Nella primavera del 1863 a Torino, capitale italiana da due anni, ha sede un dibattito della Società di economia politica. L’argomento è di forte attualità: natura e scopi delle società di mutuo soccorso[1]. Alcuni fra gli economisti più illustri e lodevoli (nonché, in buona parte, Onorevoli) del Regno si riuniscono per cercare di capire cosa siano queste strane associazioni di solidarietà fra lavoratori che si stanno diffondendo nel paese, recentemente unito. Ma all’euforia per un segno del progresso si alterna un timoroso sospetto.
Il moderatore della discussione è Mauro Macchi, democratico radicale che dagli anni ’50 dell’Ottocento dà vita a giornali come Il Proletario, L’Italia, Il Movimento, pregni di spirito laico e repubblicano. Nonostante ciò, non crede nella politicizzazione delle società operaie, ambita invece dalla corrente mazziniana del movimento mutualistico. Il giorno del dibattito torinese, infatti, fissa sinteticamente lo scopo delle Sms, che deve essere «di pace, di amore e di tranquillità». Tutta la corrente moderata sostiene l’apoliticità delle società di mutuo soccorso. Così, per esempio, l’onorevole Michelini, di professione avvocato e nobile possidente, stila in tre punti i consigli da dare alle società operaie.
1. Che non si occupino di politica.
2. Che non si lascino sfruttare dai partiti politici i quali profittando della loro poca istruzione se ne servono per loro fini speciali.
(Quasi a dire: la politica è più grande di loro, la politica è più sporca di loro, e loro piccoli e puliti).
3. Che il governo si astenga bensì da ogni ingerenza nelle società operaie, ma però non facciano così i privati, essendo anzi necessario che i cittadini probi e illuminati le assistano dei loro consigli e dei loro lumi.
Ci sono dunque due schieramenti che a metà Ottocento si scontrano per dare una forma alle società di mutuo soccorso. Le parole di Macchi e Michelini provengono, in fondo, dalla classe dirigente liberale: questa ha cercato di capire, controllare, e regolamentare un intero formicaio di nuove realtà locali secondo categorie già note alle confraternite di stampo religioso e, in generale, al pensiero paternalistico filantropico, come pietà, assistenzialismo, carità. Tali associazioni religiose erano infatti l’unico antecedente vagamente assimilabile alle Sms.
C’è poi l’altro lato, e cioè quello mazziniano, che si è sforzato di rappresentare i lavoratori. Da questo lato, le cose, in assenza di strutture sindacali e partitiche, erano tutte da costruire; l’assistenza reciproca e la vicinanza fra uguali, dunque, erano i primi passi per stringersi attorno a qualcosa, a idee e pratiche nate dalla necessità di cambiamento.
In fondo, si tratta di due diverse prospettive: l’una, dall’alto al basso; l’altra, dal basso al basso per andare verso l’alto. Per ora collochiamoci nella prima, per vedere in che modo le istituzioni hanno dato una fisionomia, un po’ schematica e capziosa, alle Società di Mutuo Soccorso.
1. Le «belve onnivore» del mutualismo: Umberto I e Mario Monti
«Per grazia di Dio e per volontà della Nazione» Umberto I ci ha lasciato l’unica vera legge di riferimento sulle Società di mutuo soccorso. È rimasta in vigore letteralmente intatta per centoventisei anni, dal 14 maggio 1886 al 18 dicembre 2012, quando è comparso poi un altro politico-non propriamente politico a ritoccare il decreto del Re. Ecco discendere, per volontà di non si sa chi, Mario Monti.
All’interno del Decreto Sviluppo Bis del 2012, recante «ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese», l’articolo 23 è dedicato all’aggiornamento della legge del 1886. Di fatto, l’apporto sostanziale è uno e non così rilevante: una Sms può diventare socio di un’altra Sms; tutto il resto del decreto è soprattutto un ammodernamento linguistico. Ma in cosa, di fatto, rimangono uguali le due leggi? In un’istanza profonda che ha a che fare con le parole dei due Onorevoli esponenti del 1863 menzionati sopra. Tanto la classe dirigente di fine Ottocento quanto quella dei giorni nostri ha divorato molte delle possibili forme del mutualismo.
Se c’è qualcosa infatti che unisce tutte le società di mutuo soccorso, sia passate che presenti, è l’immensa varietà di pratiche e principi che le caratterizzano, e che nascono dall’urgenza di reagire alle carenze del welfare. Spesso, non a caso, si sente parlare di “mutue” sanitarie. Ma nell’Ottocento le Sms operavano anche nell’educazione, un’altra base del welfare bistratta oltre alla sanità.
