La riforma del terzo settore

Ragurhan Ranjan – importantissimo economista indiano di fama internazionale, ex Ceo dell’FMI – in un suo libro affronta la necessità che il capitalismo si faccia etico e responsabile del benessere complessivo della società. In questo senso sostiene che il terzo settore[1] possa essere la chiave di volta in vista di questo cambiamento: una sorta di terza via tra stato e mercato.

Anche il Word Economic Forum, una delle più importanti fondazioni mondiali per i temi economici, negli ultimi anni ha iniziato a parlare di stakeholder capitalism, ossia una forma di capitalismo etico in cui l’economia non pensi più solo ai profitti degli azionisti ma anche alla sostenibilità ecologica e sociale delle proprie attività, un sistema responsabile per un nuovo mondo in cui l’impresa soddisfi le esigenze umane nel loro complesso. La faccenda è seria a tal punto che ne è uscito pure un manifesto: il manifesto di Davos 2020, una sorta di codice etico per il mondo economic

Non pensate che siano solo chiacchiere. In tutti i suoi cinquant’anni di storia il Word Economic Forum ha prodotto solo due manifesti. Quello del 1973 e questo del 2020. Nel 1973 il Forum pubblicava un manifesto in cui si dichiarava il totale allineamento al modello del capitalismo americano. Il testo sarà nei decenni successivi un vero e proprio codice deontologico del capitalismo; le migliori menti del mondo hanno infatti sfornato un’idea innovativa: l’obiettivo è che il massimo profitto economico sia assicurato contemporaneamente a imprenditori, investitori, lavoratori e altri interessati. La sfida è complessa, si tratta di capire come conciliare gli interessi delle imprese con quelli della società. La risposta è altamente creativa, bisogna assicurare ampi margini di guadagno, in questo modo la ricchezza sgocciolerà dall’alto in basso e così ne beneficeranno tutti: clienti, azionisti, lavoratori e società. R

Le conseguenze sono state disastrose. In cinquant’anni le disuguaglianze sono cresciute a dismisura, più di una crisi economica si è abbattuta sulle nostre teste e la catastrofe ecologica ha già iniziato a produrre i suoi effetti. Sperare in un capitalismo etico e affidarsi ai nuovi disegni del Word Economic Forum è come chiedere ai gerarchi nazisti di risolvere il dramma della Palestina. Eppure, se dopo cinquant’anni viene pubblicato un nuovo manifesto, bisogna chiedersi: sta succedendo qualcosa di grosso?

Quanto conta il terzo settore?

Per capirlo e azzardare una risposta, proviamo a guardare i piani previsti per il terzo settore, la testa d’ariete che dovrebbe permettere l’ingresso nel regno del capitalismo etico.

Guardiamo all’Italia e iniziamo con i numeri. Secondo l’Istat, nel 2015, il mondo no profit è un regno caotico popolato da più di 330 mila organizzazioni, con oltre 5 milioni di volontari e qualcosa come 1 milione di lavoratori annessi al settore. Un universo in veloce crescita e con entrate in bilancio di circa 64 miliardi di euro. Negli anni successivi queste tendenze sono confermate. L’Istat stimava che il settore fosse in rapido sviluppo, infatti rispetto al totale del sistema produttivo si è passati dal 5,8% di unità nel 2001 all’8,0% del 2017, mentre i dipendenti sono variati dal 4,8% nel 2001 al 7,0% del 2017. Il no profit ha quindi tassi di incremento superiori a quelli che si rivelano per le imprese di mercato, tassi di crescita molto simili a quelli di smantellamento della pubblica amministrazione: in dieci anni in Italia i dipendenti pubblici sono calati dell’8%. Qui la prima spia di allarme.

In ogni caso questo ramo di società non passa inosservato, né per la sua importanza economica, né per il caos che domina al suo interno. Ecco allora che arriva la riforma del terzo settore…

In marcia verso l’avvenire

La figura chiave di tutto il percorso di rinnovamento (quasi fosse un’allegoria dei mali d’Italia) è Matteo Renzi. Nel corso del Festival del Volontariato di Lucca del 2014, Renzi premier dichiara apertamente la volontà di intervenire rivoluzionando il terzo settore. L’intenzione è di ristrutturare il sociale italiano. I vari enti del terzo settore [d’ora in poi Ets, N.d.A.] e le loro reti vengono coinvolti in un processo di consultazione che punta alla riforma. Si comincia con il documento del governo Renzi Linee guida per la riforma del terzo settore.

