Il più delle volte, quando si parla di volontari e volontarie, ci si affida alla loro rappresentazione, a una fotografia, a un momento pregno di senso che lascia dimenticare il resto, il prima e il dopo, l’ambiente circostante e l’obbiettivo del fotografo. Davanti agli occhi sta solitamente in posa un bel giovane, pieno di speranze e dalla dentatura perfetta, o lo sguardo rassicurante di una ragazza solare, entrambi pronti a tendere la mano verso i “meno fortunati”, senza sudore o fatica, splendidi come stelle. Siamo ammirati e abbagliati al punto tale che dimentichiamo, ancora prima di averla vista, la ricercatezza di quella posa, di quel sorriso e di quello sguardo. Questo è ciò di cui vogliamo parlare, di parole e immagini, di senso comune, di come viene scattata tale fotografia e di quello che essa comporta. Abbiamo deciso di restringere il campo e lavorare attraverso tre concetti sempre di moda quando si parla di volontariato – gratuità, eroismo e santità –, affinché ci possano guidare in questa analisi. Tuttavia, le contraddizioni e le dinamiche che caratterizzano il volontariato sono talmente assimilate alla quotidianità da spingerci ad adottare una lente estrema, a tratti blasfema, paradossale per farle riemergere dal discorso del nostro presente e per gettare un po’ di luce sui negativi dimenticati.
1. Dono/Debito
A febbraio di quest’anno è stata varata una nave destinata ad affondare ancor prima di aver preso il largo, Padova Capitale Europea del volontariato 2020. Ovviamente, un grande evento deve essere inaugurato da un grande uomo, così il primo a prendere la parola è stato il presidente della repubblica in persona, che tra i tanti elogi e ringraziamenti ribadisce qualcosa che appare più che scontato: il volontariato è dono, dono gratuito di sé.
Il donare volontariamente il proprio tempo, il proprio impegno, le proprie capacità mantiene un ruolo cruciale per la fiducia nel futuro, nel recupero di quel che di buono si è espresso nel corso del tempo, per la ripresa della vita. Parliamo di valori antichi, ma sempre attuali. La gratuità; il dono di sé; il disinteresse; la condivisione.
La gratuità è il primo aspetto da affrontare quando si parla di volontariato e, pur sembrando una questione banale, risulta essere un terreno estremamente scivoloso. Normalmente, infatti, si assiste alla tendenza a indentificare ciò che è gratuito e ciò che è buono, a ridurre la cosa a un valore preimpostato. In tal modo, gratuito diviene sinonimo di etico ma, se dessimo per scontato questo senso comune, in un attimo, saremmo col sedere per terra. Senza dubbio, il volontariato tende al bene, ciononostante la sua bontà non può essere celebrata a priori. Anch’essa è criticabile. Stiamo forse già precipitando nell’eresia, ma è necessario, prima di tutto, dare una bella pulita al nostro obbiettivo e riconoscere che il campo della gratuità è problematico. Ripensando la sacralità del dono, resta forse socchiusa una porta altrimenti sigillata, attraverso la quale è possibile penetrare più a fondo dentro la sua complessità.
Perché a Natale sentiamo l’obbligo di fare regali a colleghi, conoscenti, familiari di cui, in realtà, poco ci importa? Perché temiamo l’imbarazzo di trovarci a mani vuote davanti a tutti. La semplicità di questo esempio illumina il negativo del dono, il controdono. In breve, sarebbe l’obbligo morale e indeterminato di ricambiare quanto ci è stato donato, ovvero, il grillo parlante che ci ordina di fare regali a tutti. Cosa succederebbe qualora non si volesse o non si potesse produrre un controdono? Torniamo alla Vigilia di Natale. In giro non c’è nessuno con i fucili in mano; fare i regali è una scelta, perciò possiamo pure dimenticarcene o decidere di non farli. Sono situazioni che tutti, nel bene o nel male, abbiamo sperimentato e sappiamo che nella peggiore delle ipotesi potremmo avere un amico in meno per il festone di Capodanno. Capita, inoltre, che le condizioni materiali di chi riceve inibiscano la possibilità di ricambiare. Adottando una lente più ampia, in società, i “cattivi amici” appartengono all’esercito degli ultimi, dei disagiati, degli esclusi, sono coloro ai quali volontarie e volontari tendono la mano per dar loro una nuova speranza.
