Intervista a Roberto Baldo

Roberto Baldo è fondatore e presidente di Gruppo Polis, importante cooperativa sociale padovana, e di Federsolidarietà Veneto. Dato il suo ruolo in due organismi centrali per l’intreccio fra forma cooperativa, modello di partecipazione democratica alla vita economica e solidarietà, andiamo a fargli alcune domande.

Quando nasce la cooperativa? Per quali motivazioni? Qual è il legame con l’obiezione di coscienza? Di cosa si occupa la cooperativa? In quali ambiti? Come si finanzia? Qual è l’equilibrio fra finanziamenti pubblici e privati?

La nostra esperienza nasce in un momento storico unico nel nostro paese: fra fine degli anni Settanta e inizio degli Ottanta, con le imponenti esigenze di trasformazione della nostra società. In quel momento il riferimento che comincia ad esserci in Italia era il Welfare State sul modello nordeuropeo. Il concetto era dalla culla alla tomba, all’interno di un sistema di economico dualistico stato-mercato: il mercato produce risorse, lo Stato le distribuisce per la crescita e pace sociale.

Si parte da un concetto da Adam Smith che, nel Settecento, propone il pensiero liberista: il mercato risolve tutti i problemi, dà la piena felicità, tutti trovano un’occupazione e quindi tutti saremo felici. In realtà dopo un secolo e mezzo un altro un altro luminare, Keynes, dice: «Tosi, non xe proprio cussì, perché il mercato si preoccupa solo di dove c’è il dividendo a fine anno, cioè si preoccupa solo di remunerare il capitale investito; quindi serve lo Stato che tassa e redistribuisce le risorse». È il concetto di redistribuzione del reddito.

Cosa è successo? Avete presente la Thatcher? Ecco, lei è quella che ha smantellato questo sistema. Si è resa conto che le risorse recuperate attraverso la tassazione non sono illimitate mentre i bisogni delle persone tendono ad essere illimitati. Quindi ha dovuto smantellare questo sistema. In quei primi anni Ottanta questo era il riferimento. C’è la riforma delle ULSS, c’è una situazione dove sono evidenziati dei bisogni dei cittadini a cui né il mercato né lo stato non sanno dare risposta; nasce l’idea di auto-determinazione, di auto-organizzazione della società civile per rispondere a questi bisogni.

La novità di quegli anni e quella di utilizzare il modello cooperativo per dare una risposta ai bisogni delle persone. Nasce quello che Jacques Delors ha definito terzo settore, e che il mondo anglosassone definisce non profit: un elemento terzo fra Stato e mercato, un soggetto che ha una organizzazione privatistica, cioè una forma di impresa, per dare una risposta ai bisogni delle persone, quindi una finalità pubblica, non di speculazione o mutualistica interna ma mutualità esterna. Ovviamente per noi nel Veneto questa cosa è molto legata alla tradizione cattolica, quindi all’obiezione di coscienza. All’interno dell’effervescente contesto cattolico veneto degli anni Settanta, l’obiezione di coscienza diventa strumento con cui provare a dare risposta ai bisogni delle persone in difficoltà. Finita questa esperienza, alcuni pensano che la cooperazione sociale – allora si faceva riferimento alle cooperative di solidarietà sociale – poteva essere l’esperienza lavorativa con cui includere persone in difficoltà. L’idea era quella di poter immaginare che il proprio bisogno lavorativo non fosse un bisogno vissuto in maniera singola o in maniera individualistica ma potesse essere condiviso con altri; e non solo con altri colleghi che avevano magari lo stesso bisogno, ma anche con soggetti in difficoltà.

In questo contesto nasce la nostra esperienza con la cooperativa Polis nova, di fatto un gruppo di quattro amici. Abbiamo trovato il parroco di Mejaniga ci ha messo a disposizione lo scantinato, abbiamo cominciato a fare dei lavori molto semplici, a integrare e includere insieme a noi persone in difficoltà. Poi ha continuato ad allargarsi: 2, 3, 5, poi 20, 20 persone.

