiale che, in fin dei conti, l’incriminato è un buon “cittadino”, anzi, il migliore: è indispensabile al bene della comunità, poiché nessuno più di lui ha portato tanti vantaggi, tanto progresso, tanto benessere. Significa screditare ogni altra alternativa. 

Il capitalismo è tutt’altro che perfetto, esattamente come qualsiasi altro sistema. Il capitalismo è però il sistema migliore che siamo riusciti a realizzare fino ad oggi, e se coniugato con un reale impegno di tipo etico offre alla società l’opportunità migliore per creare benessere e sollevare i poveri dalla loro condizione. 

Ottenuta l’assoluzione, è tempo di agire, di dimostrare che si è cambiati, di tirare un bel calcio nel sedere al proprio passato da monelli e, se l’etica è l’ago della bilancia, allora è sufficiente ripudiare i vecchi valori meschini per crearne di nuovi: è il momento di lavare i panni sporchi. Il termine washing non è effettivamente una novità, ma nuova è la portata che ha assunto negli ultimi anni. All’appello del capitalismo etico, infatti, moltissime aziende si sono mosse verso più recenti simboli di consumo il cui valore non sta solamente nella merce, ma soprattutto nella legittimazione che essi offrono. La svolta verde, rosa, arcobaleno che in tanti hanno abbracciato nell’orizzonte del marketing dà nuovo lustro al capitalismo, gli assicura il guadagno e ne ripulisce il profitto da ogni sporcizia. Il capitale allora diventa femminista, ecologista, ambientalista e, a volte, sindacalista

Per alcuni lo stesso denaro, capitato nelle mani di pochi (ma buoni), diventa addirittura veicolo d’amore

Credo profondamente che pensare al denaro come veicolo di Amore potrà cambiare radicalmente le nostre vite. […] Non tanto perché grazie a esso potremmo permetterci delle cose, ma soprattutto perché grazie a esso potremmo sviluppare i nostri talenti al fine di metterli al servizio degli altri e della collettività: mi pare una buona motivazione per diventare ricchissimi.

A portare la buona novella è Oscar di Montigny, un po’ guru del marketing, un po’ filosofo, autore de Il tempo dei nuovi eroi, e, a suo dire, ideatore dell’Economia 0.0, semplice alter-ego del capitalismo etico. La sua è un’idea di economia sostenibile basata sul «capitale creativo culturale, capace di riconoscere nell’Amore, l’atto economico per eccellenza». Il suo è il sogno di un mondo migliore, pagato da chi ha il coraggio di essere un eroe e da chi è capace di vedere la centralità dell’uomo e dell’amore nel denaro. Egli stesso, inoltre, ci ricorda che come nel film la vecchia sinistrata paga il vetraio così anche nella vita “vera”, dietro a tutto, sta il profitto. Questo non è il solito guadagno sporco del padrone, ma è giusto e corretto perché chi fa il bene della comunità, deve pur essere ricompensato. Il “nuovo” capitalismo fa profitti legittimi, perché è bene che chi fa il bene di tutti sia ben retribuito. 

Dobbiamo essere consapevoli che stiamo migrando dall’era della dicotomica polarizzazione tra profit e no-profit a quella che nell’Economia 0.0 viene definito right profit, in cui il profitto proprio in quanto right – nel senso di giusto – appare come un diritto sacrosanto e inalienabile per un’impresa che a esso punta, ma è anche right soprattutto in quanto onesto, giusto, buono, corretto, e addirittura sano.

Il processo è terminato, ora il capitalismo, la logica del giusto profitto e l’Economia 0.0 sono liberi e soprattutto legittimati a salvarci tutti. Dobbiamo solo permetterglielo. È in questo momento che non bisogna cedere e lasciarsi persuadere da un mago che di magico non ha nulla, ma ci illude solamente, guidando il nostro sguardo altrove, lontano dalle mani che toccano ogni cosa. Infatti, il capitalismo etico non solo non trova una soluzione a problemi che da esso derivano, ma nemmeno la cerca; si limita a mascherarsi sotto un polverone di ragionamenti che presuppongono sempre e soltanto sé stesso. L’illusione avviene ben prima del trucco. Il vero problema è che l’etica capitalistica edifica il mondo nuovo a partire da una base che non desidera cambiare e tale resta: è il realismo senza via di uscita che quotidianamente sperimentiamo, quella pretesa realtà naturale che ci appare tale perché è figlia di logiche specifiche e imposte, ma scambiate per leggi di natura eternamente valide. È in questo riflesso che sono seminati e raccolti quei valori “nuovi”. L’imperativo è unico e solo: se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Il calcio nel sedere resta un atto di facciata che nasconde la finestra rotta e i soldi in tasca. 

