È il 1978 e Libertino Faussone s’aggira per l’Europa. Montatore di gru e tralicci, costruttore di ponti, è un operaio specializzato che gira il mondo grazie alle sue abilità lavorative. In testa due punti fissi: l’autonomia e la realizzazione di sé attraverso il lavoro.
«Sa, non è per il padrone. A me del padrone non me ne fa mica tanto, basta che mi paghi quello ch’è giusto e che coi montaggi mi lasci fare alla mia maniera. No, è per via del lavoro: metter su una macchina come quella, lavorarci dietro con le mani e con la testa per dei giorni, vederla crescere così, alta e dritta, forte e sottile come un albero, e che poi non cammini, è una pena: è come una donna incinta che le nasca un figlio storto o deficiente, non so se rendo l’idea». La rendeva, l’idea. Nell’ascoltare Faussone si andava coagulando dentro di me un abbozzo di ipotesi, che non ho ulteriormente elaborato e che sottopongo qui al lettore: il termine “libertà” ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo
P. Levi, La chiave a stella, Torino, Einaudi, 1978, p. 146
Quando Primo Levi scrive La chiave a stella, romanzo in cui dà vita a Faussone, senza saperlo, si trova a prefigurare il futuro. Faussone condensa in sé molte aspirazioni che il mondo del lavoro subordinato stava esprimendo – libertà, autonomia, realizzazione nel lavoro, etc. –, si tratta di desideri in conflitto con il progetto di civiltà del capitalismo di allora. Tutte le potenze della vecchia economia si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo lavoratore libertino, e per averne la meglio il fordismo ha dovuto ristrutturarsi e cedere una parte di sé; nasce così il post-fordismo, il sistema di produzione su cui si basa, ancora oggi, tutto l’Occidente.
Raccontare una storia partendo dalle conclusioni non è sempre una buona mossa retorica, in questo caso, dato che per il senso comune le cose stanno esattamente all’opposto, potrebbe perfino essere un errore fatale; un po’ come giocare a carte scoperte e aspettarsi di vincere. La narrazione standardizzata degli ultimi quarant’anni ci racconta, infatti, che le aspirazioni libertarie del decennio ’68 -’77 erano figlie di ragazzotti benestanti, e le poche ad essere legittime non sono state castrate dal sistema produttivo, ma anzi sono state accolte e, attraverso un impressionante sviluppo tecnologico, favorite e stimolate; prego quindi. Ma questa versione della storia è frutto di un’interpretazione funzionale agli scopi di chi quel conflitto l’ha vinto.
Val la pena, allora, grattare un po’ di incrostazioni depositate da quasi mezzo secolo di neoliberismo e guardare sotto la superficie. Raccontiamo questa storia, e, sempre per giocare a carte scoperte, poniamoci tre domande guida: da dove venivano quelle tensioni? Contro cosa si esprimevano? Che fine hanno fatto? Il post-fordismo saldato al neoliberismo ha messo al lavoro le aspirazioni di Faussone soprattutto su due fronti: il primo è quello del lavoro subordinato, organizzato secondo nuove strategie di gestione delle risorse umane; il secondo è il lavoro autonomo.
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