Si arriva così all’approvazione della legge delega n. 106 del 2016 che dà avvio alla riforma del terzo settore italiano, vengono quindi stabiliti i principi di fondo. Toccherà poi al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali emanare i decreti attuativi a cui spetta la definizione dei dettagli per passare all’applicazione concreta della legge. 

Nel 2017 appaiono i cinque decreti che concretizzano il processo di riforma. Ogni decreto definisce un ambito: 1) Il Codice del Terzo Settore (d.lgs. 117/2017); 2) l’Impresa Sociale (d.lgs. 112/2017); 3) lo statuto di Fondazione Italia Sociale – che dovrebbe essere l’istituzione che coordina e supporta i percorsi di finanziamento al sociale italiano (d.p.r. 28 luglio 2017); 4) il Servizio civile universale (d.lgs. 40/2017); 5) il Cinque per mille (d.lgs.111/2017).

Dal 2017 a oggi il percorso ha subito pesanti rallentamenti, ma ci sono stati alcuni correttivi e il processo arriverà al termine, nonostante il cambio di governo e nonostante l’emergenza causata dall’influenza da Covid-19. 

L’articolo 5 della riforma porta le attività del terzo settore a 26, rispetto alle 12 previste per le Onlus nel 1997. Vi troviamo servizi di cura, di tutela del patrimonio artistico e culturale, ma anche paesaggistico, attività di formazione, ma anche turismo, radiodiffusione, agricoltura equa e solidale, impiego di lavoratori svantaggiati, ecc.

Gli Ets sono svariati: «le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e altri enti di carattere privato» (articolo 4). Si tratta di tutto il sottobosco di enti e persone le cui attività sono volte al perseguimento, «senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale». 

Ma che cosa significa che vi è assenza di scopi di lucro? Per capirlo si può vedere l’articolo 8, proprio sullo scopo di lucro, e l’articolo 79, che stabilisce il confine tra attività commerciali e non commerciali. In breve l’assenza di scopo di lucro non significa lavorare gratis, non significa neanche (o non per forza) stipendi bassi, infatti sono semplicemente vietati compensi superiori al 40% rispetto a quanto stabilito, a parità di mansioni, dai contratti nazionali. L’assenza di scopo di lucro consiste nel divieto di spartire gli utili tra i soci, spartizione che costituisce uno dei tratti identitari dell’impresa capitalistica. 

In realtà, ma ci ritorneremo, non è perfettamente corretto affermare che in nessun modo gli utili possono essere “spartiti”.

Perché una riforma?

Prima della riforma ogni tipologia di Ets era disciplinata da una legge propria, che ne normava natura, forma, risorse e finalità. Dominava una grandissima frammentazione normativa su tutti gli aspetti di disciplina giuridica (L. 266 del 1991 su volontariato; L. 381 del 1991 su cooperative sociali; L 383 del 2000 su associazioni di promozione sociale; L. 155 del 2006 su imprese sociali). Unica convergenza si aveva sul piano fiscale nel caso di assunzione del regime di Onlus (d.lgs. 460 del 1997).

Alcune esigenze spingono verso un processo di riforma degli Ets. Innanzitutto il caos normativo genere due problemi: nelle incertezze normative sguazzano gli opportunismi; ma le incertezze creano anche difficoltà al terzo settore che non riesce a fare un salto di qualità.

Alla base della riforma c’è quindi anche un elemento di prospettiva legato alle opportunità del settore. Stiamo parlando di un gigante fatto di tante cellule che occupa persone, vive di volontari e muove decine di miliardi di euro. Dopo un lungo processo di privatizzazioni dell’economia pubblica il terzo settore si è creato uno spazio come sostituto dello stato nella copertura del welfare; come suggerisce il Word Economic Forum, si tratta di un mondo di mezzo non gestito direttamente dallo stato, non votato al puro profitto. Questo mondo allora si deve aprire al mercato più pesantemente e assumersi il peso del welfare e della tenuta sociale in un paese come l’Italia (ma vale per tutta Europa) dove il capitalismo non è più in grado di garantire un certo livello i benessere e giustizia sociale. Questo è il vero significato dell’affermazione: «terza via tra stato e mercato».