Il volontariato cade nella stessa dinamica natalizia. Nonostante l’innocenza del gesto, quando il beneficiario, che sia un gruppo o un individuo, non può restituire quanto dato, tra sé e l’altro si apre una voragine e viene meno la parità. La questione è controversa. Un possibile controdono potrebbe consistere in un arricchimento umano o in un bel malloppo di skills ben spendibili, ma in realtà questi sono “beni” collaterali, figli della situazione o del lavoro svolto, mentre chi riceve l’aiuto non porta nulla con sé. Resta aperta la possibilità del miracolo. Chi ha ricevuto l’aiuto potrebbe “passare il favore”, magari non direttamente, rialzandosi, riprendendo il proprio ruolo o trovando il successo. Nondimeno, come potrebbe avvenire la ricerca della felicità se il dono rappresenta una piccola toppa su un tessuto sociale logoro e pieno di buchi? In realtà, il miracolo della propria redenzione dovrebbe accadere tutti i giorni, dovrebbe essere parte della realtà, ma il sistema attuale sembrerebbe averlo esiliato, affibbiandogli una natura straordinaria, quella miracolosa. Il Natale mostra come il dono, un’occasione di incontro, possa anche dividere e allontanarci l’un l’altro.
2. Santo/Peccatore
Ai valori gratuiti si affiancano poi quelli umani: empatia, fiducia, generosità, disponibilità, gentilezza, calore, passione, talento… Sono queste probabilmente le caratteristiche cui pensava, come molti altri, sempre Mattarella quando, durante la Giornata Internazionale del Volontariato, edizione 2017, diceva:
Il volontariato è espressione alta di umanità. Il lavoro che i volontari donano rappresenta un tesoro di valore inestimabile, che affronta problemi e semina speranza e fiducia, arricchendo il modello sociale.
Potremmo confondere queste parole con quelle di un qualsiasi volontario, ma ancora una volta, è il senso comune a parlare e non sembrerebbe nemmeno nascondere la propria fedeltà al modello etico della Chiesa, il beato. L’alta umanità e la semina della speranza, non suonano anche a voi come un’eco distante del Vangelo e dei suoi santi? Nel grande calderone dell’immaginario queste due immagini – il dono e il santo – non sono irrelate, anzi rimano l’un l’altra senza apparente motivo e senza che ce ne accorgiamo. C’è chi dà e chi riceve, l’alta e la bassa umanità, il pastore e la pecorella smarrita. Il peccatore è, quindi, un semplice uomo, una povera creatura in difficoltà che si è persa e non sa ritrovare la strada. Il pastore non fa distinzioni tra le proprie pecore, ma agli occhi del gregge l’innocua bestiola non è come le altre: lei è la pecora nera.
La retorica della beatitudine crea il santo e il peccatore, su quest’ultimo, pur non essendo diverso da noi, pur condividendo le nostre stesse debolezze, grava uno stigma economico e morale. Alle spalle della retorica del volontariato un’altra, più subdola, porta questi schemi alle massime conseguenze. L’ideologia del merito si è fatta senso comune; secondo la sua narrazione il povero (e peccatore) è, tra le persone rispettabili, colpevole di trovarsi in quella condizione ed è, quindi, tutto ciò che il santo non è: meschino, cattivo, stupido, pazzo, debole… Dal momento che è un peccatore, avrà pur commesso qualche peccato! Forse non ha voluto correre nella competizione sociale o forse si è solo scordato gli scarpini. Probabile che se lo sia meritato. Quello è il suo ruolo e non può fuggire, è vincolato alla propria inettitudine. Il disoccupato con due figli a carico che ogni settimana riceve la spesa della Caritas è colpevole di essere tale e di non riuscire a non esserlo, nonostante tutto l’aiuto che riceve dagli altri. Se non si è in grado di rispondere alla bontà del prossimo, se non si può produrre un controdono, allora è ancor più giusto che chi è “meno fortunato” vada all’inferno.
