Siam pronti alla vita!
Expo, Milano 2015. Il Primo maggio è la festa dei lavoratori e delle lavoratrici. Nel 2015 la giornata coincideva con l’inaugurazione dell’esposizione universale intitolata Nutrire il pianeta. Energie per la vita. Un milione e duecentomila metri quadrati di grigia periferia milanese convertiti in puro spettacolo architettonico, ingegneristico e culinario. La vetrina di un progresso che si autodichiara eticamente ed ecologicamente compatibile, l’orgoglio di un’Italia che vuole risollevarsi dalla crisi economica. Il 2008 è lontano, è tempo di rialzare la testa, di rimuovere il passato: «siam pronti alla vita!», dichiara il presidente del consiglio Matteo Renzi, premurandosi di ringraziare lavoratori e lavoratrici che, forse, non avrebbero reso la cortesia di fronte all’autore di una delle peggiori riforme del lavoro degli ultimi tempi. Ma niente polemiche, niente gufi, niente «professionisti del non ce la farete mai»: qui si è «tutti uniti» a celebrare il successo. «L’Italia s’è desta», non è nostalgica e ha sete di futuro.
Uniti. Nelle strade di Milano, lo stesso giorno, sfila il corteo no Expo. Ricordiamo tutti le immagini di guerriglia urbana che ne sono rimbalzate dagli schermi televisivi alle pagine della stampa nazionale: fumogeni, rumore di sirene, residui di abiti neri lasciati in terra dai cosiddetti black bloc dopo le azioni vandaliche. Immagini riduttive rispetto alla realtà di una manifestazione ampiamente partecipata e principalmente non violenta, seppur conflittuale. Le voci istituzionali hanno scandito una condanna unanime nei confronti dei manifestanti che hanno tentato di rovinare la festa, dei «farabutti col cappuccio» che ora – parola di Alfano – «se la vedranno dura». Renzi si affretta a fornire all’opinione pubblica un’interpretazione dicotomica della situazione, tracciando una linea netta di confine fra il bene e il male: «il volto autentico di Milano è quello, positivo nobile e bello, dell’apertura dell’Expo al mondo e al futuro. Il messaggio di lavoro, orgoglio e valori che viene da Expo non può essere e non sarà insultato dai violenti e da questi vigliacchi incappucciati».
Lavoro, orgoglio e valori contro violenza nichilista, fine a sé stessa. Ironia della sorte: uno dei motivi della protesta no Expo era esattamente lo sfruttamento di lavoratori e lavoratrici all’interno della grande manifestazione: a fianco dei contratti flessibili (prime emanazioni del Jobs Act), del ricorso a man bassa a stage, tirocini e studenti in alternanza scuola lavoro, vanno enumerati i volontari. Su circa 16.000 lavoratori – di cui soltanto 1000 assunti dall’Expo S.p.a. – 10.000 sono i volontari (8000 dei quali organizzati dalla rete CSV – centro servizio per il volontariato). Molti di questi sono giovani, esattamente come quelli che stanno sfilando contemporaneamente per le strade della stessa città. Niente cappucci neri, però: indossano sgargianti casacche colorate abbinate ai grandi sorrisi con cui accolgono i visitatori, rendendosi disponibili alle loro richieste, aiutandoli a orientarsi nel labirinto esperienziale di Expo. Come hostess. Ma sono volontari
A distanza di anni il modo in cui è stata narrata Expo risulta significativo: ci è stata messa davanti l’istantanea di una generazione scissa fra buoni e cattivi e ci è stato chiesto di scegliere. Sappiamo però che quando le immagini sono così sovraesposte, si celano le ombre della realtà che appare di conseguenza estremamente nitida, ma pure irrimediabilmente piatta e falsificante. Se volessimo provare a ridare spessore ai volumi, potremmo notare quanto Expo sia stato un primo laboratorio per la sperimentazione di quella ristrutturazione generale del terzo settore (l’insieme di associazioni, cooperative, enti non profit) oggi in atto. Un ripensamento che è volto contemporaneamente a una migliore organizzazione di quel sottobosco di attività, ma anche a una loro funzionalizzazione nel quadro dell’attuale sistema economico. Expo è stato un esperimento in grande di collaborazione corporativa fra pubblico e privato, fra profit e non profit. Un connubio che viene celebrato da parte di un organismo statale che tende alla conservazione e all’incorporazione sinuosa di qualsiasi elemento di disturbo. O alla sua criminalizzazione, in caso non risulti in alcun modo malleabile.