STIAMO PARLANDO DI UN GIGANTE FATTO DI TANTE CELLULE CHE OCCUPA PERSONE, VIVE DI VOLONTARI E MUOVE DECINE DI MILIARDI DI EURO

Inoltre, vi è una seconda opportunità, per nulla marginale. La tenuta sociale non è solo materiale, passa anche per la possibilità di creare coesione umana. Si tratta di valorizzare alcune tendenze e creare unità di valori e scopi all’interno della popolazione: il terzo settore si presta bene a questo compito, al suo interno si esprimono tra le migliori inclinazioni della nostra società. Lo si è visto durante l’emergenza da Covid-19, l’azione di tanti volontarie e volontari è stata fondamentale per la tenuta sociale, per limitare – almeno un po’ – il numero degli abbandonati a sé stessi; ma anche per rafforzare il sentimento di unità nazionale rispetto al rischio del caos generato dall’epidemia: «Andrà tutto bene»; «Insieme ce la faremo». 

Qui però si annidano le contraddizioni e si gioca la sfida: il terzo settore può essere un via alternativa – perché più solidale, più umana e razionale – al capitalismo predatorio? O sarà destinato a essere l’ennesima trovata con cui il capitalismo si rifà il trucco spacciandosi per etico, e magari green?

Non bisogna pensare che alle spalle di questa strategia vi siano complotti, trame oscure o organizzazioni segrete. Tutto infatti è annunciato a chiare lettere, si tratta semplicemente di una visione liberista secondo cui se lo stato si mette in mezzo l’economia si blocca, quindi le spese pubbliche vanno ridotte o utilizzate per favorire le imprese economiche. Il terzo settore dimostra grande capacità di azione e dinamicità, se lo si apre al mercato sicuramente prospererà e farà un salto qualitativo, sgravando lo stato di tanti suoi problemi e insufficienze. La crisi generata dal Covid-19 potrà cambiare la strategia di gestione (più o meno centralizzazione del terzo settore), ma non cambierà la sostanza.

Gli aspetti più importanti della riforma

  1. La riforma (in particolare con d.lgs. 117, Codice del Terzo Settore) definisce in termini giuridici quanti e quali sono le forme che possono avere gli Ets, con i rispettivi ambiti di intervento. Alcuni dei settori indicati sono particolarmente rilevanti: istruzione e formazione; sanità e assistenza; smaltimento rifiuti; gestione migranti; agricoltura equa e solidale o biologica. Si tratta di tutto ciò che potremmo definire di priorità pubblica (anche se non per forza statale) e perfino qualcosa di più.
  2. Ci sono importanti vantaggi fiscali per le donazioni liberali. Singoli cittadini e imprese che decidono di fare donazioni agli Ets (come il Social Bonus) si portano a casa ampi margini di de-tassazione. La logica di per sé è ferrea, se doni liberamente parte dei tuoi soldi al terzo settore, automaticamente sei stato di pubblica utilità, quindi lo stato rinuncia a una parte del suo prelievo fiscale. Eppure, più che la volontà di garantire qualche vantaggio fiscale ai cittadini, vi è l’intento di legare i capitali privati e gli investimenti finanziari al terzo settore. Per comprenderne il senso l’alleggerimento fiscale va immaginato sulla scala di banche, fondazioni, grandi aziende e ospedali privati. In questo modo la logica del mercato – e la sua competizione – entrano nel terzo settore: «dimmi chi ti finanzia e ti dirò chi sei», recita un antico proverbio.
  3. Cambiano alcuni vincoli per l’impresa sociale, forma che diventa molto più vantaggiosa: certo devi assumere lavoratori svantaggiati, ma puoi anche usare volontari (purché non superino i lavoratori, ma sono tanti lo stesso). Inoltre, hai un certo regime di vantaggio fiscale (detassazione). Ma soprattutto (qua il vero salto di qualità per l’impresa sociale) il “senza fini di lucro” è stato aggiustato, gli utili possono essere redistribuiti tra i soci fino al 50% del capitale, sotto forma di rivalutazione delle quote di capitale e, in certi limiti, attraverso distribuzione di dividendi tra i soci. Precisiamo che l’identità stessa dell’impresa capitalistica poggia sul principio della spartizione degli utili tra i soci: ora l’impresa sociale compie un primo passo in questa direzione, altrimenti che senso avrebbe dedicarsi al “fare impresa”? Per capire la portata di questa novità non dovete pensare a piccoli Ets come Figure o alle associazioni di volontariato, piuttosto immaginate gli effetti su un grande ospedale privato di Milano.
  4. La pubblica amministrazione è incentivata ad affidarsi al terzo settore piuttosto che a risorse e organi interni. Ricordiamo che in Italia il numero di dipendenti pubblici sul totale della forza lavoro, a differenza di quanto recita il luogo comune, è ben al di sotto delle media Ocse. Nel 2017 in Italia i lavoratori pubblici erano il 13,43% sul totale, nell’area Ocse il 17,71%.
  5. Viene potenziato il servizio civile: si investono cioè più soldi (50 milioni in più) e risorse per incentivare i volontari.
  6. È stata creata la Fondazione Italia Sociale: si tratta di un ente privato, senza fini di lucro, che ha lo scopo di sostenere il terzo settore. Lo stato l’ha fornita di un milione di euro per partire con le sue attività. Non è direttamente controllata a livello statale anche se ogni anno deve fare una relazione alle Camere.
  7. Di positivo c’è sicuramente il miglioramento in fatto di trasparenza dei bilanci e del loro controllo. Anche l’effettiva partecipazione di volontari ai vari Ets ne esce potenziata.