Abbiamo applicato un concetto, allora c’era questa teoria del campo di fragole: non allargare la copertina originaria ma gemmare per talea nuove cooperative. Ci siamo accorti che esperienza lavorativa non era l’unico bisogno delle persone che avvicinavamo e che avevamo vicino: una delle problematiche era quella abitativa, nasce così la cooperativa Il portico, nel 1994; poi, nel ’97 Polis Nova Lavoro, quindi – nel 2001 – Gruppo R che si occupa di salute mentale e donne vittime di tratta; infine – nel 2003 – abbiamo pensato che tutte le cose che stavamo facendo andassero raccontate, quindi abbiamo costituito la quinta cooperativa, che è un’agenzia di comunicazione che si chiama Sinfonia.
Da una parte, quindi, l’idea del campo di fragole che dava la possibilità di specializzare la cooperativa sul tipo di intervento, di non crescere troppo quindi di consentire di avere rapporti e relazioni significativi tra le persone; dall’altra una diversificazione, una condivisione delle responsabilità: le cooperative avevano presidenti e consigli d’amministrazione diversi: una diffusione dell’assunzione di responsabilità nel governo e nella gestione delle cooperative. Per non perdere però le economie di scala e per non moltiplicare alcune figure e condividere il sapere che già si erano maturati abbiamo costituito il gruppo quindi il gruppo Polis, l’organizzazione che mette insieme le cinque cooperative e che oggi è un gruppo cooperativo paritetico. E quindi abbiamo un governo di ogni singola cooperativa autonomo e specifico, ma una dimensione più ampia che tenta di coordinare le azioni delle varie cooperative.
Oggi il gruppo occupa 180 lavoratori nelle singole cooperative; i soci lavoratori sono intorno al 65-70%, e poi invece all’interno della base sociale ci sono i soci volontari e i volontari, due categorie diverse: i soci tra lavoratori e volontari delle cooperative sono vicine ai 300. Abbiamo due tipologie di volontari, temporanei e permanenti. I temporanei sono tutte quelli che coinvolgiamo nelle attività della raccolta fondi, facciamo delle iniziative che richiedono la presenza giornaliera singola, abbiamo un centinaio di persone che di volta in volta si rendono disponibili per quel giorno per l’iniziativa della corsa, della vendita del pane, della cena di gala. Poi invece abbiamo una cinquantina di volontari che sono impegnati all’interno dei servizi: chi viene una giornata, chi viene due, chi viene una volta al mese, chi viene una volta la settimana, che però vengono in modo costante nell’arco dell’anno: 170-180 persone. Siamo intorno agli otto milioni e mezzo di euro di attività economica; le persone che seguiamo sono più di 450.

Una parte di queste attività sono finanziate dalla pubblica amministrazione, soprattutto per i servizi sono livelli essenziali di assistenza; abbiamo invece attualmente la cooperativa che fa gli assemblaggi industriali che è sul mercato, quindi direttamente collegata alle attività industriali che fa – il volume economico intorno a 1,3 milioni. Ci sono servizi che invece non sono finanziati completamente dalla pubblica amministrazione, in particolare quelli per le donne vittime di violenza e per i senza dimora, e qui abbiamo attivato ormai da quasi 10 anni un servizio di raccolta fondi: abbiamo due persone e mezza che lavorano solo ed esclusivamente per la raccolta fondi per finanziare questi servizi che diversamente non sarebbe possibile mantenere.

Per darvi un esempio molto semplice ma anche abbastanza efficace, il servizio che abbiamo e si chiama La bussola, un centro di prima accoglienza per senza dimora dove offriamo il pasto a pranzo e un’attività di accompagnamento verso l’inserimento lavorativo. Questo servizio Costa dai 110 ai 120 mila euro l’anno, il comune ne mette 40, gli altri dobbiamo recuperarli. Abbiamo trovato una serie di aziende che si sono rese disponibili a finanziare questo servizio, una parte del nostro bilancio conta su questa raccolta fondi.