Il potenziale effettivo di alternativa e denuncia che il volontariato – con i suoi valori di solidarietà, comunità, gratuità – racchiude nei confronti del modello neocapitalistico di organizzazione dell’economia e della società, risulta, all’interno di una simile rilettura, disinnescato. L’obiettivo pare quello di inglobare la funzione del volontariato in un progetto di cooperazione armonica a cui – quasi come nel caso del voto utile – dicono sia meglio aderire se non si vuole essere responsabili di una regressione verso la barbarie. E la barbarie è violenza. Ogni tipo di conflittualità viene in tal modo incriminata e denigrata pubblicamente come fattore unicamente distruttivo. Ci hanno insegnato che conflitto è sinonimo di violenza, che bisogna limitarsi a celebrare il progresso e collaborare a un miglioramento complessivo della società. Ma senza conflittualità qualsiasi pace è coatta, è scelta e imposta dall’alto e solitamente a detrimento delle classi inferiori.
Il risultato di anni e anni di una simile retorica di demonizzazione si può misurare nelle reazioni dell’opinione pubblica in occasione di Expo: l’indignazione nei confronti dei manifestanti ha distratto da quella che la mancata promessa di assunzioni da parte della S.p.a avrebbe dovuto sollevare. Generale è stata l’ammirazione nei confronti del giovane volontario che si è messo a disposizione della comunità. Purtroppo esiste – in questo caso come in altri – un rapporto di proporzionalità fra la diminuzione delle posizioni lavorative e l’aumento dei volontari che va rimarcata per denunciare un uso indebito di una funzione sociale i cui scopi umanitari possono venire snaturati e rifunzionalizzati. Non si vogliono certo incolpare i volontari in sé, né metterne in dubbio le buone intenzioni. Questi stessi giovani, del resto, in un contesto di enorme precarietà e incertezza professionale, cercano qualsiasi modo per rimpolpare il proprio curriculum vitae. Ma il volontariato allora equivale a un tirocinio? Non secondo la legge:
Legge n.266, 1991 Ai fini della presente legge per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà.
Resilienza è il valore del millennio
Non è un caso che il modello di volontariato sperimentato con Expo 2015 sia diventato oggetto di studio. In particolare le Università di Milano e Verona hanno analizzato – e in qualche modo anche contribuito a creare – il tipo antropologico del volontario del futuro. Secondo il sociologo Maurizio Ambrosini, infatti, la forma tradizionale di concepire il volontariato deve sapersi modificare per aderire meglio a esigenze, aspettative e desideri delle nuove generazioni e del contesto in cui sono inserite. Nasce così, a partire da un’elaborazione di dati, la fisionomia del volontariato postmoderno. E si diffonde come una sfida lanciata ai CSV e alle associazioni a svecchiarsi, se non vogliono scomparire. Bisogna essere assolutamente fluidi, rompere gli schemi, aderire ai movimenti esterni e non contrastarli se no si finisce a pezzi. Ma chi sia il motore che dà origine a quei movimenti, non ci è dato sapere. Pare che questo sia una specie necessità neutra e inalterabile. E quindi s’ha da fare e punto.