IL PROCESSO E’ TERMINATO, ORA IL CAPITALISMO, LA LOGICA DEL GIUSTO PROFITTO E L’ECONOMIA 0.0 SONO LIBERI E SOPRATTUTTO LEGITTIMATI A SALVARCI TUTTI

Da Just do it a Don’t do it

Si stima che durante il lockdown la chiusura degli store fisici Nike abbia causato all’azienda circa 800 milioni di perdite. Sono i dati di maggio, mese in cui negli States è scoppiata la contestazione di massa in seguito alla morte di George Floyd e il movimento BLM è tornato sotto i riflettori dei media mondiali. Nel 2016 Nike si era resa già protagonista di una svolta etica nelle proprie scelte di marketing, quando elesse come testimonial del trentesimo anniversario di Just do it Colin Kaepernick, allora quarterback dei San Francisco 49ers, rifiutatosi di alzarsi in piedi durante il classico inno nazionale prepartita: un gesto contro il razzismo e la violenza diffusi a livello istituzionale. Oggi si ripropone la stessa opportunità: rendere lo Swoosh (baffo) ancora una volta simbolo della lotta contro le diseguaglianze. È una scelta etica, ma anche, e soprattutto, una scelta di marketing finalizzata alla legittimazione della propria merce. Da Just do it si passa a For once, don’t do it:

Non pretendere che non ci siano problemi in America. Non voltare le spalle al razzismo. Non accettare la perdita di vite innocenti. Non inventare più scuse. Non pensare che questo non ti influenzerà. Non star fermo senza parlare. Non pensare che non farai parte di questo cambiamento. Facciamo parte del cambiamento.

È uno slogan molto attuale che, tuttavia, stona, qualora lo si leggesse alla luce delle innumerevoli accuse a cui Nike ha dovuto rispondere a partire dagli anni ‘90. Dal Pakistan al Vietnam, infatti, l’azienda è stata investita da una lunga serie di scandali relativi alle pessime condizioni di lavoro dei propri dipendenti. Il capo d’accusa più grave è forse lo sfruttamento minorile, ma si aggiungono altre vessazioni: situazioni lavorative disumane, impossibilità di usare i servizi igienici, mutilazioni e incidenti, paga molto al di sotto della soglia di povertà, obbligo degli straordinari e monte ore che supera, nella maggior parte dei casi, le sessanta settimanali.  L’anno della svolta è il 2005, quando il marchio denuncia le proprie responsabilità e rende pubblico l’elenco di tutte le sue 700 fabbriche presenti nel mondo. É l’anno in cui Nike ha dato inizio a una condotta aziendale di trasparenza e responsabilità sociale. I successivi accordi con le associazioni sindacali e con i governi delle aziende fornitrici in nome della tutela dei diritti umani hanno portato diversi miglioramenti, ma i problemi permangono tutt’ora. Per esempio, pochi anni dopo, nel 2008, in Vietnam scoppia uno dei più grandi scioperi della storia del paese; i manifestanti sono quasi tutti dipendenti presso Nike e denunciano una paga mensile inferiore al prezzo di un paio di scarpe da loro stessi prodotte. La risposta della multinazionale statunitense è poco etica, parafrasando: il salario che vi diamo è comunque più alto della media nazionale vietnamita. 

Pubblicità ingannevole 

Negli ultimi mesi Eni aveva dato il via a EniDiesel+, campagna pubblicitaria dell’omonimo carburante green, «frutto degli sforzi di ricerca e della capacità innovativa dei laboratori Eni» e al quale si attribuivano «proprietà assolutamente uniche sotto il profilo ambientale». La questione finisce sotto i riflettori quando l’Antitrust ingiunge all’azienda il ritiro della campagna mediatica e le impone una multa di cinque milioni di euro. Causale: «pratica commerciale scorretta e grave». La gravità è dipesa dal coinvolgimento massiccio di ogni canale comunicativo disponibile. La scorrettezza, invece, riguarda il prodotto effettivo. I vari claim utilizzati spaziano dall’accento sulla «componente green e rinnovabile» fino a veri e propri appelli al consumatore, sintetizzabili nella formula: proteggi anche tu l’ambiente usando il nostro biodiesel! Attraverso una serie di inchieste, le varie promesse pubblicitarie (riduzione del 40% delle emissioni gassose e in media del 5% di CO2; il 14% di consumi in meno) sono state smentite e considerate non plausibili. Inoltre, si sono aperti una serie di dubbi sulle conseguenze ambientali del biodiesel impegnato, la cui componente maggioritaria sarebbe l’olio di palma. Il cane a sei zampe incassa e ribatte stizzito:

Le caratteristiche chimico-fisiche del bio-componente HVO ne aumentano la compatibilità con il gasolio fossile e consentono al carburante Eni Diesel+ di essere l’unico prodotto disponibile a livello nazionale contenente il 15% di componenti rinnovabili. […] È di intuitiva evidenza come la possibilità di sostituire la componente fossile con una maggiore percentuale di componente rinnovabile sia di per sé una soluzione in grado di abbattere l’impatto ambientale del carburante.

È difficile credere che Eni sia in buona fede quando assicura l’intuitiva evidenza del suo contributo alla questione ambientale. Anche perché un altro recente processo vede coinvolta l’azienda: l’accusa riguarda l’acquisto di un giacimento offshore in Nigeria nel 2001; non solo rispunta il petrolio, ma soprattutto la transizione sarebbe avvenuta grazie al versamento di una maxi tangente di circa due miliardi di euro. I vertici Eni tremano mentre la sua svolta ecologista appare sempre più come un puro green whasing: pubblicità truffaldine, corruzione e persistenza del petrolio.