Il problema che si pone la cooperativa è quello di una struttura imprenditoriale in grado di stare sul mercato ma che abbia fini non di speculazione privata ma di redistribuzione. Com’è che si riesce a stare sul mercato senza essere assorbiti delle logiche di mercato? In che termini si riesce a porre una dimensione etica nel proprio operato economico senza cedere alla competizione, riuscendo a mantener fede al motivo per cui si è iniziata questa esperienza?

Le regole del mercato sono molto rigide e coniugarle con solidarietà e bisogni delle persone oggettivamente non è semplice. Quando parli di cooperative parli di soggetti con dimensioni molto diverse, ci sono cooperative che fatturano anche 100 mln di euro l’anno, devo avere capacità manageriali se no non te gestisi una roba da 100 mln e 1300 1400 lavoratori. Per la mia esperienza quello che mi ha aiutato a non scivolare esclusivamente nella dimensione economica o manageriale – e questa deviazione e un rischio che comunque noi corriamo – è continuare a mantenere fermo sguardo su due cose: la prima è il riferimento alla legge istitutiva della Cooperazione sociale; la seconda è il fatto di essere cooperatori, cioè di essere convinti che solo cooperando – quindi in realtà con una sussidiarietà circolare – sia possibile sviluppare in maniera armonica la società civile in cui siamo.

Il riferimento alla normativa è un po’ particolare: la 381, la legge istitutiva della Cooperazione sociale, arriva molto dopo l’esperienza maturata sul campo da parte della cooperazione sociale. Le prime cooperative sociali nascono in Italia nei primi anni Settanta, la legge che istituisce la cooperazione sociale è del ‘91. Almeno 15 anni di esperienza e di storia. Come dire: «va bene, pensavamo che queste cose durasse da Natale a Santo Stefano, in realtà questi continuano a proliferare, continuano a crescere, in qualche modo ne dobbiamo prendere atto».

Torniamo alla legge. Mi hanno insegnato che l’articolo 1 della 381 impiega, per la descrizione della finalità delle cooperative sociali, un lessico costituzionale, non ordinario. Cittadini, comunità, interesse generale: parole prese dalla Costituzione. Come a dire: «Qui stiamo parlando di qualcosa che è molto particolare, che ha un valore di riferimento alto, quindi dobbiamo utilizzare anche parole particolari». E di fatto la 381 dice che le cooperative sociali hanno come scopo e finalità perseguire l’interesse generale della comunità, la promozione umana e l’integrazione sociale dei cittadini. Questa è la finalità, questo lo scopo che la cooperazione sociale ha.

È come dire: «Ok, io mi occupo di te oggi perché il tuo bisogno è questo, ma domani ci potrebbe essere lui che ha bisogno, quindi questo bisogno interessa anche a me. Devo trovare la modalità perché dal punto di vista economico sia possibile dare una risposta al tuo bisogno. Come lo faccio?». Come fanno gli imprenditori: metto insieme e organizzando in maniera professionale le risorse che ci sono disponibili sul territorio, sul mercato; provo a dare una risposta organizzata a quello che è il bisogno della mia comunità di riferimento e del mio territorio. Io credo che questo sia l’antidoto allo scivolare nella dimensione esclusivamente economica e quindi dell’«Ok. È un’opportunità di business. Lo faccio». Ci sono cooperative che agiscono in questi termini, per questo dicevo prima: da una parte sei un cooperatore, una testa un voto, partecipazione democratica, responsabilità diffusa; dall’altro perseguire l’interesse generale della comunità.

Certo: tu lo fai con un modello di impresa, dunque hai l’obbligo di pareggio di bilancio come tutti; è che sei al di fuori delle logiche economiche o finanziarie o patrimoniali. Ma hai due riferimenti che sono il modello della partecipazione democratica e il perseguire l’interesse generale della comunità.