Il volontario postmoderno si manifesta generalmente nel corso di grandi eventi: la sua partecipazione è puntuale e saltuaria. Non garantisce alcuna presenza continuativa, non ne avrebbe tempo, oppure si annoia facilmente. Il suo livello culturale è medio alto e di preferenza sceglie di attivarsi nell’ambito di manifestazioni culturali, o quantomeno ludiche, leggere e divertenti. Tendenzialmente non appartiene ad alcuna organizzazione, anzi svela un certo prurito nei confronti di quelle che Ambrosini chiama «divise, etichette e stellette». Alla subordinazione a qualsiasi tipo di organizzazione, contrappone eccezionalità, autonomia e personalismo. L’esperienza di volontariato è per lo più vissuta, infatti, come trampolino di lancio o occasione per il singolo: di fare conoscenze, di accumulare competenze. Ciò, a parere di Ambrosini, non entrerebbe in contrasto con la dimensione civica e altruistica tipica del volontariato tradizionale, semplicemente proporrebbe un’integrazione di sfere (per sé e per gli altri), che troverebbero un eccezionale e insperato equilibrio, in grado di lasciarsi alle spalle tanto quel senso di abnegazione cattolica, quanto l’individualismo feroce e cattivo della società contemporanea.
Questo ritratto del nuovo tipo di volontariato può essere interpretato in controluce, nei caratteri ideologici che cela, orientati a conformare una certa figura sociale a una specifica idea di mondo. Prendiamo in primo luogo l’episodicità dell’impegno: si fa qualcosina quando si può, tanto per rattoppare qualche buco (come quando si fa l’elemosina o una donazione) o per contribuire una tantum alla scena culturale artistica del posto in cui si vive senza la pretesa di modificare o mettere in discussione nulla in maniera maggiormente approfondita e strutturale. Il carattere saltuario del volontariato ridimensiona in qualche modo quella spinta utopica complessiva a cambiare la realtà che solitamente anima chi vi si dedica in maniera maggiormente continuativa.
Il crescente successo di un volontariato culturale, a sua volta, parla della rimozione della sofferenza e del trauma a favore di attività più confortevoli e stimolanti. Ne deriva l’immagine di un Paese coeso, civile e attrattivo come un parco giochi, i cui bisogni si limitano all’intrattenimento o all’approfondimento culturale (festival, concerti, grandi manifestazioni) e non svelano le piaghe tracciate dalla disuguaglianza sociale (povertà, senzatetto) o dall’impossibilità di conformarsi ai ritmi di questo tipo di esistenza (anziani, malati, malati mentali).
Infine, quella che Ambrosini chiama la «disintermediazione» del volontario postmoderno, la sua ostilità a qualsiasi forma organizzativa, oltre a una mancanza di progettualità, manifesta l’insofferenza contemporanea nei confronti di ogni appartenenza e ideologia (che non sia quella dominante e naturalizzata). L’autenticità del soggetto, anche nei suoi aspetti più autoreferenziali e narcisistici, viene in una simile lettura valorizzata e contrapposta all’intruppamento, alla politica in generale che, essendo qualcosa di essenzialmente marcio, non deve intaccare la sfera civica che si manifesta nel volontariato.
Dagli studi su Expo parte la proposta di un volontariato resiliente, che sappia adattarsi alle trasformazioni del contesto circostante. La resilienza è una qualità: consiste nella capacità di reagire ai mutamenti senza farsi travolgere e disintegrare. Ma nei discorsi che sempre più spesso vi ricorrono, pare che il significato di questa parola si deformi, traducendosi in adeguamento silenzioso, quando non compiacente, allo stato di cose. Per fortuna il volontariato che si pratica rimane qualcosa di diverso da quello che viene teorizzato e implementato dai discorsi ufficiali. Le retoriche dominanti non descrivono, infatti, una realtà già in atto, ma ne modellano una a cui puntare. Da questa spinta adulatrice e modellante, quindi, il volontariato che ancora oggi si fa dovrà sapersi difendere, preservando quell’elemento conflittuale e utopico che permette di mettere in questione, attraverso una pratica, l’esistente.