Questi Ultimi – che probabilmente non saranno mai primi –, sebbene appartengano ad un insieme enorme e ricco di sfumature, nel nostro album fotografico spesso li si riconosce sulla base di esempi illustri, quali il barbone puzzone, il matto di quartiere o il tossico da stazione. Questa è la nostra umanità minore: una foresta variegata di uomini e donne affogati nello stereotipo. Quante volte è capitato di trovarsi in tram accanto a un senzatetto, sentirne la puzza, vederne lo sporco e pensare che ciò che si ha davanti non sia un uomo, che non sia come noi? Quante volte è capitato di vedere un “tossico” e temere che si avvicini, che dia di matto, che voglia dei soldi, sborsati eventualmente solo per togliercelo dai piedi al pari di un randagio? Il perenne sproloquio sul volontariato, pur tacendo di loro, ne parla eccome. Tuttavia, il buon pastore ci ricorda che sotto sotto, oltre la puzza e il disagio, sono esattamente come noi: figli dello stesso Dio, ma molto, molto più sfortunati. Non è il caso di soffermarci e chiederci quale sia il vero nome di questa Malasorte? Al mondo siamo tutti “uomini”, tutti “uguali”, ma, mentre alcuni sono fortunati, altri restano vittime del caso, incapaci di aiutarsi da soli e bisognosi di ricevere l’aiuto di chi è più santo di loro. Potremmo dire che proprio la retorica del volontariato umanizza queste figure, riammettendole nel consorzio umano; certo, eppure queste umanità sono trattate al pari di creature innocenti, costrette nei limiti di un’umanità inferiore, inaffidabile, infantile, più simili ai cuccioli o ai bambini che a un uomo. Tuttavia, anche loro devono avere il proprio compito. I peccatori sono necessari, poiché senza di loro non ci sarebbe alcun dio che li protegga.
3. Eroe/Uomo
Prende ora la parola Ivan Nissoli, presidente del CSV di Milano dal 2014. Se abbiamo capito che tipo di donne e uomini fossero i meno fortunati, ora lui ci può illuminare sulla vera identità dei nostri volontari.
Sono persone che trovano la forza e lo spirito per aiutare chi è meno fortunato, chi ha bisogno, chi merita un sostegno assistenziale, educativo, culturale per vivere in condizioni di decenza e non di indecenza. Questo esercito di volontari sono i nostri eroi del quotidiano. Uomini e donne, giovani e anziani, operai e manager, italiani e stranieri che, portando in alto la bandiera della gratuità e dell’altruismo, si rimboccano le maniche per costruire una convivenza più umana.
Anche loro sono uomini, ma in realtà, come gli altri, non lo sono per davvero: loro sono i nostri eroi – anche tu, se vuoi, puoi diventarlo: «I soliti eroi ti hanno stancato? Ora puoi essere Tu l’eroe della storia». Per quanto li riguarda, non è importante chi siano, cosa facciano, cosa vogliano o cosa provino: tutto ciò che non rientra in questo scatto fa parte del negativo, di quell’ombra che alle spalle dei nostri giovani si accorcia e scompare nello splendore dell’eroismo. Ovviamente, se si parla di eroe, si parla di guerra – dove nasce un eroe? – e il nostro campo di battaglia è il quotidiano. Qui combattono i nostri volontari; se ne stanno in trincea, mentre sulle loro spalle grava il peso di tutte le contraddizioni e i problemi di questo mondo. Guardare alle sfide della realtà e vederci una guerra significa scegliere una categoria attraverso la quale accedere al mondo, appiattendolo su una scacchiera dove si scontrano il bene e il male. Tuttavia, ridurre la povertà, l’inquinamento, la malattia, il disagio a nemici, li sottrae dal proprio contesto, ne occulta la complessità, ne distorce la percezione. Così si pacifica lo status quo¸ scaricandone il peso oltre un confine e chiamandolo nemico.