L’articolo 45 della Costituzione riconosce già la cooperazione a scopo mutualistico; l’innovazione della Cooperazione sociale è che mentre il modello di cooperativa dell’articolo 45 e la mutualità interna – quindi soddisfare i bisogni dei partecipanti alla cooperativa – la cooperazione sociale allarga questo concetto e passo dalla mutualità interna alla mutualità esterna: perseguire l’interesse generale non dei soci che partecipano alla cooperativa, ma della comunità.

Mi stavo chiedendo se questo concetto si possa avvicinare a quello di capitalismo etico.

Certo: capitalismo etico, la responsabilità sociale di impresa, alcune cose il nostro modello lo sta esprimendo. In un certo senso abbiamo riscoperto l’acqua calda. Ci sono stati imprenditori che hanno fatto mosse simili: Olivetti a Ivrea, Marzotto a Valdagno hanno scoperto che i propri lavoratori non hanno solo bisogno di portare a casa lo stipendio; hanno bisogno di divertirsi, dello sport, della casa, dell’ospedale: un concetto di comunità. Io non sono solo un imprenditore-mangiatore di risorse di questo territorio o di questa comunità: è questa comunità che mi consente di esprimere la mia imprenditorialità e quindi a questa comunità io restituisco. Allora attraverso quelle modalità, oggi attraverso la responsabilità sociale d’impresa che piano piano comincia a scalfire il modello invece un po’ anglosassone del libero mercato, del liberismo dove l’unica cosa che conta è il dividendo a fine anno.

Lei ha citato Marzotto su Valdagno, a me è venuta in mente una sua lettera del ‘27 a un architetto di Schio cui chiede di progettare la città sociale. Gli dice: «io ho un problema di conflittualità sociale, devo trovare un modo di tenere calmi gli operai». Per rispondere a questo bisogno nasce la Città Sociale di Valdagno. A me sembra che la forma cooperativa preveda dei passaggi diversi: Marzotto vuole mantenere strette le redini, dà a malincuore, e infatti nel ‘68 sappiamo cosa succede a Valdagno.

Secondo me la questione riguarda la democratizzazione della vita economica: una cosa che a Marzotto non passa neanche per la testa, che invece c’è nella forma cooperativa come anche lei l’ha delineata. Secondo lei questo modello cooperativo, che non è solo mutualistico interno, può avere una forma di prefigurazione di un’economia un po’ diversa, che magari oltrepassi questo dualismo pubblico-privato in cui siamo immersi?

Secondo me è soprattutto un modello evoluto di impresa. Perché? Perché gestire un’impresa attraverso la partecipazione democratica – e io la traduco così: affidare l’individuazione del bene comune al 50% più uno, alla maggioranza – implica un’assunzione di responsabilità importante, in due ambiti.

Il primo è che io nel momento in cui voto so che voto per tutti, ho la responsabilità di individuare qual è la cosa migliore per tutti: non per me. Nel momento in cui io non sono tra la maggioranza che ha votato ho comunque la responsabilità di fare quello che dice la maggioranza, non di fare il contrario perché ho scelto di affidare a quella maggioranza nel momento in cui scelgo la partecipazione democratica l’individuazione della decisione migliore. Quindi non perseguo più la mia idea ma seguo l’idea della maggioranza.

È Lenin!

Io non lo so… Ma evidentemente siamo insieme per raggiungere il bene comune! E il bene comune non è il bene totale. Il bene totale è una sommatoria, il bene comune è una produttoria. Mi posso accontentare che uno dei fattori della sommatoria sia 0, perché tanto ho un risultato; nella produttoria se uno dei numeri è zero il prodotto è zero: non posso permettermi che qualcuno non metta in campo tutti i suoi talenti. Nel momento in cui scelgo la cooperativa devo essere consapevole che entro in un modello organizzativo evoluto; mentre tendenzialmente consideriamo la cooperativa, almeno qui nel Veneto, come l’ultima delle possibilità imprenditoriali. In Emilia è un po’ diverso, c’è un po’ di cultura cooperativistica, quando si pensa a un modello imprenditoriale là la cooperativa è il primo o il secondo, qui sono partita Iva o autonomo: un modello abbastanza individualista.