È la new economy, Bellezza!

Nel 2016 nasce Freeda, qualcosa di apparentemente nuovo nel panorama italiano: un editore social specializzato nella creazione di contenuti “femministi”. Pochi mesi dopo il primo post, quando orami tutti si sono resi conto del suo potenziale (più di un milione di seguaci su Instagram e Facebook), Dinamopress ha svolto un’inchiesta sulla novità del momento, per farlo ha adottato un principio molto semplice: follow the money. Quest’astro nascente del femminismo pop può trarre in inganno e far pensare che nasca da giovani donne alla ricerca di uno spazio per far sentire la propria voce, ma, in realtà, la mole del progetto ha richiesto molto più della sola buona volontà. Infatti, a lanciare la piattaforma e a detenerne la proprietà è Ag Digital Media i cui fondatori sono Andrea Scotti Calderini, ex pezzo grosso di Publitalia (concessionaria Mediaset), e Gianluigi Casole, family office di Luigi, Barbara ed Eleonora Berlusconi. L’ambizione del progetto ha, inoltre, richiamato l’attenzione di Ginevra Elkann (nipote di Gianni Agnelli) e molti altri legati, in un modo o nell’altro, alle due grandi famiglie italiane della storia recente: Agnelli-Berlusconi.

 Freeda è stata anche ospite d’onore al 47° Convegno dei Giovani Imprenditori (Confindustria) dal titolo «É la new economy, Bellezza!». Il compito di presentare il progetto è spettato alla direttrice editoriale (chief content officer), Daria Bernardoni che ne ha celebrato il merito più grande: Freeda è riuscita a targettizzate una nuova fetta di pubblico, le donne millennials dai 18 ai 34 anni, una generazione che, per la prima volta, ha raggiunto la «piena autonomia». Questo primato è funzionale e fondamentale per il modello di business adottato dalla piattaforma; riportiamo le parole della responsabile: 

[tale modello di business] offre alle aziende la possibilità di entrare in contatto diretto con questo target attraverso attività di comunicazione e marketing a trecentosessanta gradi; crediamo, infatti, che qualsiasi brand che voglia entrare a far parte delle conversazioni delle donne di questa generazione lo possa fare in maniera autentica e rilevante solo attraverso Freeda […]

Buona Volontà

Gli esempi proposti sono alcuni fra i tanti che illustrano il medesimo fenomeno detto sussunzione; alcuni sinonimi possono essere assorbimento, fagocitazione o intercettazione. Quest’ultimo ha il pregio di chiarire ulteriormente l’intero discorso: non solo mostra le modalità attraverso cui prende forma questa nuova economia etica, ma permette di capire come, di per sé, manchi effettivamente un soggetto che desideri, pianifichi e attui quest’operazione. Il capitalismo non possiede nessun’etica poiché è privo di una volontà effettiva; è un sistema economico che tenta di conservare sé stesso attraverso l’estrazione di plusvalore, profitto, e, quindi, secondo questo principio, intercetta tutte quelle tensioni che gli possono garantire la sopravvivenza. Procede per tentativi e si riorganizza, definendo la realtà e la sua morale. Il femminismo, l’antirazzismo, l’ecologismo, ma anche il volontariato sono campi che emergono da necessità evidenti e concrete, perciò sono difficili da estirpare, hanno un forte capitale simbolico e possono intralciare la corsa al profitto: la soluzione più economica è quella di metterli a valore e controllarli. 

IL CAPITALISMO ETICO E’ UN’OPERAZIONE APPARENTEMENTE “IN BUONA FEDE”, MA PROPRIO DIETRO QUESTA APPARENZA NASCONDE LA PROPRIA PERICOLOSITA’: RENDE INVISIBILI I PROBLEMI

Il capitalismo etico è un’operazione apparentemente “in buona fede”, ma proprio dietro questa apparenza nasconde la propria pericolosità: rendere invisibili i problemi. Ciò a cui si assiste è un doppio movimento: da un lato la struttura assorbe delle tensioni, dall’altro queste vengono normalizzate nello stato di cose presente. Il rischio è quello di avere un’unica prospettiva attraverso cui guardare il mondo, un realismo granitico privo di alternative che semplifica la realtà e disinnesca il conflitto. Gettare un mozzicone nel cestino, non salverà il mondo; applaudire un atleta nero, non estirperà il razzismo; implementare le quote rosa, non eliminerà le disuguaglianze di fatto; sfamare un senzatetto, non cancellerà né la fame né la povertà. Sono gesti utili, purché non si pensi che così possa bastare: nessuno penserebbe di guarire una malattia ignorando le cause per concentrarsi solo sui sintomi. Il problema del capitalismo non sono i capitalisti senza etica, ma il capitalismo stesso. Altrimenti non servirebbe spendere tanti milioni in pubblicità e convegni per convincerci che fare profitti sia un atto d’amore.

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