Le società rispondono anche a una condizione paludosa del corpo docente e studentesco di fine Ottocento. La rilevazione statistica del 1878 promossa dal Ministero di agricoltura, industria e commercio registra infatti che sulle 1981 Sms esistenti all’epoca ben 443 società si occupano dell’educazione. E sembra non si tratti di tutorati dal sapore aristocratico. Pensiamo a come dovesse essere l’insegnamento di quegli anni in provincia: a Rovigo, nelle campagne piemontesi, nella Sardegna ex-sabauda, nei tanti centri urbani minoritari. Le Sms hanno tentato di smuovere la palude educativa post-unitaria con scuole serali elementari, scuole di disegno applicate alle arti, biblioteche popolari, corsi di arti speciali tecniche e professionali… Art. 2, legge 15 aprile 1886, n. 3818:«Le Società di Mutuo Soccorso potranno inoltre cooperare all’educazione dei soci e delle loro famiglie». Art. 23 comma 3, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179: «Le società possono inoltre promuovere attività di carattere educativo e culturale dirette a realizzare finalità di prevenzione sanitaria e di diffusione dei valori mutualistici».
Le due leggi semplificano tutta quella varietà di pratiche esistenti. Chiudono le attività educative mutualistiche in due sacche strette: i soci con le loro famiglie, e i fantomatici «valori» del mutualismo (rimandiamo, su questi ultimi, agli articoli Siam pronti alla vita! e Negativi dimenticati). Non c’è una grossa differenza tra la legge del 1886 e del 2012: secondo il governo Monti gli scopri primari delle società di mutuo soccorso sono le stesse di fine Ottocento, ovvero, sintetizzando, assistenza socio-sanitaria (per malati, invalidi, pensionati) e educazione morale degli associati. I problemi irrisolti, dunque, rimangono la scarsa apertura delle attività mutualistiche (se non sei socio, sei fuori), e la vaghezza dei valori cui si ispirano – lasciati neutralmente sospesi, ma di fatto obbligati a cullarsi nella cultura di certo volontarismo cristiano laico («pace, amore, tranquillità»).
È il solito contrasto fra de iure e de facto, paese legale e paese reale – il secondo propone sempre più piste, il primo ne mappa (ne seleziona) solo poche. Dietro alla semplificazione degli scopi mutualistici, perfettamente riuscita alla classe dirigente, si intravvede un repertorio di esperienze e idee debitamente cancellato. «Si mangiano cuore e memoria queste belve onnivore».
2. Due emisferi: il monastero sconsacrato e il settecentesco atrio
Nell’Italia di fine Ottocento, de iure e de facto (stavolta sì i due piani vanno assieme) il welfare era inesistente. Basti pensare che il Governo si arrovellava su come riformare l’istruzione proprio mentre sorgevano biblioteche popolari, volute dalle Sms in accordo con enti amminastritivi locali. A Crema, negli anni ’60 la Società di Mutuo Soccorso fra operaie ne fonda una, aiutata dalle duemila lire del Consiglio provinciale; a Cascina, in provincia di Pisa, nel 1864 un avvocato fonda una Società operaia che svolga anche «soccorso intellettuale», e così, in un giorno del 1869, a casa del probo avvocato sono accolti il prefetto, il sindaco, il rappresentante del regio Ministro dell’Istruzione e altri distinti personaggi per celebrare l’avvenuta apertura della biblioteca del popolo.
Art. 1, legge 15 luglio 1877, n. 3961: «I fanciulli e le fanciulle che abbiano compiuta l’età di sei anni […] dovranno essere inviati alla scuola elementare del comune».
Cosa rimane, nella scuola elementare obbligatoria introdotta dalla Legge Coppino, delle pratiche mutualistiche a scopo culturale? Forse poco, nella sostanza. La riforma va intesa però come un prodotto di quel fervore incessante: le Sms hanno organizzato l’urgenza educativa, le hanno dato una continuità concreta nella miriade di corsi e biblioteche popolari. Allo stesso tempo, tuttavia, facendosi legge, la pratica mutualistica ha perso la sua carica conflittuale e la forza di creare nuove proposte per rispondere a una questione sociale. Si solleva dunque una domanda aperta tutt’oggi: come correre al meglio il rischio di organizzarsi attorno all’evidenza di un problema, lottare per una trasformazione delle cose del mondo, e insieme rapportarsi alle istituzioni?