MA SOPRATTUTTO (QUA IL VERO SALTO DI QUALITÀ PER L’IMPRESA SOCIALE) IL “SENZA FINI DI LUCRO” E’ STATO AGGIUSTATO, GLI UTILI POSSONO ESSERE REDISTRIBUITI TRA I SOCI FINO AL 50% DEL CAPITALE

I nostri dubbi

Innanzitutto chiariamo la nostra prospettiva. Il terzo settore appare estremamente interessante e sicuramente molti Ets saranno felici del processo di riforma, ed effettivamente il terzo settore ne esce potenziato; temiamo però che quella sua peculiarità di essere una zona di mezzo tra lo stato e il mercato venga sbilanciata sempre più verso le logiche del mercato e che più che un farsi etico del capitalismo ci si trovi di fronte a un farsi capitalistico del mondo no profit. Il mondo no profit è strutturato secondo concetti di impresa, ha cioè un modello di efficienza basato da un lato sui costi di struttura dall’altro sulla competizione, ossia sulla capacità di stare nel mercato e quindi di vendere la propria merce, sia essa anche un servizio di utilità sociale. Con questi criteri si valuta la bontà di un’organizzazione, e su questi principi si è pensato di riformare il terzo settore per fargli fare un “avanzamento”.

Per esempio – nella logica della riforma – per consentire al terzo settore di fare questo salto di qualità si è cercato di spingere gli imprenditori a mettere le loro capacità (e le mani) al servizio del mondo no profit. Forse è in azione un retropensiero secondo il quale si presume che chi è disposto a spendere le sue energie per «fini di utilità sociale e senza scopo di lucro» sia, tutto sommato, un po’ coglione e che invece chi è veramente capace lo faccia per arraffare qualcosina. Non si rischia in questo modo di perdere la vocazione solidaristica e la spinta utopica verso un mondo migliore?

Un primo bilancio

Di buono va sottolineato che attraverso la definizione normativa, anche in materia di trasparenza e pubblicità della rendicontazione, negli Ets viene ridotta la possibilità delle astuzie disoneste. Però se ne riduce anche la necessità, dato che ora il terzo settore si apre al mercato e al profitto in modo pesantissimo.