Volontariati
Padova febbraio 2020, Città europea del volontariato. L’inaugurazione si tiene in fiera, è una grigia mattinata invernale, tranquilla tutto sommato, ancora nemmeno si immagina la possibilità dell’epidemia in Italia. Ci sono stati, a partire dall’autunno, alcuni sgomberi – uno dei quali sottoscritto dal comune stesso – di realtà che facevano mutualismo in città. Si trattava di gruppi più o meno organizzati, che si occupavano di distribuire cibo, organizzare corsi di lingua e doposcuola o fornire altri tipi di aiuto materiale o psicologico a chiunque ne necessitasse. Ma quella era politica, le attività erano tendenziose e intrise di polemica, giustifica l’amministrazione. Ora, come celebra lo slogan ufficiale dell’evento, «Ricuciamo insieme l’Italia». Senza distinguo e ideologie. E nel rispetto della legalità. I padiglioni della fiera si affollano di gente: fra questi i giovani volontari o potenziali tali. Poi ci sono imprenditori, rappresentati di filiali bancarie che finanziano il progetto, docenti universitari, tutti pronti a elaborare la propria ricetta di volontariato. Quella della fondazione Cariparo, ad esempio: «I giovani di oggi sono più fedeli all’ideale che alla logica di gruppo: il volontariato si sta facendo più fluido e le associazioni devono imparare a superare il concetto del tesseramento». Il discorso non suona nuovo: un ponte retorico unisce Expo 2015 a Padova 2020. Un immaginario si sta diffondendo dall’alto più che dal basso: l’evento serve a consolidarlo.
In prima fila, a godersi lo spettacolo, si schiera una buona fetta dell’establishment nazionale e veneto: le istituzioni rendono il loro omaggio formale al terzo settore e in particolare esaltano la funzione del volontariato nella società contemporanea. Mattarella parla di «corpo intermedio della Repubblica», fondamentale per rimediare ai danni o alle dimenticanze delle istituzioni, pomata lenitiva sulle ferite causate dall’amministrazione politica e dalle sue scelte spregiudicate e necessarie. Collante umano, quindi, in grado di garantire la coesione sociale e il funzionamento di un Paese che non si frammenta. La passione viene contrapposta come scudo all’indifferenza, la fratellanza all’odio, la comunità all’individualismo. I termini sono generici e assolutamente validi, universalmente applauditi dai ministri, dalle aziende, dai ragazzi e dai bambini. Ma chi l’avrà mai creato questo mondo individualista e infame, ai danni del quale ora ci tocca rimediare uniti?
Uniti. Il governatore leghista Luca Zaia, affacciandosi sul podio, parla di una comunità di volontariato locale e identitaria. A quanto pare il volontariato sarebbe inscritto nel DNA di questa popolazione, che a quanto pare ne ha uno specifico e distinto. È con orgoglio personale che snocciola i numeri, come si farebbe nel contesto di una competizione: «in Veneto sono 2500 le organizzazioni che fanno volontariato; 1500 le realtà che si occupano di sociale, più di 30000 realtà associative che coinvolgono un veneto su cinque. 900.000 veneti che dedicano il proprio tempo libero alla comunità».
Saranno tutti veneti? Il presidente non ne dubita: deve avere fatto un test del DNA a ciascuno. Poi arrivano i primati, sempre enumerati «con un po’ di orgoglio: Siamo la prima comunità al mondo per numero di missionari; e non è un caso che noi siamo anche la comunità che ha dato vita alla prima ONG Medici con l’Africa» guidata dal prete timoniere Don Dante. Aggiungiamo il Credito cooperativo e le scuole paritarie per l’infanzia, che, secondo le parole del presidente, sarebbero un dono che religiosi e privati – veneti ovviamente – fanno alle famiglie che altrimenti non saprebbero dove mandare i propri figli mentre lavorano. I dati sono selezionati con attenzione: si sottolineano le attività religiose e l’apporto dei privati al benessere comunitario. Si tirano un po’ le orecchie allo Stato, il cui centralismo inefficiente e burocratizzato viene contrapposto alla pronta risposta dell’amministrazione regionale. La chiusa è coerente con l’intera linea di discorso: «Per noi questo è DNA, sono i tratti somatici della nostra identità. Però voglio anche dire che questi tratti somatici vengono da una radice cristiana che noi abbiamo, no? La solidarietà e la compassione. Però me lo lasci anche dire, anche l’autonomia e la sussidiarietà… Avere un problema e autonomamente risolverlo». Fare i volontari a casa nostra, per i nostri o per educare gli altri alla nostra civiltà, il tutto nei modi che rispondono al DNA locale.