Il modello di impresa della Cooperativa è un modello evoluto.

È inimmaginabile che si continui a ragionare con modello dualistico, perché il mercato ha prodotto e ha dato evidenti segnali che da solo non basta; lo Stato stesso non riesce a soddisfare i bisogni. O si mette in campo anche la società civile, con tutte le sue forme di aggregazione, di organizzazione, tra cui anche la cooperazione sociale il volontariato, le organizzatevi di secondo livello, i sindacati; o c’è un patto e quindi un sistema di bene comune; oppure noi continuiamo a ragionare sulla parte del bene totale, che è legato al PIL ma che sta dimostrando che non è sostenibile.

A proposito di questo binomio stato-privato, il nodo centrale è quello del welfare, dei servizi. In che modo, rispetto al welfare, il modello cooperativistico rappresenti una terza via? Nel vostro ragionamento c’è l’idea che lo stato stia un po’ scaricando il welfare sulle cooperative?

Si è visto che il modello del welfare state avrebbe bisogno di una continua tassazione per rispondere ai bisogni delle persone. Se da parte della politica si riuscisse a percepire qual è la potenzialità dello strumento che è la cooperazione sociale o il mondo del terzo settore in generale, probabilmente noi avremmo una risposta ai bisogni delle persone più efficace, più efficiente e più economica. In questo momento invece siamo spesso utilizzati come stampella, anche per colpa nostra, perché ci si è un po’ in qualche modo adeguati al fatto che si sostituisce la pubblica amministrazione in alcune attività, in alcuni servizi, tutto sommato si opera in un mercato riservato e quindi qualche misura anche agevolato, si è diventati un po’ ancillari alla pubblica amministrazione.

Questo, nel momento in cui si realizza, uccide la cooperazione. Perché, appunto, si è di fatto degli esecutori di quello che la pubblica amministrazione ha stabilito. Il ruolo invece della cooperazione sociale è perseguire l’interesse generale della comunità e di farlo in maniera imprenditoriale; dove c’è sicuramente la dimensione del committente pubblico, ma c’è tutta la capacità di organizzare professionalmente risorse presenti sul territorio, che la pubblica amministrazione o l’impresa tradizionale non sa fare. La cooperazione sociale è una risposta che in questo momento è sottovalutata rispetto alle opportunità del mercato o delle possibilità di risposta ai bisogni e al welfare. Questo in parte perché siamo un po’ ignoranti – prima facevo l’esempio dell’Emilia, oggettivamente lì c’è un’altra storia. Da noi la cooperazione non è opportunamente messa nelle condizioni per esprimere quel che potrebbe.

Una domanda sul senso comune: secondo lei in questa regione, non nei corpi politici ma fra la gente, è percepita la forma cooperativa.

Tutto sommato ci conosce come sistema sicuramente chi utilizza il servizio, e generalmente ha una buona opinione. Non siamo molto conosciuti in Veneto, possiamo dire… Ehm… Che la considerazione oscilla tra la sopportazione e la benevolenza. Non siamo sicuramente un modello che viene indicato come da sviluppare.