Infatti è chiaro che se fino a questo momento il terzo settore – per quanto importante – ha avuto un ruolo di secondo piano rispetto alla pubblica amministrazione, facendo un po’ (o anche molto) da supplente nel welfare, ora le cose cambiano. Il terzo settore si salda al mercato e ottiene in modo strutturale la presa in carico di importanti fette di welfare e settori di utilità sociale. Pensiamo alle scuole, agli ospedali privati, alla gestione dei rifiuti. Si rischia quindi un’accelerata in senso liberista di settori fondamentali, il tutto condito con una grande enfasi sui volontari, sulla solidarietà dei buoni italiani e sul «rimbocchiamoci le maniche». Questi inoltre sono settori in cui il ricatto morale è fortissimo: tu, lavoratore, ti senti utile e importante; l’aspetto delle condizioni di lavoro pesa di certo, ma non è l’unico. 

Il processo di riforma prevede importanti forme di collaborazione con le amministrazioni pubbliche. E contemporaneamente si possono costruire cooperazioni con imprese, banche e fondazioni bancarie. Ricordiamoci infatti che gli istituti bancari possono emettere titoli di solidarietà (obbligazioni emesse dalle banche vincolate al finanziamento di Ets: a bassa resa, ma detassate) e le aziende possono fare donazioni a favore degli Ets ottenendone crediti di imposta riconosciuti (ossia una somma che lo stato dovrà restituire in qualche forma). Il terzo settore è nato come luogo di mezzo tra settore pubblico e settore privato, la Fondazione Italia Sociale dovrebbe incentivare questo duplice rapporto. Ne seguirà invece che il mercato invaderà il terzo settore e di conseguenza tutta la sfera pubblica annessa.

Il terzo settore è così importante perché lo stato non è più quel centro monolitico della società, lo abbiamo visto anche nella gestione dell’emergenza da Covid-19. Dal momento in cui lo stato ha abdicato ad alcune sue funzioni (privatizzazioni e disintegrazione del welfare, regionalizzazioni di alcune competenze), ha anche ceduto quote dei suoi poteri specifici, soprattutto al mercato. Eppure, se intendiamo il terzo settore come reazione della società civile a un vuoto del potere statale allora ne intuiamo anche il potenziale: un vuoto è sempre uno spazio di possibilità. In questo vuoto per ora ha proliferato soprattutto la logica neoliberista, le sue promesse di benessere diffuso però non sono state mantenute. Il Word Economic Forum lo sa bene, il motivo per cui dopo cinquant’anni decide di pubblicare un nuovo manifesto non è un’improvvisa scossa della coscienza, ma la paura. Tra le righe del documento emerge che in tutto il mondo stanno aumentando le tensioni sociali e queste mettono a rischio le possibilità di profitto, quello che si teme è il conflitto tra classi sociali; i vertici rispondono in anticipo ai rischi di alleanze tra pezzi di masse impoverite e frustrate.

In effetti il terzo settore è, almeno in parte, uno spazio di autorganizzazione per supplire alle ingiustizie di questo mondo: nonostante tutte le sue contraddizioni è anche un luogo di valori potenzialmente antagonistici, di spinte utopiche, di richieste di solidarietà e uguaglianza. Tutti elementi che lo rendono un regno di potenziale coalizione fuori dal potere statale e fuori dalle logiche di mercato. Contraddizioni significa contemporaneamente possibilità e rischi, per entrambe le parti. Le classi dominanti stanno facendo la loro mossa, il no profit nella loro visione diviene una terza via e il capitalismo si fa etico. In breve, cinquant’anni di fallimenti e ingiustizie si mettono la maschera rassicurante dell’utilità sociale e provano a sottomettere al mercato anche questo interstizio di possibilità, colonizzando valori non prettamente capitalistici, cercando consenso politico, addomesticando potenziali rabbie e conflitti.

A guardarlo dritto negli occhi il capitalismo etico appare un po’ misero come sforzo dell’immaginazione, si potrebbe pretendere un po’ di più da una società in crisi che si interroga su come risolvere i propri problemi. Di certo il suo tentativo di ridurre il terzo settore alle logiche dell’impresa e del mercato è tendenzioso. Temiamo che un altro luogo di alternativa diventi sempre più l’ennesima occasione di fare profitto. Eppure la partita non è chiusa, non lo è mai; al potenziale della solidarietà dedichiamo questo numero.

[1] Con terzo settore si intendono quegli enti o soggetti organizzativi che operano in alcuni settori senza essere identificabili né con lo stato né con il mercato privato, e che agiscono senza finalità di lucro in un’ottica di solidarietà o utilità sociale.

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