Il discorso di Zaia, fastidioso o comico nel suo identitarismo, è perfetto per mettere in evidenza ciò che è vero in un senso più generale: sul volontariato oggi si sta giocando una battaglia e ciascuno ne supporta una propria specifica interpretazione, tentando di imporla come dominante neutra attraverso le armi sottili della retorica e dell’immaginario. La realtà è che non esiste il volontariato: ne esistono vari tipi a seconda degli obiettivi che ci si pone e dei principi da cui si parte. Il volontariato spesso non è una scelta politica, ma personale ed etica, la quale però, nell’azione, interseca necessariamente una dimensione più ampia e latamente politica. Nasconderselo per rifiuto o timore dell’effetto corruttore delle ideologie, significa ignorare il fatto che forme di ideologia operano costantemente nel nostro mondo e meno sono evidenti, più sono insidiose. Partiamo quindi da qui: il modello del volontariato postmoderno è ideologico tanto quanto quello leghista. La neutralità è una chimera e, a dispetto della buona volontà del singolo che vorrebbe che la sua partecipazione fosse libera, si allinea al discorso dominante.
La prova del nove
Al di qua delle parole esiste ancora e sempre il mondo concreto. A volte i suoi sommovimenti sono talmente violenti da far cascare i castelli di carte. La crisi sanitaria globale ha messo decisamente a repentaglio alcune retoriche del volontariato postmoderno, soggettivo e flessibile. Si ricomincia a parlare di organizzazione, tanto quanto di sofferenza e addirittura di povertà. Discorsi che probabilmente, lontano dalle luci della ribalta, non erano mai stati interrotti. La società mostra le sue contraddizioni in maniera scoperta: gli squilibri nella distribuzione della ricchezza, la rapacità di Confindustria, il disorientamento dei lavoratori chiamati a dover scegliere fra salute e busta paga, l’insufficienza delle misure statali per garantire la sicurezza e il benessere di tutti. Le reti di volontariato si sono rivelate indispensabili alla tenuta del tessuto sociale durante questa fase. Prendiamo ad esempio Padova, che ha dovuto radicalmente ripensarsi nel proprio ruolo di capitale del volontariato: non più vetrina di un “prodotto” da modernizzare e sponsorizzare, ma centro di una pratica da diffondere con urgenza. Comune e CSV si sono messi in testa a una rete di volontari singoli e di associazioni, coordinando alcune attività di aiuto e supporto sociale, che vanno dal telefono amico, alla distribuzione dei buoni spesa, alla consegna di pacchi alimentari. Oltre ai finanziamenti statali, visto il numero crescente delle richieste, è stato necessario fare ricorso alle donazioni di privati, i quali hanno senza dubbio mostrato la propria generosità.
Eppure non basta. Le cassette alimentari iniziano a svuotarsi, la beneficienza non è costante, qualche volontario non sorride più, sopraffatto da un senso di inutilità. Le famiglie hanno ancora fame, le persone sono impoverite. Anche questo lascia filtrare la crisi sanitaria attuale: il volontariato, come ogni tipo di azione individuale, mette una toppa. Non può risolvere una situazione strutturalmente ingiusta. Il welfare non è da demandarsi alle risorse private o al senso di responsabilità civica degli individui, tanto meno delle aziende che ragionano in una logica di profitto.
Sono stati continui, pure in questo periodo, i richiami dall’alto a un’unità: a una cooperazione virtuosa fra varie realtà del mondo del profit, del non profit, delle istituzioni, dei singoli stessi, affinché questa situazione possa risolversi e si possa tornare alla normalità. Senza chiedersi se a quel tipo di normalità si voglia effettivamente tornare e se questa armonia fra le parti sia necessariamente la soluzione migliore per tutti, o non significhi, ancora una volta, fare le parti uguali fra disuguali. Forse sarebbe meglio interrogare fini e metodi del proprio “committente” prima di mettervisi al servizio, favorendone la riproduzione. O trovare modi che, senza sospendere il servizio, non corroborino però il sonno sociale, incentivando la partecipazione e l’organizzazione di chi si trova ai margini e anche la conflittualità che può derivare da una percezione – mai tanto chiara quanto oggi – dell’ingiustizia.
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