Come sempre poi le medaglie hanno due facce: quanto è la responsabilità delle cooperative? Tanta: non sanno raccontarsi, non sanno fare marketing, non riescono soprattutto a contaminare persone giovani perché diventino cooperatori. Abbiano buoni lavoratori, abbiamo persone che magari diventano anche soci della cooperativa, però mentre lo stimolo iniziale era quello di essere cooperatori, di fare le cose insieme, e il modello cooperativo ci realizzava non solo dal punto di vista lavorativo, ma anche dell’idealità, del modo con cui volevamo lavorare insieme; oggi, se guardo le persone giovani, gli educatori, gli infermieri piuttosto che il ragioniere che noi assumiamo, le figure professionali non si avvicinano a noi o non vengono spontaneamente da noi perché dicono: «Caspita lì c’è un’esperienza che mi interessa sviluppare, in cui intravedo la possibilità non solo di realizzare una mia dimensione lavorativa, ma anche di realizzare anche una mia dimensione personale di relazioni, comunità, lavoro, impegno civile, in cui posso imparare a fare palestra di partecipazione democratica – delle opportunità che in un altro contesto lavorativo probabilmente non riuscirei a sviluppare». Le persone che vengono (comunque brave persone che hanno valori, non è un problema di questo tipo) lo fanno perché tutto sommato questo è un posto dove si lavora abbastanza bene, le relazioni sono buone, la parte economica non è eccelsa ma c’è, tutto sommato una realtà abbastanza solida, tranquilla: la intravedo come un buon posto di lavoro. La vedo poco come un’esperienza dove poter mettere in gioco altri aspetti della mia vita. La vedo molto finalizzata all’esperienza lavorativa; sono coinvolto, ci sono però questo non fa scattare la mia voglia di essere socio, quindi di prendermi fette di responsabilità e di condivisione con gli altri, di governo e di conduzione della cooperativa. Un po’ questo lo stiamo soffrendo.

Leggendo la descrizione sul sito ci hanno colpito le parole citate: siamo partiti con la volontà di cambiare il mondo. A questo punto cosa ne pensa, se ce l’avete fatta, come cambia la prospettiva; ci chiedevamo se in questa volontà si configurino forme di conflittualità sociale, oppure no.

Partiamo dall’affermazione che volevamo cambiare il mondo: quello che ci siamo resi conto è che il mondo non l’abbiamo cambiato ma quello che è valsa la pena è tutto il lavoro che abbiamo fatto per cercare di cambiarlo. Il valore non sta nel risultato ma nel percorso. Come si diceva ai nostri tempi il più bello non è arrivare ma viaggiare.

A distanza di 40 anni da quando ho iniziato l’esperienza della cooperazione sociale il fatto è proprio questo: continuare e a rimanere attenti, vigili ai cambiamenti per poter coniugare i valori che sono rimasti fissi nel tempo e quindi la centralità della persona, la partecipazione democratica, la durabilità dell’impresa, la ricerca e il sostegno dei talenti; incarnati in epoche e contesti diversi. L’attenzione a reinterrogarsi sui propri valori, se rimangono quelli o vanno magari integrati, o se la loro priorità diventa diversa a seconda delle evoluzioni della storia; ma sicuramente vanno puoi interpretati in contesti che cambiano, in una società che cambia, noi cambiamo.

Per quanto riguarda la conflittualità. A parte due riferimenti unici, l’indipendenza dell’India con Gandhi e San Francesco, che cambia completamente i paradigmi del suo tempo, di fatto i cambiamenti epocali sono sempre passati attraverso le rivoluzioni, attraverso conflittualità anche molto violente.

Da obiettori di coscienza dovrei dire no, gentilmente ritengo la conflittualità come un modo errato di gestire la vita associata. Certo, se intendo la conflittualità in termini di «la pensiamo in modo diverso ma insieme cerchiamo i punti comuni, cerchiamo il bene comune», ci sta: noi siamo diversi ma troviamo dei punti di incontro, sui quali proviamo a costruire assieme un progetto. Se questo sfocia invece in una conflittualità dove ciascuno rimane solo ed esclusivamente sulle proprie posizioni senza cercare una mediazione con l’altro, l’unica strada è la sopraffazione: per affermare la mia idea devo necessariamente sopraffarti. A me non piace questa strada, però molte volte la storia sembra insegnarci l’esatto contrario.

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