Sta di fatto che a questo rischio, comunque, corrisponde un’abilità: quella di intercettare le esigenze concrete del popolo reale. Questo punto di forza il mutualismo lo ha perseguito da più prospettive politiche.
Che le Sms avessero una struttura leggera e disorganizzata si legge dalle parole con cui il Questore di Napoli scrive al Prefetto, nel 1884, definendo «marasma» la Società Operaia di Mutuo Soccorso Lega dei figli del lavoro. Questa ha appena creato un Consolato operaio, una rete fra diverse società professionali (calzolai, apparecchiatori di filo e cotone, artigiani vari, ecc.) che si riuniscono in un monastero sconsacrato. Quando, però, questo marasma inizia a lottare per aumentare l’occupazione e le condizioni lavorative (e non solo dei soci) allora questore e prefetto ne ordinano la dissoluzione.
I Figli del lavoro napoletani riflettono un’idea anarco-socialista di mutualismo (la Prima Internazionale è stata fondata nel 1864). La loro bandiera è formata da due emisferi attorno cui corrono le scritte Avanti avanti!, Lavoratori di tutto il mondo, centrate fra due strisce laterali dove si legge, su sfondo rosso, Libertà, Giustizia. Una politicizzazione delle Soms che va bene anche ai mazziniani. Ma l’esempio di Mauro Macchi, citato più su, ricorda come la componente mazziniana-radicale sia la minore, a fine Ottocento – e lo sarà anche successivamente.
Avanzando una dicotomia di comodo, l’altro grande emisfero del mutualismo potremmo chiamarlo catto-liberale. Pur se animato da diverse ideologie e realizzato in mille diversi modi (da un tot di lire ai familiari di un socio defunto alla fondazione di biblioteche; dalle assicurazioni sanitarie alla condivisione di alimenti) questo secondo polo rinnega la natura intrinsecamente politica delle Società. Suonano ora più vere le parole dell’on. conte Michelini: «Che non si occupino di politica, che non si lascino sfruttare dai partiti politici», che a intervenire siano i privati «illuminati».
E di sicuro il Magazzino di Previdenza di Torino (del 1854) sarà stato illuminato, sempre sorvegliato com’era dal lume di tale Giuseppe Boitani. Funzionario del ministero delle Finanze del Regno di Sardegna, il Boitani soccorse moralmente la Società generale degli operai di Torino creando, con questo Magazzino, una decente zona franca, senza alcolismo e prostituzione. E come non sentir vibrare la stessa decenza nel cinema Odeon di Vicenza?
Come si legge sul sito ufficiale dell’Odeon, «il passato e l’identità» dell’attività educativo-culturale della Società Generale del Mutuo Soccorso di Vicenza, fondata dal Sen. Fedele Lampertico, risiedono nella sala dell’ex Chiesa di San Faustino, mutata in sala cinematografica grazie alla «buona volontà» alla «dedizione» e ai «sacrifici degli artigiani» vicentini. «Tutto ciò è ancora percepibile alzando gli occhi al soffitto affrescato, sostando nel settecentesco atrio o più semplicemente respirando l’atmosfera calda e accogliente di un ambiente che si differenzia così fortemente da un freddo e impersonale multisala di periferia».
3. An interesting player, una scuola di lotta
Una spaccatura sulla politicizzazione del mutualismo simile a quella di fine Ottocento si ripresenta ai giorni nostri. In realtà le Società sono oramai tutte inglobate nell’emisfero “né di destra né di sinistra” come una volta auspicavano Macchi, Michelini e tanti altri.
Con la riforma del Terzo Settore del 2017 (vedi l’articolo), una società di mutuo soccorso ha tre anni di tempo per convertirsi in associazione e iscriversi al Registro unico del terzo settore. Oggi, oramai, le poco più di 500 Sms attive ricoprono una funzione sussidiaria rispetto al sistema istituzionale – e parliamo quasi sempre di enti piccoli: appena una società su quattro supera i 400 soci. Ma l’aspetto interessante non è tanto nelle Sms di per sé, lasciate oramai come tappabuchi dello stato sociale, quanto nel concetto politico che le sostiene. Attorno alla parola mutualismo, infatti, c’è ancora una silenziosa contesa di significati, che può risuonare mettendo a confronto le parole di chi la usa.