Gli eroi combattono per noi, ci salvano dal male, mentre ci si dimentica della loro umanità e si sceglie l’immagine più comoda. La precarietà, i sacrifici, la bontà, la passione, la sofferenza, il copro, lo sforzo, le idee di chi si impegna nel volontariato, uomini e donne, vecchi e giovani, spariscono dietro la facciata dell’eroismo e tutto ciò ne legittima lo sfruttamento. Celebrare ogni sera al telegiornale delle venti l’eroismo che in questo periodo accomuna volontari e infermieri, fa calare il silenzio sui tagli al sistema sanitario, sui turni improponibili, sulle famiglie degli eroi, su lavoro senza fine, sul dolore, sulla paura e sulla morte; cancella ogni attrito che ne potrebbe ostacolare l’uso. In fin dei conti, l’eroe è colui che si sacrifica per gli altri, o meglio, una volta tale, si deve sacrificare. Il santo il più delle volte non è anche martire? Quando si acclama un eroe, lo si rende una pedina prigioniera del suo ruolo, sacrificabile nella sua interezza, ma sfruttabile.
Gratuità, santità ed eroismo sono le parole chiave attraverso cui abbiamo provato a interpretare alcune retoriche che quotidianamente definiscono il profilo di volontari e volontarie. L’estremizzazione è servita, appunto, per mettere in crisi la solidità di tale discorso, fossilizzatosi in un’immagine popolare e inattaccabile, dove non c’è alcun posto per le domande o le riflessioni. Cosa significhi essere volontari o volontarie non è importante, ci basti sapere che compiono il bene e nulla più. In fin dei conti, l’unica certezza è che il volontariato occupa un posto preciso nel nostro mondo e che le parole si sprecano da ogni parte. Su volontari e volontarie sta sempre puntato un riflettore che ne illumina il lato migliore, nascondendone il negativo.
Ma cosa li rende così speciali? Perché il volontario sorride, mentre l’impiegato bestemmia? Il trionfo di tutto questo palinsesto retorico poggia su una enorme voragine apertasi tra il tempo libero e quello del lavoro: da una parte stanno il senso e i valori, dall’altra l’obbligo e i “schei”. Come volontari e volontarie abitiamo il tempo del non lavoro, la bontà della gratuità, uno spazio in cui noi ci siamo e siamo noi stessi, in cui ogni gesto è organico con il nostro tutto, in cui possiamo essere umani, buoni o eroi. Lavorando, invece, siamo traditi dalla paga, diventiamo macchinine, sfigati o opportunisti e, a differenza di chi dona sé stesso, né sgobbiamo né bestemmiamo gratis, ma per campare.
Chissà che cosa pensa di sé un netturbino mentre, alle quattro del mattino, raccoglie il pattume sotto appartamenti estranei. Chissà cosa pensano di lui gli altri. Chissà cosa racconta a casa della propria giornata tra l’immondizia. Probabilmente non si farà mai una foto da mostrare sui social accanto a un bidone o in discarica. Se nel mondo del lavoro esistessero una serie A e una serie B, chissà dove starebbe lo spazzino… Eppure quei ragazzi in spiaggia, sorridenti e in posa di fronte a enormi sacchi neri sembrano così contenti. Sembrano così sereni quei volontari indaffarati con le cartacce tra le vie della propria città. Sembrano proprio dei bravi ragazzi, si divertono e aiutano gli altri. Sembra quasi che non facciano la stessa cosa, spazzini e volontari:
raccogliere la nostra spazzatura.
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