Aprile 2019, Camera dei Deputati. La sala è gremita, è tutta un overbooking per la presentazione della seconda indagine Isnet (Impresa Sociale Net) sulle Società di Mutuo Soccorso oggi. Nell’affastellamento di numeri e dati incoraggianti rispetto agli anni passati, ce n’è uno che spicca: oltre il 36% dei soci, oggi, deriva da una convenzione aziendale. Laura Bongiovanni, presidente Isnet e responsabile della ricerca: «[Questo dato] dice già di una penetrazione importante, dice che le Società di mutuo soccorso sono già un player interessante per piani di welfare aziendale». Le Sms, dunque, sono un’occasione per una nuova forma di azienda capitalistica, etica e improntata a valori belli. Soci, non clienti. Bilanci cristallini, non truccati. Sembrava difficile da immaginare che quelle congregazioni sparse per la provincia e impegnate per lo più in assistenza sanitaria integrativa (rispetto al Servizio Sanitario Nazionale) diventassero un player interessante per migliorare produttività e condizioni lavorative all’interno di un’impresa. Ma c’è poi un altro impiego del termine.
Manuale del mutualismo, Ex Opg Je so’ pazzo. «Quello che spesso manca, ai tanti che hanno ripreso le pratiche del mutualismo, è una visione generale, un metodo comune, un orizzonte politico». Gli attivisti dell’Ex Opg di Materdei (Napoli), di Potere al popolo!, ribaltano le parole dell’on. Michelini (non solo sue ma di un intero vocabolario liberale): chi riprende le pratiche mutualistiche si occupi di politica. Questo perché il mutualismo è un’occasione imprescindibile per convivere con alcuni pezzi di realtà che la politica non considera più (dalla mala sanità allo sfruttamento lavorativo) o con fenomeni di origine più recente, come la discriminazione razziale o sessista. E oltre ad entrare in rapporto con i problemi vivi delle persone, il mutualismo può portare, secondo questa visione, all’organizzazione. Ecco perché si parla di «lottare, creare potere popolare»: conoscere cosa c’è di marcio e tutto quello che di buono ancora non c’è, per poi creare, mutualmente dal popolo per il popolo, un potere politico. Per quanto risicato, l’emisfero dei Figli del lavoro è ancora stabile: si tratta infatti di auto-organizzarsi e muoversi dal sociale al politico, cioè da questi bisogni qui di adesso a un orizzonte più ampio. Nel Manuale il mutualismo è una «scuola di lotta» per «agire in nome della cooperazione, della fratellanza, dell’umanità»: è il primo passo, cioè, per rendere visibili le differenze che sembrano innominabili, o imprendibili.
Ci può sembrare infatti di vivere in una nebulosa, costellata di una miriade di problemi. Che si vedono ogni giorno: niente lavoro fisso, nessun partito o ideologia con forte carica rappresentativa, solitudine e povertà incipienti. Manca una qualche linea che unisca i puntini. In questo caos c’è qualche analogia con la situazione di fine Ottocento, caratterizzata da un’atomizzazione della classe lavoratrice e da una grandissima forbice fra ricchi e poveri. Anche negli ultimi due decenni dell’Ottocento c’è una tale disorganizzazione umana e allo stesso tempo un tale marasma, che lo spirito del tempo sembra «liscio come l’olio» (così lo definisce Müsil, nel suo romanzo L’uomo senza qualità). Eppure le pratiche mutualistiche si consolidano proprio in quel periodo, unendosi in un nodo, biunivoco e problematico, con l’esigenza di cambiare le condizioni di vita delle persone: da un lato, ottengono di fatto qualcosa (si è vista la Legge Coppino, approvata nel momento di massima diffusione di scuole e biblioteche popolari); dall’altro lato, però, la loro tensione si è poi cristallizzata in pochi e accessori scopi sociali (giusto la sanità integrativa, l’assistenza funeraria, qualche mutuo). Le Società di Mutuo Soccorso, in soldoni, sono relegate a questo secondo aspetto ,se non peggio, di servire il welfare aziendale. Da quel «liscio» e uniforme Ottocento, però, ritorna la possibilità di usare il mutualismo come una «scuola di lotta», per organizzarsi e riconoscere i propri amici contro altri nemici.
[1] Da qui in poi abbreviate anche in Sms. Le società di mutuo soccorso spesso sono anche operaie, e dunque Società Operaie di Mutuo Soccorso (Soms).
1 reply to Le società di mutuo soccorso: player aziendale o scuola di lotta?
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